Luigi Manzi “Fuorivia” letto da Giorgio Linguaglossa

FuoriviaLuigi Manzi, Fuorivia Ed. Ensemble, Roma 2013
Se leggiamo una poesia di Luigi Manzi tratta dal suo ultimo libro: Fuorivia, ci accorgiamo di quanto la sua poesia sia lontana dai concetti correnti di immediatezza, di soggettività, di reale, di poetico, di quanto sia estranea alla amministrazione da elettrodomestico qual è diventato oggi lo «stile» cosmopolitico oggi maggioritario che mesce e confonde il «privato» con la cronaca del privato, la cronaca nera con la cronaca rosa, magari con un quantum di eventi «pubblici». In questi esiti odierni della poesia contemporanea, il «soggetto» si è dissolto, diluito, è scomparso sostituito dal «privato» del soggetto. Nella poesia di Luigi Manzi si verifica una trasfigurazione dello Spirito del tempo in qualcosa che è al di là del «soggetto», qualcosa di irriconoscibile, quasi che a bordo della macchina del tempo gli abitanti del pianeta terra fossero stati precipitati in pieno medio evo. Leggiamo Manzi:

Torno dove un tempo ero già stato.

Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie. Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.

L’ultima parola è quella che dà la chiave del componimento: «fotogramma», ovvero, «immagine», riproduzione fotologica del “reale”. Dunque, la poesia è un discorso su un «fotogramma», discorso su una luce. Guardando dentro il «fotogramma» noi possiamo spiare quello che accade lì dentro: c’è un personaggio: l’io che cammina senza voltarsi indietro (ecco l’eterno mito di Orfeo che cammina ma non deve voltarsi altrimenti perderebbe per sempre Euridice!). Tutto il componimento è fatto da un susseguirsi di «immagini» collegate, immagini indirette che alludono a una natura sconvolta fin nelle fondamenta. La «natura» è passato mentre il presente è quello dove si muove l’io, il personaggio che guida la poesia verso la sua conclusione. L’io è Orfeo nelle vesti redivive dell’uomo contemporaneo che si muove nello spazio-tempo dell’Evo della Grande Recessione. Ebbene, il poeta romano si muove nell’orbita concettuale e imaginale della Grande Recessione; è come se nei quaranta anni precedenti di attività poetica si fosse addestrato per scrivere questo libro testamento rivolto ai contemporanei. E certo è che se leggiamo questo libro con gli occhiali del minimalismo saremmo costretti ad archiviarlo come un’operazione bizzarra e fuorivia, se lo leggessimo con quelli dell’esistenzialismo posticcio del corpo di moda oggi non capiremmo niente di questo libro; allora, occorrono altre coordinate concettuali e di poetica, occorre saper entrare in questa poesia con la dovuta circospezione con la quale si entra in un negozio di cristalli di Murano, in punta di piedi, facendo attenzione alle «chiavi» che il poeta dissemina nel libro qua e là, come segnali indicatori del faticoso cammino che il lettore deve intraprendere.
Noi non possiamo (e forse non ne abbiamo neanche il diritto) di chiedere al poeta maggiori lumi su quello che succede in città, «lungo le strade» di chi «cerca un rifugio disperato», più di questo il poeta non può dire, non ne ha il diritto, forse, o, molto più probabilmente, non reggerebbe la nominazione, pena la caduta nel retorico e nel banale. Qui si arresta il poeta, il quale chiede all’oscuro interlocutore: «Dimmi chi è rimasto» fra i vivi. Adesso è chiaro, è un dialogo che si svolge nell’oltretomba, sia il poeta che il suo interlocutore sono già morti. Siamo noi lettori che siamo morti insieme a loro. Ciò che resta di tutto il componimento, dei vivi e dei morti, è nient’altro che un «fotogramma». È tutto lì dentro.
In un altro componimento intitolato «L’ospite» c’è scritto:

Ti mozzeranno la lingua con un colpo,
la daranno in pasto alle larve senza lingua
per mutarla in altra lingua. Solo i dispersi
ti presteranno ascolto.
O coloro che in silenzio
procedono sul bordo.

saturno_006È chiaro che qui il poeta è consapevole di parlare in un’altra «lingua», che la «lingua» che lui parla la «mozzeranno» «con un colpo»: che non è ammessa, non è consentita, è una lingua straniera parlata da «coloro che in silenzio procedono sul bordo». Ma «bordo» di che cosa? Perché proprio il «bordo»? E in quale direzione procedere?. Ma sul «bordo» ci sono solo due direzioni: avanti e indietro, il futuro e il passato, mentre la poesia di Manzi è tutta inchiodata nel presente, in un presente astorico che vive sul «bordo» sottilissimo di ciò che si manifesta ad uno sguardo «trascendentale». Ma ciò che appare allo sguardo trascendentale è, appunto, inconoscibile e irriconoscibile:

Al mercato il giocoliere
pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci.
Di lato, la baldracca mostra la pancia al lenone
che titilla la catena d’oro
sul riquadro del petto. Un giovane indù
versa albicocche nel cesto,
poi lo solleva e se ne va.
Un rospo attraversa la piazza;
una rondine cuce e scuce
il cielo a zig-zag.
C’è odore d’acetilene nella cisterna;
gli operai con la testa che penzola
fanno luce sul fondo. Se si osserva bene,
il bimbetto che si sorregge allo sporto
ingoia il filo e riemette
un gomitolo.

C’è un «giocoliere (che) pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci», una «baldracca che mostra la pancia al lenone», etc. Sembra di guardare un quadro di Chagall dove al posto del violinista che vola per aria c’è un «giovane indù (che) versa albicocche nel cesto». La visionarietà di Manzi oscilla tra Chagall e Bosch, tra la deformazione cannibalica di volti e l’illibata freschezza della natura. Tra natura e cultura si è ormai scavato un solco non più redimibile, per Manzi siamo entrati nell’Evo della Recessione, dove la parola manca e la cosa si sottrae; e allora si tratta di andarla a snidare la parola con gli strumenti di un tempo: con la vanga e il piccone. Occorre ritornare infanti, perché solo così «il bimbetto… ingoia il filo e riemette un gomitolo»; e il gomitolo ci porterà fuori del Labirinto. Non è ancora venuto il momento del ritorno alla infanzia beata, l’uomo deve ancora percorrere la strada sterrata in salita. Il Moderno è un miraggio che si è dissolto come neve al sole.

Le gru osservano la città dall’alto;
sanguinano nel vespro,
come rosolio in un cucchiaio.

C’è sempre, nell’aria di «crepuscolo», una vista dall’alto (ma senza prospettiva) e una vista di fronte (ma senza profondità); c’è il panorama e il minuscolo dettaglio in rilievo, c’è l’arco temporale e l’attimo, c’è il truculento di visioni sanguigne e sanguinose e il candido di immagini attiche, delfiche; una terra chiamata «esarcato» disseminata di «colchici», «giusquiamo», «lemuri», «palissandri», «starne», il «falcocervo», il «fliocorno», «il fischio matematico del merlo», «fiori carnivori»: animali fantastici e uccelli dell’Evo Mediatico si scambiano segnali come i poeti si scambiano segnali su Marte. Ma il gomitolo è piuttosto il batacchio di un «giocoliere» che fa volare le cose su un fondale di cartolina o di cartapesta. E il tutto «ritorna nello specchio» dal quale, forse, un tempo lontano è venuto. È come se fossimo nel bel mezzo di una regressione totale dall’Aufklärung e ci ritrovassimo in una fiaba de-poetizzata che ci narra di quel che un tempo fu: «brividi di perle, barbagli di diamanti». (Giorgio Linguaglossa)

Aurelio Amendola Pietà di Michelangelo L’ECO

Raggiungimi dunque. Qui si tocca il cielo stellato
e il richiamo della ghiandaia pulsa ininterrotto.
A notte alta viene l’eco del cane forestiero
che al fondo delle valli insiste
e s’arrovella.

Forse sei in cammino. Ascolto il suono dei passi sul selciato
rimandati dall’andito.

Resto in attesa. Nel buio gelido risuona
il canto liquefatto del viandante che si ferma all’angolo
e al tuo somiglia; eppure tu sei altrove
e lui, per darmi ristoro,
a poco a poco s’addormenta, lascia che la melodia
si stemperi sulle labbra
e lenta
si disperda.

PRESAGIO

Il geco, la vipera, il falco sul combusto
altopiano. Il tabacco giace arricciato
sopra i teli di canapa. Ti parlo, anche se tu non ascolti
mentre ti muovi in silenzio sui colli
abrasi, senz’uve.

– L’afa occlude la bocca,
come un sasso. Nella radura il traliccio girevole
dell’acquedotto
pende sulla vasca in frantumi – Ma già il ramo fulvo
che sporge dal petto dell’acero, è il presagio
del tempo futuro. Così io mi rivedo nell’arbusto costretto
nell’interstizio del muro: ultimo rifugio
dove l’arida radica
si nutre di tufo.

NEPPURE

Neppure l’indizio breve d’un messaggio.
Nel perimetro deserto
tutti sono altrove. Nessuno ha lasciato
orma né traccia.

Eppure ciascuno è al suo posto,
dentro il proprio profilo. Possibile
che il bimbo
che trascina l’oca al guinzaglio sia scomparso persino
laddove è rimasto?

AFA

Tentenna il geranio. Nel bosco
la rana schiocca. Manca il respiro
nel deserto di zolfo.

Resto inerte – nell’afa –
a presidio del corpo. Non mi muovo.

Nell’incendio dell’aria,
la poiana ascende, colore di selce,
turbina nell’assalto.
Ha catturato se stessa,
e ora s’ingozza.

OHLALA’

Ohlalà, nella bocca rotonda
la bimba schiocca la lingua.

L’allampanato signore che suona il violino
si leva nell’andito buio: ha smesso
il brano della romanza.

Il marmoraro ha rifatto il filo al bulino. Il lattaio
ha ripreso il cammino.

La bimba,
fra le mani chiuse a conchiglia,
mostra un corvo.

L’OSPITE

Scrivi d’insonnie, di sonorità perdute.

Tu puoi ascoltare l’ortica e il caprifoglio
mentre crescono lungo i fossi; seguire di soppiatto
la lepre timida che salta nel cespuglio
o fissare la vipera prima dello scatto.
Eppure non ti è permesso entrare in città, se non
girovagare presso le mura;
essere l’ospite che mostra di sbieco
il suo lasciapassare.

Ti mozzeranno la lingua con un colpo,
la daranno in pasto alle larve senza lingua
per mutarla in altra lingua. Solo i dispersi.
ti presteranno ascolto.
O coloro che in silenzio
procedono sul bordo.

astratto con figura femminile di Giuseppe Pedota

astratto con figura femminile di Giuseppe Pedota

TORNO

Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi, vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.

Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie. Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.

TORNANTI

Chiuse le imposte e salutato il firmamento, il custode
abbandona la soglia per risalire il sentiero
che in larghi tornanti
lo conduce alle serpi che dormono
nel cavo dei dirupi.

Lungo il viaggio notturno – puntigliosamente –
ha divelto gli aculei alle siepi,
accarezzato gli stecchi, fino a quando
è apparsa la capra fra le prime nebbie, a dargli cenno
con lo sguardo raggelato.

Intanto in cima alla roccia il cavallante osserva l’Orsa
nel cielo antelucano.

La sorveglia coi sospiri.

15 commenti
  1. Caro Linguaglossa,
    ti assicuro che i miei orizzonti non sono religiosi, e tanto meno economici, per cui se uso certi termini è solo perché non ne trovo altri disponibili nel dizionario. Forse sarebbe bene coniare nuove parole per nuovi concetti, ma questo varrebbe per moltissimi altri vocaboli divenuti obsoleti, e nell’impossibilità pratica di rifare per intero il vocabolario, ci troveremmo costretti ad ammutolire. Trovo più semplice usare i termini che abbiamo, ovviamente cercando di non fare confusioni concettuali: cosa che non credo di avere fatto nelle note che ci siamo scambiate. I miei orizzonti non sono di natura politica, ideologica, scientifica, e neppure estetica, ma sono semplicemente umani. Mi dirai che nell’umano c’è tutto, quindi anche la religione e l’economia, la scienza e la politica, l’estetica e quant’altro. Verissimo, purché sia l’uomo al centro e non, di volta in volta, la religione, la politica, eccetera. La distinzione è fondamentale, perché ne va di mezzo il rapporto tra i mezzi e i fini. Se poniamo la religione come fine (o l’economia, o altro, come la stessa arte), finiamo per strumentalizzare inevitabilmente l’essere umano. Stanti queste premesse, la “salvezza” (termine che ho usato specificando che altri l’han detto, non io) non è altro che la salvezza dell’uomo con se stesso, con la propria coscienza (la quale può benissimo essergli stata fornita dal Sommo: ciò è del tutto indifferente e comunque esula dalla mia argomentazione). Tu mi dirai che in ogni caso l’arte con la salvezza non c’entra, perché se io scelgo un’opera, la scelgo unicamente perché mi piace. Già, ma cos’è il piacere? Anche questo è un termine ambiguo, che si presta a un’infinità di interpretazioni e che forse sarebbe meglio togliere dal vocabolario. Io preferisco rifarmi a una terminologia più originaria ed essenziale, parlando di mito. E cos’è che vedo nel mito? Nient’altro che una rivelazione (meglio auto-rivelazione) del senso, o di un senso, della vita. Solo così, a mio parere, si può ridare all’arte il ruolo che le spetta, strappandola alle facili e furbesche manipolazioni e tirandola fuori dalla “nicchia del privato e dell’autoreferenzialità” in cui si è auto esiliata”.
    Franco Campegiani

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