Con Adorazione (Roma, EdiLet, 2009, pp. 132) la giovane Raffaella D’Elia ha dato vita a uno degli esordi letterari più interessanti degli ultimi anni. Un libro originale e ricco di potenzialità, allusivo, strano, enigmatico, intessuto d’echi e suggestioni. Un diorama di prospettive che si aprono, giocato su un registro filosofico alla Benjamin, nel segno della flânerie intellettuale – all’incrocio tra saggistica e narrativa – che rende la scrittura disponibile all’insorgere del nuovo, del nascente, dell’imprevisto. D’Elia sa gestire con sagacia questa dimensione fenomenologica del racconto “da farsi”, che cresce su se stesso senza una trama preordinata. Ne esce un percorso pieno di cesure, curve, scarti improvvisi, frammenti accostati per contrasto o contatto inusitato. Ci sono passaggi inafferrabili, pagine indecidibili. Sfugge non di rado il referente: come in poesia. D’Elia persegue un modello di “opera aperta”: una struttura polifonica di elementi eterogenei che interagiscono, illuminando sottili rispondenze fra i livelli di realtà.
L’arte è qui assunta come oggetto narrativo, veicolo di espressione e termine di dialogo. Citazioni di opere e autori, dati estetici, intuizioni, riflessioni, considerazioni, vengono assunti come “alter ego”, come supporto e specchio su cui far scorrere, registrandole, emozioni impercettibili e mutevoli vibrazioni, articolando l’esperienza del tempo vissuto. L’arte si configura come modello di relazione autentica con il mondo, soglia critica del senso, luogo di metamorfosi. La scrittura di D’Elia affronta lo “spazio informale” – una sorta di vuoto originario – da cui emerge la forma organica della creazione: alla radice stessa del “farsi forma”. Si infila nel «tunnel caleidoscopico», negli interstizi della vita, tra le «maglie imprendibili della possibilità», le loro prospettive «multiple, infinite e multiformi». Si apre, quindi, al necessario “decentramento”: quello che viene dal sentirsi “fuori fuoco”, abbandonandosi a un «andamento di tipo ipnotico», perdendosi nelle sfumature di certe misteriose fantasticherie. Dunque, base soggettivistica ma apertura non soggettivistica a una visione trans-oggettiva, verso l’impersonalità del sogno. Il sogno della ragione, e insieme la ragione del sogno.
Nel soggetto percipiente si ricompongono le forze del processo innescato. Il soggetto diventa una sorta di “parafulmine”: il ministro di un rito che regge la scintilla fra le mani. Si determina così uno spazio di tensione fra l’alterità sfuggente dell’oggetto della visione e la competenza ermeneutica del soggetto raziocinante, posto “a fronte” con il filtro dei suoi modelli percettivi, il suo modo di guardare e leggere, assegnando un senso alle cose che vede. L’obiettivo è sciogliere questa tensione, riuscendo però a conservare la forza evocativa della visione originaria, senza banalizzarla. Per vedere occorre lo studio, che approfondisce l’occhio; ma, d’altra parte, il progredire dello studio comporta un eccesso di analisi, un sedimento di sovrastrutture e stratificazioni, che rischiano di “sporcare” lo sguardo. Che quindi deve tornare a farsi incontaminato, ritrovando il punto di equilibrio della “giusta distanza”. Ecco la scrittura come medium fluido e ondivago per manifestare l’essenza delle cose. Fino alla dimensione estetica (estatica) in cui addirittura non è più possibile distinguere fra soggetto e oggetto della visione, poiché il cosmo e l’essere che lo desidera sono indistinguibili. Allora il veduto diventa vedente: l’immagine diventa soggetto e non più oggetto del vedere. Non c’è più una realtà esterna da percepire e interpretare per vie sensoriali. La dimensione extrasensoriale deriva dalla coscienza di una mente che a un certo punto elabora attività endogene, che riflette e contempla anche e soprattutto il proprio interno, le strutture del suo stesso procedere e lo stampo che il mondo vi ha lasciato.
Da questo itinerario emerge una realtà ricreata su un piano di astrazione geometrica (secondo una geometria rigorosamente non euclidea) che articola i vettori spazio-temporali dell’esistenza attraverso piani sovrapposti o contrapposti di superfici e profondità, reali e/o illusorie:
«(…) linee, prospettive, bisettrici-sguardi che ricavano spazi, scavano buchi, allargano, stringono, bislungono, ardiscono».
E ancora:
«(…) specchi che acchiappano, rubano, nascondono, alludono. E generano».
Un tessuto diafano di trasparenze, «filigrana impercettibile e resistente» che si annoda allo sguardo attraverso e oltre le sue consuetudini, i suoi abiti, i suoi schemi percettivi. «Trovo straordinariamente vitale rintracciare la bellezza nell’abitudine (…) spingendosi fino al territorio dell’insignificanza», cioè all’origine stessa del senso, della struttura, dell’identità. Laggiù si riconosce che questa «libertà di sconfinamento è contemporaneamente origine e fine dell’opera stessa». È dalla possibilità di «prendere le misure del mondo solo condividendone le sfocature dei contorni» che nasce la «consapevolezza di vivere in una infinita e inevitabile approssimazione». Come nelle foto di Cartier-Bresson:
«Immagino che Cartier-Bresson si facesse una chiacchierata con i suoi soggetti prima di fotografarli, un caffè, un pranzo condito da attestati di stima, conversazioni, condivisione di esperienze, discussioni, pettegolezzi, dicerie. Cose normali insomma, quella che si chiama vita, fino a quando (quando esattamente?), non decideva che era giunto il momento, e arrivava lo scatto».
Quand’è il momento esatto per fare una foto? Come approssimare quel momento di supremo equilibrio tra le forze?
«All’interno del movimento, esiste un momento in cui i diversi elementi sono tutti bilanciati tra loro. La fotografia deve catturare quel momento e fissarne l’equilibrio»
Questa approssimazione infinita nasce dal decentramento, cioè dal “fuori fuoco”, dalla rottura della cornice. Come quando D’Elia confessa la sua tendenza irresistibile alla distrazione dinanzi a qualsiasi messa in scena di tipo visivo (TV, cinema, teatro), per cui, anziché il fuoco della scena concentrato sul o sui protagonisti, si ritrova a seguire le comparse “invisibili” che «di dietro, a pochi passi, aprono coperchi, o spostano libri, o si aggiustano il collo della giacca, o girano il sugo nel tegame». Come accade nei dipinti di Reynolds, con la sua nuova concezione dell’ornamento, che porta in primo piano ciò che per sua natura è sullo sfondo. E questo anche a costo di perdersi nel dedalo delle percezioni, fino a rischiare di svenire addirittura, sprofondando nella vertigine del caos: senza sapere più se si è «fuori o dentro».
Adorazione configura un modo originale e nuovo di vivere, leggere e raccontare l’opera d’arte (e la vita, anche la propria, attraverso l’opera). Ma per arrivarci è necessario tentare di porsi al di là dei dualismi socratici, apparentemente inconciliabili, che affliggono il mondo occidentale. Occorre raggiungere la “profondità elementare”, cioè l’essenza delle cose, attraverso una trascendenza immanente, come a dire un’astrazione concreta, una metafisica reale. Solo così il testo si trasforma in un piccolo cosmo organico di pienezza e spontanea rivelazione: capace di illuminare, dentro lo spessore della materia, quella stessa filigrana di echi, sogni, intuizioni di cui il racconto reca testimonianza e che, grazie al veicolo pulsante della parola, non smettono di parlare e affascinare, come un lievito creativo, anche a lettura conclusa.