“Questo distruggerà quello”: la storia del mondo scritta nel libro dell’architettura. Victor Hugo

victor-hugoClaude Frollo, e i suoi pensieri sospesi tra un libro e l’imponente facciata di Notre Dame. Ed è una stupenda scatola cinese, perché tra quelle pagine di Hugo- che mi muovono sempre, credetemi, qualche volta fino alle lacrime – si legge dell’intera storia dell’Umanità, così come è stata scolpita nel più vistoso libro che sia mai stato scritto. E di come a quel pensiero solido se ne sia sostituito uno più vivo.

“Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio.
Questo pensiero, ci sembra, aveva due facce. Anzitutto era il pensiero di un prete. Era il terrore del sacerdozio davanti a un fenomeno nuovo, la stampa. Era lo spavento e l’accecamento dell’uomo del santuario davanti al torchio luminoso di Gutenberg. Era la cattedra e il manoscritto, la parola parlata e quella scritta, in allarme davanti alla parola stampata; qualcosa come lo stupore di un passerotto che vedesse l’angelo della Legione aprire tutti i suoi sei milioni di ali. Era il grido del profeta che sente rumoreggiare e brulicare l’umanità emancipata, che vede nell’avvenire l’intelligenza soppiantare la fede, l’opinione detronizzare la religione, il mondo scuotere Roma. Pronostico del filosofo che vede il pensiero umano, volatilizzato dalla stampa, evaporare dal vaso teocratico. Terrore del soldato che esamina l’ariete di bronzo e che dice: la torre crollerà. Questo significava che un potere stava per succedere ad un altro potere. Questo voleva dire: la stampa ucciderà la chiesa.
Ma sotto questo pensiero, senza dubbio il primo e il più semplice, ce n’era a nostro avviso un altro più nuovo, un corollario del primo, meno facile da avvertire e più facile da contestare, una visione altrettanto filosofica, non più del prete soltanto, ma del sapiente e dell’artista. Era il presentimento che il pensiero umano, cambiando di forma, avrebbe cambiato nel modo di espressione, che l’idea capitale di ogni generazione non sarebbe più stata scritta con lo stesso materiale e nella stessa maniera, che il libro di pietra, così solido e durevole, avrebbe fatto posto al libro di carta, più solido e più durevole ancora. Sotto quest’aspetto la formula vaga dell’arcidiacono aveva un secondo senso; significava che un’arte avrebbe detronizzato un’altra arte. Voleva dire: La stampa distruggerà l’architettura.
In effetti dall’origine delle cose fino a tutto il quindicesimo secolo dell’era cristiana, l’architettura è il grande libro dell’umanità, l’espressione principale dell’uomo nei diversi gradi del suo sviluppo, in quanto forza e in quanto intelligenza. Quando la memoria delle prima razze fu satura, quando il bagaglio di ricordi divenne per il genere umano così pesante e confuso che la parola, nuda e volante, rischiò di impolverirlo nel proprio andare, questi ricordi furono trascritti sul suolo nella maniera più visibile, più durevole e insieme più naturale, Ogni tradizione fu suggellata sotto un monumento.
(…) L’architettura cominciò come ogni scrittura. Fu anzitutto alfabeto. Si metteva una pietra dritta, ed era una lettera, e ogni lettera era un geroglifico e su ogni geroglifico poggiava una serie di idee come il capitello su una colonna.Così fecero i primi uomini, dovunque, nello stesso momento, sulla superficie del mondo intero. La pietra alzata dei celti si ritrova nella Siberia asiatica, nella pampas americane.
Più tardi si fecero parole. Una pietra fu sovrapposta a un’altra, le sillabe di granito si accoppiarono, il verbo tentò qualche combinazione. Il dolmen e il cromlech celti, il tumulo etrusco, il galgal ebraico sono parole. Alcuni, il tumulo sopratutto, sono nomi propri. Talvolta, quando la pietra era molta e c’era un vasto spazio, si scriveva una frase. L’immenso cumulo di Karnac è una formula completa.
Vennero infine i libri. Le tradizioni avevano generato simboli, sotto i quali esse sparivano come il tronco d’albero sotto il fogliame. Tutti questi simboli, nei quali l’umanità credeva, andavano crescendo, moltiplicandosi, incrociandosi, complicandosi sempre di più; i primi monumenti non bastavano più a contenerli, ne traboccavano da ogni parte, a stento quei monumenti esprimevano ancora la tradizione primitiva, semplice, nuda e fissata al suolo come quelli erano. Il simbolo doveva espandersi nell’edificio. Allora l’architettura si sviluppò con il pensiero umano; divenne gigantesca, ebbe mille teste e mille braccia, e fissò in una forma eterna, visibile, palpabile, tutto quel fluttuante simbolismo. Mentre Dedalo, che è la forza, misurava, mentre Orfeo, che è l’intelligenza, cantava, il pilastro che è una lettera, l’arcata che è una sillaba, la piramide che è una parola, mossi da una legge che è insieme geometrica e poetica, si raggruppavano, si combinavano, si fondevano, scendevano, salivano, si disponevano vicini sul suolo, o in diversi piani nel cielo, fino a che non avessero scritto, dettati dall’idea generale di un’epoca, quei libri meravigliosi che erano anche meravigliosi edifici: la pagoda di Eklinga, il Ramseion egiziano, il tempio di Salomone.
L’idea madre, il verbo, non solo era al fondo di tutti questi edifici, ma anche nella loro forma. Il tempio di Salomone, per esempio, non era semplicemente la rilegatura del libro santo, era proprio il libro santo. In ciascuno dei suoi recinti concentrici i preti potevano leggere il verbo tradotto e palesato agli occhi e seguirne le trasformazioni di santuario in santuario fino ad afferrarlo nell’ultimo tabernacolo nella forma più concreta e ancora architettonica; l’arca. In tal modo il verbo era contenuto nell’edificio, ma era l’involucro di questo a esprimerne l’immagine, come la figura umana sul sarcofago di una mummia. E non solo la forma degli edifici ma anche la posizione in cui si situavano rivelava il pensiero in essi rappresentato. A seconda che esprimessero un simbolo leggiadro o cupo, la Grecia coronava le proprie montagne di un tempio armonioso all’occhio, l’India sventrava le sue per cesellarvi quelle deformi pagode sotterranee sostenute da gigantesche file di elefanti di granito.
In tal modo nei primi seimila anni del mondo dalla più immemorabile pagoda dell’Indostan alla cattedrale di Colonia, l’architettura è stata la grande scrittura del genere umano. E questo è talmente vero che non soltanto ogni simbolo religioso, ma anche ogni pensiero umano ha in quel libro immenso la propria pagina e il proprio monumento.
Ogni civiltà comincia con la teocrazia e finisce con la democrazia. Questa legge della libertà che succede all’unità è scritta nell’architettura.
Infatti, insistiamo su questo punto, non bisogna credere che l’arte muraria si limiti a costruire il tempio, a esprimere il mito e il simbolismo sacerdotale e a trascrivere in geroglifici sulle proprie pagine di pietra le tavole misteriose della legge.(…)
Prendiamo per esempio il Medioevo, in cui noi vediamo più chiaro perchè ci è più vicino. nel periodo iniziale, mentre la teocrazia organizza l’Europa, mentre il Vaticano riunisce e riassetta intorno a sè gli elementi di una Roma i cui ruderi giacciono intorno al Campidoglio, mentre il cristianesimo va cercando tra le macerie della civiltà precedente tutti gli stadi della società e ricostruisce con queste rovine un nuovo universo gerarchico di cui il sacerdozio è la chiave di volta, si sente dapprima scaturire da questo caos, e poi a poco a poco si vede sotto il soffio del cristianesimo, sotto la mano dei barbari alzarsi dagli sterrati delle morte architetture greca e romana, questa misteriosa architettura romanica, sorella delle murature teocratiche egiziane e indiane, emblema inalterabile del cattolicesimo puro, immutabile geroglifico dell’unità papale.
Tutto il pensiero di allora è infatti scritto in quel cupo stile romanico. Vi si sente ovunque l’autorità, l’unità, l’impenetrabilie, l’assoluto, Gregorio VII; dovunque il prete, mai l’uomo, dovunque la casta, mai il popolo. Ma arrivano le crociate. E’ un grande movimento popolare, e ogni movimento popolare, quali che ne siano le ragioni e il fine, libera sempre, nella fase di estrema concentrazione, lo spirito di libertà.Nuovi eventi si fanno strada. Ecco che si apre il periodo tempestoso delle Jacqueries, delle Fragueries e delle Leghe. L’autorità è scossa, l’unità si biforca. Il mondo feudale vuole fare a mezzo con la teocrazia, attendendo il popolo che sopraggiungerà inevitabilmente e che si prenderà, come sempre, la parte del leone.Quia nominor leo. La signoria spunta pertanto sotto il sacerdozio, il comune sotto la signoria. Il volto dell’Europa è cambiato. Ebbene, anche il volto dell’architettura è cambiato. Come la civiltà, anch’essa ha voltato pagina e lo spirito rinnovato del tempo la trova pronta a scrivere ciò che le verrà dettato. E’ tornata dalle crociate con l’ogiva, come le nazioni con la libertà. Allora, mentre Roma si smembra a poco a poco, l’architettura romanica muore. (…)
La cattedrale stessa, questo edificio in altri tempi così dogmatico, invasa ormai dalla borghesia, dal comune, dalla libertà, sfugge al prete e cade in balìa dell’artista. L’artista la costruisce a modo suo. Addio mistero, addio mito, addio tempo. Ecco la fantasia e il capriccio. Il prete, purchè abbia basilica e altare, non ha nulla da dire. Le quattro mura appartengono all’artista. Il libro dell’architettura non è più del sacerdozio, della religione, di Roma. E’ dell’immaginazione, della poesia, del popolo. Di qui le rapide e innumerevoli trasformazioni di questa architettura che ha solo tre secoli, così sorprendenti dopo l’immobilità stagnante dell’architettura romana che ne ha sei o sette. L’arte procede tuttavia a passi di gigante. Il genio e l’originalità popolari fanno quello che faceva il vescovo. Ogni generazione nel suo passaggio scrive una riga sul libro. Raschia i vecchi gerogilifici romani sul frontespizio delle cattedrali ed è già molto se si vede ancora il dogma affiorare qua e là sotto il nuovo simbolo che essa vi depone. L’ossatura religiosa è appena decifrabile sotto i panneggi del popolo. Impossibile farsi un’idea delle licenze che si prendono allora gli architetti, anche verso al chiesa. (…) C’è a quell’epoca, per il pensiero scritto sulla pietra, un privilegio del tutto paragonabile alla nostra attuale libertà di stampa. E’ la libertà di architettura.
Tale libertà va molto lontano. A volte un portale, una facciata, una chiesa nel suo complesso esprime significati simbolici assolutamente estranei al culto o addirittura ostili alla chiesa. Guillame di Parigi fino al tredicesimo secolo, Nicolas Flamel nel quindicesimo hanno scritto di queste pagine sediziose. Saint-Jacques-de-la-Boucherie era tutta una chiesa di opposizione.
Il pensiero a quel tempo non era libero se non in questa maniera, ossia non veniva completamente scritto altro che in questi libri chiamati edifici. Privo della forma dell’edificio lo si sarebbe visto bruciare sulla pubblica piazza per mano del carnefice sotto forma di manoscritto, se fosse stato così imprudente da assumere questa forma. In forma di portale da chiesa avrebbe potuto assistere al supplizio di se stesso in forma di libro. Così, non avendo altra strada per esprimersi se non l’edilizia, vi si rifugiò da qualunque parte provenisse. Da ciò l’immensa quantità di cattedrali che hanno invaso l’Europa in numero così straordinario che appena vi si crederebbe pur avendolo verificato. Tutte le forze materiali, tutte quelle intellettuali della società convergevano in uno stesso punto: l’architettura. In tal modo, con il pretesto di costruire a Dio delle chiese, si sviluppava un’arte di magnifiche proporzioni.
A quel tempo, chiunque nascesse poeta diveniva architetto. (…)
Così, fino a Gutenberg, l’architettura è la scrittura principale, la scrittura universale. Di questo libro di granito, cominciato dall’Oriente, continuato dall’antichità greca e romana, il medioevo ha scritto l’ultima pagina. Del resto, questo fenomeno di un’architettura del popolo che succede a un’architettura di casta quale noi abbiamo constatato nel Medioevo si riproduce in ogni analogo movimento dell’intelligenza umana nelle altre grandi epoche della storia.
Così, per enunciare solo sommariamente una legge che per essere spiegata richiederebbe interi volumi,nell’antico oriente, culla delle prime età, dopo l’architettura indù, l’architettura fenicia, questa madre opulenta dell’architettura araba;nell’antichità, dopo l’architettura egiziana di cui lo stile etrusco e i monumenti ciclopici non sono che una variazione, l’architettura greca di cui lo stile romano non è che un prolungamento caricato dalla cupola cartaginese; nei tempi moderni, dopo l’architettura romanica, l’architettura gotica.
E sdoppiando queste tre serie si ritroverà nelle tre sorelle maggiori, l’architettura indù, l’architettura egiziana, l’architettura romanica, lo stesso simbolo: cioè la teocrazia, la casta, l’unità, il dogma, Dio; e per le tre sorelle cadette, l’architettura fenica, l’architettura greca, l’architettura gotica, quale che sia del resto la diversità di forma inerente alla loro natura, si ritroverà lo stesso significato: cioè la libertà, il popolo, l’uomo.
Che si chiami bramino, mago o papa nelle costruzioni indù, egiziane o romaniche, si sente sempre il prete, nient’altro che il prete. Non è così nelle architetture del popolo, che sono più ricche e meno sacre. In quella fenicia, si sente il mercante, in quella greca, il repubblicano, in quella gotica, il borghese.
I caratteri generali di ogni architettura teocratica sono l’immutabilità, l’orrore del progresso, la conservazione delle linee tradizionali, la consacrazione dei tipi primitivi, il costante piegarsi di tutte le forme dell’uomo e della natura ai capricci incomprensibili del simbolo. Sono libri oscuri, che solo gli iniziati sanno decifrare. (…) In tali architetture sembra che la rigidità del dogma si sia sparsa sulla pietra come una seconda pietrificazione. I caratteri generali delle costruzioni popolari, al contrario sono la varietà, il progresso, l’originalità, l’opulenza, il movimento perpetuo. Sono già abbastanza staccate dalla religione per pensare alla propria bellezza, per curarla, per correggere senza posa il loro ornamento di statue o di arabeschi. Appartengono al secolo. Hanno qualcosa di umano che frammischiano continuamente al simbolo divino sotto il quale ancora si presentano. Per questo sono edifici raggiungibili da qualunque anima, da qualunque intelligenza, da qualunque immaginazione, simbolici ancora, ma facili da comprendere come la natura. Tra l’architettura teocratica e questa, c’è la stessa differenza che corre tra una lingua sacra e una volgare, tra il geroglifico e l’arte, tra Salomone e Fidia.
(…)L’architettura è stata fino al quindicesimo secolo il principale registro dell’umanità, che in tutto questo periodo nessun pensiero dotato di qualche complessità è apparso al mondo senza diventare edificio, che ogni idea popolare e ogni legge religiosa ha avuto i propri monumenti, che il genere umano non ha pensato nulla di importante senza scriverlo sulla pietra. E perchè? E’ che l’idea che ha influenzato una generazione vuole influenzarne altre e lasciare traccia. Ma che immortalità precaria è quella del manoscritto! Come, invece, un edificio è un libro ben altrimenti solido, durevole e resistente! Per distruggere la parola scritta basta una torcia e un turco. Per demolire la parola costruita occorre una rivoluzione sociale, uno sconvolgimento tellurico. I barbari sono passati sul Colosseo, il diluvio forse sulle Piramidi.
Nel quindicesimo secolo tutto cambia.
Il pensiero umano scopre un modo di perpetuarsi non solo più durevole e resistente dell’architettura, ma anche più semplice e più facile. L’architettura è detronizzata. Alle lettere di pietra di orfeo succederanno quelle di piombo di Gutenberg.
Il libro ucciderà l’edificio.
L’invenzione della stampa è il più grande avvenimento della storia. E’ la rivoluzione madre. E’ il completo rinnovarsi del modo di espressione dell’umanità, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne assume un’altra, è il completo e definitivo mutamento di pelle di quel serpente simbolico che, da Adamo in poi, rappresenta l’intelligenza.
Sotto forma di stampa, il pensiero è più che mai imperituro. E’ volatile, inafferrabile, indistruttibile. Si fonde con l’aria. Al tempo dell’architettura, diveniva montagna e si impadroniva con forza di un secolo e di un luogo. Ora diviene stormo di uccelli, si sparpaglia ai quattro venti e occupa contemporaneamente tutti i punti dell’aria e dello spazio.
Chi non vede, ripetiamo, quanto più indelebile sia in questa maniera? Da solido che era, diventa vivo. Passa dalla durata all’immortalità. Si può distruggere una mole, ma come estirpare l’ubiquità? Venga pure un diluvio, e anche quando la montagna sarà sparita sotto i flutti da molto tempo, gli uccelli voleranno ancora; e basterà che solo un’arca galleggi alla superficie del cataclisma, ed essi vi poseranno, sopravviveranno con quella, con quella assisteranno al decrescere delle acque, e il nuovo mondo che emergerà da questo caos svegliandosi vedrà planare su di sè, alato e vivente , il pensiero del mondo sommerso.
E quando si osservi che questo modo di espressione non è soltanto il più conservatore, ma anche il più semplice, il più comodo, il più praticabile da tutti, allorchè si pensi che non si tira dietro un pesante bagaglio e non mette in moto una pesante attrezzatura, quando si paragoni il pensiero obbligato per tradursi in edificio, a mettere in movimento quattro o cinque altre arti e tonnellate d’oro, tutta una montagna di pietre, tutta una foresta di legname, tutto un popolo di operai, quando lo si paragoni al pensiero che si fa libro, al quale basta un po’ di carta, un po’ di inchiostro e una penna, come stupirsi che l’intelligenza umana abbia abbandonato l’architettura per la stampa? (…)

 Dal sedicesimo secolo, la malattia dell’architettura è visibile; ormai non esprime più la società in modo essenziale. Diviene miserabilmente arte classica, da gallica, da europea, da indigena diviene greca e romana, da vera e moderna, pseudo-antica. Quello che viene chiamato Rinascimento non è che questa decadenza. Decadenza peraltro magnifica, perchè il vecchio genio gotico, questo sole che tramonta dietro il torchio gigantesco di Magonza, penetra ancora per qualche tempo con i suoi ultimi raggi in tutto quell’ibrido ammasso di arcate latine e di colonnati corinzi.
E’ questo sole al tramonto che noi scambiamo per un’aurora.
Le altre arti si emancipano, spezzano il giogo dell’architetto, se ne vanno ciascuna per proprio conto, e ognuna si avvantaggia di questo divorzio (…)
Nascono allora Raffaello, Michelangelo, Jean Goujon, Palestrina, splendori dell’abbagliante sedicesimo secolo.
Contemporanemente alle arti, il pensiero si emancipa in ogni senso. Gli eresiarchi del Medioevo avevano già inferto ferite profonde al cattolicesimo. Il sedicesimo secolo spezza l’unità religiosa. Prima della stampa, la riforma sarebbe stata soltanto uno scisma, la stampa ne fa una rivoluzione. Togliete la stampa, l’eresia perde ogni nerbo. Fatale o provvidenziale che sia, Gutenberg è il precursore di Lutero.
Tuttavia, quando il sole del Medioevo è del tutto tramontato, quando il genio gotico si è per sempre spento all’orizzonte dell’arte, l’architettura si offusca, si scolora, impallidisce sempre di più. Il libro stampato, verme roditore dell’edificio, la succhia e la divora. Essa si spoglia, si sfoglia, dimagrisce a vista d’occhio. E’ meschina, è povera, è nulla. Non esprime più nulla, nemmeno il ricordo dell’arte di un tempo.Ridotta a se stessa, abbandonata dalle altre arti, perchè il pensiero umano l’ha abbandonata, in mancanza di artisti chiama dei manovali. Il vetro sostituisce la vetrata. Il tagliapietre subentra allo scultore. Addio a tutto, linfa, originalità, vita, intelligenza.
Michelangelo, che dal sedicesimo secolo senza dubbio la sentiva morire, aveva un’ultima, disperata idea. Da titano dell’arte aveva sovrapposto il Pantheon al Partenone e aveva fatto San Pietro a Roma.
Grande opera che meritava di restare unica, ultima espressione originale dell’architettura, firma di un artista gigantesco in calce al colossale registro di pietra che si chiudeva. Morto Michelangelo, che fa questa miserabile architettura sopravvissuta a se stessa come uno spettro o un’ombra? Prende San Pietro a Roma, e ne fa il calco e la parodia. E’ una mania. E’ una pietà. Ogni secolo ha il suo San Pietro di Roma, nel diciassettesimo secolo il Val-de-Grace, nel diciottesimo Sainte-Geneviève. Ogni paese ha il suo San Pietro di Roma. Londra ha il suo. Pietroburgo ha il suo. Parigi ne ha due o tre. Insignificante testamento, ultimo vaneggiamento di una grande arte decrepita che regredisce all’infanzia prima di morire.
(…) Le belle linee dell’arte lasciano il posto a quelle fredde e inesorabili del geometra. Un edificio non è più un edificio, ma un poliedro. Tuttavia l’architettura si tormenta per nascondere tale nudità. Ecco il frontone greco e quello romano che si inseriscono l’uno nell’altro, reciprocamente. (…) Ecco il palazzo di Luigi XIV, lunghe caserme per cortigiani, rigide, glaciali, noiose. Ecco infine Luigi XV, con le cicorie e i vermicelli, e tutte le verruche che sfigurano questa vecchia architettura caduca, sdentata e leziosa. Da Francesco II a Luigi XV, il male è cresciuto in progressione geometrica. L’arte non è più che pelle e ossa. Agonizza pietosamente.
Frattanto, che accade della stampa? Tutta la vita che si allontana dall’architettura finisce in lei. L’architettura si abbassa, la stampa si gonfia e cresce. Il capitale di energie che il pensiero umano spendeva in edifici lo spende ormai in libri. Così dal sedicesimo secolo la stampa, raggiungo il livello della decrescente architettura, lotta con quella e la uccide. Nel diciasettesimo è già insediata nella sua vittoria per donare al mondo la festa di un grande secolo letterario. Nel diciottesimo, dopo essersi a lungo riposata alla corte di Luigi XIV, riafferra la vecchia spada di Lutero, ne arma Voltaire, e corre, tumultuosa, all’attacco di quella vecchia Europa di cui ha già ucCiso l’espressione architettonica. Quando il secolo diciottesimo ha fine, ha ormai tutto distrutto. Nel diciannovesimo, ricomincerà a ricostruire.
Ebbene, ci domandiamo noi ora, quale delle due arti rappersenta realmente da tre secoli il pensiero umano? Quale lo traduce? Quale ne esprime, non solo le manie letterarie e scolastiche, ma il vasto, profondo,universale movimento? Quale si sovrappone costantemente, senza interruzione e senza lacune, al genere umano che avanza, mostro a mille piedi? L’architettura o la stampa?
(…)La Bibbia assomiglia alle Piramidi, l’Iliade al Partenone, Omero a Fidia. Nel tredicesimo secolo, Dante è l’ultima chiesa romanica, Shakespeare, nel sedicesimo, l’ultima cattedrale gotica.

Questo edificio è colossale. (…) E’ il formicaio delle intelligenze. E’ l’alveare in cui tutte le immaginazioni, queste api dorate, arrivano con il loro miele. L’edificio ha mille piani. Sulle sue rampe si vedono sbucare qua e là delle caverne tenebrose della scienza intrecciantisi nelle sue viscere. Per tutta la sua superficie l’arte fa lussureggiare davanti allo sguardo arabeschi, rosoni, merletti. (…)La stampa, questa macchina gigante che pompa senza tregua tutta la linfa intellettuale della società, vomita incessantemente nuovi materiali per l’opera sua. Tutto il genere umano è sull’impalcatura. Ogni spirito è muratore. Il più umile tura il suo buco o posa la sua pietra.  Il diciottesimo secolo dà l’Encyclopédie, la rivoluzione da il “Moniteur”. Certo,è anche questa una costruzione che cresce e si ammucchia in spirali senza fine, anche qui c’è confusione di lingue, attività incessante, lavoro infaticabile, concorso accanito dell’umanità intera, rifugio promesso all’intelligenza contro un nuovo diluvio, contro un’invasione di barbari. E’ la seconda torre di Babele del genere umano.”

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