Canzone sulla fine del mondo
Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.
Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
L’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca dalla vela gialla si accosta all’isola,
Il suono del violino si prolunga nell’aria
E disserra la notte stellata.
E chi si aspettava folgori e lampi,
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché il calabrone visita la rosa,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.
Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.
Ispirata dall’arrivo dei carri armati sovietici nel centro di Vilna nel 1940, cui l’autore aveva assistito, la poesia non narra alcun evento storico: piuttosto riflette in generale sulla cieca natura degli uomini, indifferenti alle tragedie della storia. Nessuna scena di maniera, nessuna immagine stravagante, nessuna parola eufonica o ricercata, povere cose e poveri animali, uomini semplici: api su fiori, gai delfini, passeri, serpenti, pescatori, signore a passeggio per i campi, ubriachi e ortolani. Tutti abitano il mondo con parità di diritti, tutti incoscienti e indifferenti a quella tragedia che si sta per avvicinare: la “fine del mondo”.
Anche la scena che si svolge in Campo dei Fiori di Roma è una riflessione sulla storia:
A Roma in Campo dei Fiori
ceste di olive e limoni,
spruzzi di vino per terra
e frammenti di fiori.
Rosati frutti di mare
vengono sparsi sui banchi,
bracciate d’uva nera
sulle pesche vellutate.
Proprio qui, su questa piazza
fu arso Giordano Bruno.
Il boia accese la fiamma
fra la marmaglia curiosa.
E non appena spenta la fiamma,
ecco di nuovo piene le taverne.
Ceste di olive e limoni
sulle teste dei venditori.
Mi ricordai di Campo dei Fiori
a Varsavia presso la giostra,
una chiara sera d’aprile,
al suono d’una musica allegra.
Le salve del muro del ghetto
soffocava l’allegra melodia
e le coppie si levavano alte
nel cielo sereno.
Il vento dalle case in fiamme
portava neri aquiloni,
la gente in corsa sulle giostre
acchiappava i fiocchi nell’aria.
Gonfiava le gonne alle ragazze
quel vento dalle case in fiamme,
rideva allegra la folla
nella bella domenica di Varsavia.
C’è chi ne trarrà la morale
che il popolo di Varsavia o Roma
commercia, si diverte, ama
indifferente ai roghi dei martiri.
Altri ne trarrà la morale
sulla fugacità delle cose umane,
sull’oblio che cresce
prima che la fiamma si spenga.
Eppure io allora pensavo
alla solitudine di chi muore.
Al fatto che quando Giordano
salì sul patibolo
non trovò nella lingua umana
neppure un’espressione,
per dire addio all’umanità,
l’umanità che restava.
Rieccoli a tracannare vino,
a vendere bianche asterie,
ceste di olive e limoni
portavano con gaio brusio.
Ed egli già distava da loro
come fossero secoli,
essi attesero appena
il suo levarsi nel fuoco.
E questi, morenti, soli,
già dimenticati dal mondo,
la loro lingua ci è estranea
come lingua di antico pianeta.
Finché tutto sarà leggenda
e allora dopo molti anni
su un nuovo Campo dei Fiori
un poeta desterà la rivolta.
Varsavia, Pasqua 1943
Scrive Giovanna Tomassucci: «Chi parla in questa poesia è un osservatore del XX sec., che si raffigura il martirio di Giordano Bruno, ma il suo sguardo scivola ben presto dal rogo all’attiguo mercato e alla folla, più attenta alle proprie occupazioni che alla sorte del condannato. Si crea quindi una corrispondenza con una situazione di cui è stato testimone nella Varsavia dell’aprile 1943: la giostra eretta di fronte al Ghetto in fiamme su cui la gente andava a divertirsi.
Qualcosa di ancora più brutale accade ai due sfaccendati della poesia Periferia, che giocano a carte in prossimità del muro del Ghetto di Varsavia, senza far caso al lontano “guaito” dei convogli di deportati. È come se fosse stata messa la sordina alle grida, alla sofferenza: la distanza emotiva si trasmette così anche a noi lettori, che finiamo per contemplare astrattamente questa scena desolata».
La riflessione sulla storia degli uomini si amplia a quella sull’indifferenza degli spettatori posti in un’altra epoca. La poesia riflessione inaugurata da Miłosz verrà ripresa da molti poeti polacchi, da Krinicki a Herbert. Forse lo spunto glielo fornì una poesia di Wynstan H. Auden, che qualche anno prima, in Musée des Beaux Arts (1938), aveva svolto una analoga riflessione sul mito e la storia degli uomini ispirandosi al famoso quadro Caduta di Icaro di Bruegel il Vecchio:
About suffering they were never wrong,
The old Masters: how well they understood
Its human position: how it takes place
While someone else is eating or opening a window or just walking dully along;
How, when the aged are reverently, passionately waiting
For the miraculous birth, there always must be
Children who did not specially want it to happen, skating
On a pond at the edge of the wood:
They never forgot
That even the dreadful martyrdom must run its course
Anyhow in a corner, some untidy spot
Where the dogs go on with their doggy life and the torturer’s horse
Scratches its innocent behind on a tree.
In Breughel’s Icarus, for instance: how everything turns away
Quite leisurely from the disaster; the ploughman may
Have heard the splash, the forsaken cry,
But for him it was not an important failure; the sun shone
As it had to on the white legs disappearing into the green
Water, and the expensive delicate ship that must have seen
Something amazing, a boy falling out of the sky,
Had somewhere to get to and sailed calmly on.
È qui in azione lo stesso linguaggio colloquiale della Canzone sulla fine del mondo e di Campo dei Fiori. (traduzione di Giovanna Tomassucci)
Ars poetica?
Zawsze tęskniłem do formy bardziej pojemnej,
która nie byłaby zanadto poezją ani zanadto prozą
i pozwoliłaby się porozumieć nie narażając nikogo,
autora ni czytelnika, na męki wyższego rzędu.
W samej istocie poezji jest coś nieprzystojnego:
powstaje z nas rzecz, o której nie wiedzieliśmy, że w nas jest,
więc mrugamy oczami, jakby wyskoczył z nas tygrys
i stał w świetle, ogonem bijąc się po bokach.
Dlatego słusznie się mówi, że dyktuje poezję dajmonion,
choć przesadza się utrzymując, że jest na pewno aniołem.
Trudno pojąć skąd się bierze ta duma poetów
jeżeli wstyd im nieraz, że widać ich słabość.
Jaki rozumny człowiek zechce być państwem demonów,
które rządzą się w nim jak u siebie, przemawiają mnóstwem języków,
a jakby nie dosyć im było skraść jego usta i rękę
próbują dla swojej wygody zmieniać jego los?
Ponieważ co chorobliwe jest dzisiaj cenione,
ktoś może myśleć, że tylko żartuję
albo że wynalazłem jeszcze jeden sposób
żeby wychwalać Sztukę z pomocą ironii.
Był czas, kiedy czytano tylko mądre książki
pomagające znosić ból oraz nieszczęście.
To jednak nie to samo co zaglądać w tysiąc
dzieł pochodzących prosto z psychiatrycznej kliniki.
A przecie świat jest inny niż się nam wydaje
i my jesteśmy inni niż w naszym bredzeniu.
Ludzie więc zachowują milczącą uczciwość,
tak zyskując szacunek krewnych i sąsiadów.
Ten pożytek z poezji, że nam przypomina
jak trudno jest pozostać tą samą osobą,
bo dom nasz jest otwarty, we drzwiach nie ma klucza
a niewidzialni goście wchodzą i wychodzą.
Co tutaj opowiadam, poezją, zgoda, nie jest.
Bo wiersze wolno pisać rzadko i niechętnie,
pod nieznośnym przymusem i tylko z nadzieją,
że dobre, nie złe duchy, mają w nas instrument.
Czesław Miłosz, 1968
Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.
Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.
C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.
Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.
L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.
Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.
Czesław Miłosz, Poesie, Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani
Scrive Alfonso Berardinelli: «È certo (e non sono io a decretarlo) che il Trattato poetico di Miłosz è uno dei poemi più potenti e labirintici del Novecento, un’opera audace e insolita che non sa ancora dire se ha segnato un’epoca della poesia europea o ne ha aperta una nuova. Probabilmente tutte e due le cose: il bilancio del Novecento che viene compiuto nelle sue pagine, una tappa dopo l’altra, una dimensione contro un’altra, ha spinto l’autore alla costruzione di un modello formale che poteva avere, e forse non ha ancora avuto, un’influenza sulla poesia successiva, non solo polacca. Per fare un solo esempio, citerei, restando nel cuore dell’Europa, almeno i due ‘poemi saggistici’ di Hans Magnus Enzensberger, più giovane di Miłosz di quasi vent’anni e che esordì esattamente nel 1957, l’anno di pubblicazione del Trattato poetico. Sia con Mausoleum che con La fine del Titanic, entrambi degli anni Settanta, Enzensberger uscì dai limiti della composizione breve e sperimentò il poema storico, fra narrazione e interpretazione. Contro una poetica che era sembrata dominante, ma che non esauriva certo le potenzialità dello stile moderno, Miłosz abolisce i confini tematici e linguistici della poesia; (…)».
Commenta Giovanna Tomassucci: «Czesław Miłosz ha scritto il suo Trattato poetico dall’esilio, tra il dicembre ’55 e la primavera ’56. Nella difficile condizione di poeta senza pubblico, transfuga in una Francia ostile, negli anni precedenti si era soprattutto dedicato alla prosa con il saggio La mente prigioniera (1953), ritratto di vecchi amici convertiti allo Stalinismo, e il romanzo autobiografico La valle dell’Issa (1955). In quello stesso periodo si accingeva a scrivere uno dei suoi più bei libri, Europa familiare (1959, tradotto in italiano da Adelphi con il titolo La mia Europa), atto di amore verso la sua terra natale, la Lituania, crogiuolo di lingue e culture, che per l’Occidente continuava (ma oggi è forse diverso?) a essere una ‘regione nebulosa’ su cui si ‘danno poche notizie e se mai errate’».
Il punto centrale della riflessione della poesia viene introdotto subito nei primi versi: «una forma più capace», che non sia « né troppo poesia né troppo prosa». Una forma ampia dunque che consenta l’ingresso nella forma-poesia della forza rigenerante della «prosa». Miłosz caldeggia una nuova poesia che sia al contempo riflessione sulla storia e una selezione di immagini povere, prosaiche; di qui la scoperta che «nella poesia c’è qualcosa di indecente», la presa di distanze dalla poesia dell’ego, tutta incentrata su «ciò che è morboso» in quanto oggi «molto apprezzato dai poeti», una poesia che tratti dell’«uomo ragionevole», poiché « il mondo è diverso da come ci sembra / e noi siamo diversi dal nostro farneticare». Di fatto è questo il primo altissimo documento poetico di un poeta europeo in favore di una poesia di ampio respiro, che contemperi l’ampio sguardo sulla storia degli uomini e i piccoli fatti del quotidiano.
Grazie,
un’interessante spunto per la riflessione.
E parole grandi poichè piccole.
Grazie
Ringrazio anch’io per l’edificante e ottima lettura e mi associo in toto al commento precedente: sono parole grandi proprio perché non hanno bisogno di ostentare alcunché.
Sandro Angelucci
“la poesia non narra alcun evento storico: piuttosto riflette in generale sulla cieca natura degli uomini, indifferenti alle tragedie della storia. Nessuna scena di maniera, nessuna immagine stravagante, nessuna parola eufonica o ricercata, povere cose e poveri animali, uomini semplici: api su fiori, gai delfini, passeri, serpenti, pescatori, signore a passeggio per i campi, ubriachi e ortolani. Tutti abitano il mondo con parità di diritti, tutti incoscienti e indifferenti a quella tragedia che si sta per avvicinare: la “fine del mondo”.
Anche la scena che si svolge in Campo dei Fiori di Roma è una riflessione sulla storia”.
Quanta verità in questo commento alla prima delle poesie composte dal grande Czesław Miłosz!
L’indifferenza è un male profondamente radicato nel mondo, in tutti gli esseri che lo popolano. Un’immane tragedia resta inosservata, come se non esistesse. Per descriverne l’atrocità non serve tutto un repertorio di artifici lessicali, di figure retoriche, di voli fantasiosi.
La scelta degli esseri viventi che non si accorgono dell’evento e la semplicità del dettato sono icastici e pregnanti: la tragedia è dinanzi ai nostri occhi come quando si ascolta una “Polacca” di Chopin.