La Poesia significazionista di Giovanna Sicari

giovanna-sicari
Giovanna Sicari è nata a Taranto nel 1954 e deceduta a Roma nel 2003. Se consideriamo le peculiarità stilistiche della sua poesia possiamo definire la Sicari poetessa di adozione romana, a Roma vive intensamente la contestazione giovanile degli anni Settanta dove frequenta la facoltà di lettere. Sono anni di impetuosa incubazione e riflessione del suo pensiero poetico durante i quali la Sicari approfondisce lo studio delle problematiche della poesia italiana ed europea. La sua maturità poetica si situa a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, quando dà alle stampe i suoi libri più significativi. Stella polare della poetessa di adozione romana è il rilancio del concetto di parola poetica come atto «politico», inteso in senso implicitamente polemico avverso le poetiche «deboli» che erano sorte in ambito romano durante gli anni Ottanta, evidente nelle poesie della plaquette di esordio Decisioni (1986), confluite poi in Sigillo (1988). È sufficiente la lettura della sua poesia per misurare la grande distanza di questo stile da quello coevo invalso a Roma negli anni Ottanta:

da Decisioni (1986)

Le api formano un ricordo,
un frammento limita il galoppatoio,
con violenza il brivido della carne mi tarla:
immorale primavera della notte.
Con devozione una goccia di sangue
corre lungo gli usci,
nella serra dorata vedo il mio corpo bianco, arso dal livore.
Con ignoti sonnambuli sono qui, Mozart è mio amico,
un derelitto, un’insana meraviglia mi accompagnano.
Non è una rosa romantica l’impaccio di una festa
nel blasé di un caso con altri fiati nella campagna sfrangiata:
galoppatoio di festa per un gesto solo.
Mi dicevano la bugia chiusa
le anziane famiglie risorte dalla polvere dei santini.
Dalla bugia chiusa il diavolo arpeggia
e io sono qui a volere il non voluto,
come una seduttrice ambigua, non ho viandanti particolari.
Mozart è mio amico, forse un poeta assassino, un vero poeta
mi ha regalato un flauto talismano.
Ma non è limite: un segno diabolico, poco poetico.
Bonjour mon amie, non è presente
ma potrei complice avvolgerti nell’eterno sfinito.

*
Ortolana io scrivo per brama di controversie
assembramento di tegole al liceo
tacchi a spillo, mi davo un contegno.
Costretti a scappare, come se io fossi
una maga, paura di tristi compromessi.
Documentari sfatammo tra le foglie della
pestilenza. Dietro un’apparenza intrattabile
la mia storia cadeva da una arte
come un filo grosso d’erba.
Troppo cresceva, e le adunate
si mischiavano al delitto della terra.
Come un groviglio ingoiavo, confondevo.
Mi appariva normale spiare la musica
e i ponti, le camicie appese ai quadri.
Solo per un attimo, fra le oche presenze
la sua, confusa nel respiro.

*
I gendarmi ignoravano le sere cadute di marzo
li vedo tutti come amplessi serali
e anche dal marciapiede salgono senza
libertà destini amorali
Con la pancia simulata di nessuna maternità
scelsi fra gli angeli il più bello.
Mi colse la tranquillità
non la vedevano gli amici, per timore
di una brutta faccia
– Ho fame – con buon senso.
Ho fame io che fingo per un motivo di orgoglio
che vuole dire questo dire bianco
mentre scappa dai folli
e si solleva per lo spettacolo della vigilia:
dov’è il gallo della mattina
il massacro di un pied-à-terre farneticante
e la cucina della mamma.
Dov’è la pietra di onore della mia ottusità
nel fallo della veglia spezzata
di video cretino e stanco, – dov’è -.

*
Mattino aperto è questo che si vive come in guerra.
Per quanto si udisse dovevo starmene
nel piede imbastito, dal correre per puro caso.
Nel racconto di querce, un bacio, montagna di acqua-lucida,
luci da montagna, frutto-granito di bambino quieto,
uomo leggero nella gabbia del senso.
Dovevo starmene senza giudicare
un vano lago, corollario di fango avvampavo la terra.
Lodarti, festeggiare un mistero,
una preferenza infantile di roccia,
dispersa la traggo, io nuda senza ritorno
in cerca di lava sotto il vulcano, fra le sue mappe,
cosmico luogo per camminare ai bordi, in verticale.
Se non fosse stato olio o resina o grazioso veliero,
non sarebbe stato questo svegliarmi
alterno a leggende, meandri, paesi.

In tua assenza

Non c’è niente da temere
su quell’unica trapunta giacciono solide valigie
l’ultimo pensiero degli arabeschi del pomeriggio
è un manoscritto di quest’era senza usignoli:
sopra il borbottio barocco,
L’infinito arpeggio del mondo civile,
morente alla frontiera.
In tua assenza è l’incontro con i forestieri
più neri dei corvi
più bianchi dei cigni.
Tu sei senza archi
sei una lumaca molle.
Non faccio resistenza
sono sordamente epilettica,
il mio freddo gravita nell’orbita solare
fuori campo in questa scena.
Non toccarmi con forza
nel lago del sogno della di lui promessa terra desolata
sono promessa sposa nel fondale marino di un bordello:
immancabile è la vertigine,
lo stile appreso è il giusto spavento.

La posizione della Sicari si differenzia nettamente dalla linea di pensiero espressa da riviste quali «Pratopagano» e «Braci», la prima diretta da Gabriella Sica e la seconda che riuniva poeti come Gino Scartaghiande, Beppe Salvia, Giselda Pontesilli, Claudio Damiani i quali teorizzavano e praticavano una poesia della «natura», una sorta di ritorno ad una vita aurorale e rurale, a un «primitivismo» privo di tutti gli eccessi della società dell’affluenza (come si diceva allora), o del benessere (come si dice oggi). Il ritorno alla poesia di Orazio, alla chiarezza e alla misura del verso del latino, forniva la sponda teorica di quel ripiegamento nostalgico alla idealizzazione dello stato di natura propria del circolo di «Pratopagano». Alla fine degli anni Ottanta si situa anche un’altra esperienza culturale particolarmente significativa: la collaborazione, in qualità di componente di redazione, alla rivista «Arsenale», che contava tra i suoi redattori Gianfranco Palmery Francesco Dalessandro e Valerio Magrelli, impegnata in un tragitto di transizione tra la fine del riflusso della «parola innamorata» da una parte e i rigurgiti della «poesia della contraddizione» dall’altra, in direzione di una poesia attenta ai dati del concreto-sensibile.Se teniamo presente che la data di pubblicazione dell’antologia La parola innamorata è il 1978, possiamo considerare il decennio che segue come un momento di naturale riflusso, un riflusso che risponde al normale avvicendamento delle poetiche e degli indirizzi di poetica che si succederanno dopo il 1978. Dopo il decennio di scritture post-sperimentali, di scritture della «contraddizione», della «contestazione» che avevano caratterizzato gli anni Settanta, la Sicari si presenta, nel 1986, con un libro: Decisioni, un titolo assolutamente deciso, in controtendenza rispetto alle idee che all’epoca circolavano intorno alla funzione della poesia e al «ruolo» del poeta.

Decisioni è un libro forte, intenso, magmatico, dove la parola poetica si presenta costipata e compressa, intubata all’interno di versi lunghi, eccedenti la normale misura di un endecasillabo, ridotto a mera traccia, ad orma mnestica. Il discorso poetico di Decisioni è strutturato come una falange macedone per la quantità e la qualità della densità di parole agglutinate e giustapposte, per il fittissimo reticolato «decisionale» delle significazioni ivi compresse.. La «parola» della Sicari è «politica» in un senso nuovo e molto diverso da quello invalso negli anni Settanta; per la poetessa romana la parola poetica deve riappropriarsi di una funzione «politica» ma esclusivamente nel campo suo proprio, nel demanio della scrittura poetica. Non è a caso che la Sicari citerà più volte una frase di Osip Mandel’stam secondo il quale scopo «del poeta lirico è scambiare segnali con Marte». Il poeta russo dirà che la poesia del futuro sarà una «poesia da camera». La riflessione mandel’stamiana fornirà alla Sicari una sponda per il suo pensiero di una poesia che fosse, al contempo, «poesia da camera» e «poesia lirica» di tipo nuovo. Una poesia lirica che intenda comunicare con qualcuno che dimora sul pianeta Marte non significa una poesia disimpegnata, che si disinteressa del concreto-quotidiano, anzi l’intendimento della Sicari sarà proprio quello di fare una poesia ad alto tasso di investimento «oggettuale»; l’obiettivo non è creare una poesia astratta o non attenta al concreto-sensibile. Può sembrare una contraddizione pensare ad una poesia che abiti contemporaneamente due mondi sconosciuti e inconciliabili dove il poeta manda dei segnali simili ai segnali di fumo con i quali comunicavano, in tempi arcaici, i membri dei clan totemici, ma non è così, anzi, una poesia che intenda comunicare tra due mondi sconosciuti, segna una concreta novità di pensiero poetico in anni in cui parlare di segnali da scambiare con Marte poteva sembrare una provocazione, in anni di transizione quali sono stati gli anni Ottanta. La Sicari non mette più al centro delle proprie ricerche un concetto di poesia incentrato sulla prevalenza del significante rispetto al significato ma sposta decisamente il baricentro sul significato in rapporto ad altro significato, sulla singola parola assiepata, costretta, costipata accanto ad altra parola: è un espressionismo significazionista quello della Sicari che in quegli anni si muoverà in consonanza con altre direzioni di ricerca che vedranno un’altra rivista romana impegnata in direzione di una poesia «significazionista», con il dichiarato obiettivo di una «stabilizzazione del significato», come perseguito dal quadrimestrale «Poiesis» (1993 – 2005), che contava tra i suoi redattori, oltre chi scrive, Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Laura Canciani, con saltuarie collaborazioni di altri poeti di area romana, impegnata nella ricerca di una «poesia significazionista», aderente al significato delle parole.
Capire il contesto problematico in cui si muove Giovanna Sicari è molto importante al fine di pervenire ad una storicizzazione dei suoi risultati estetici. Come si vede dalle date di pubblicazione, le prime tre opere si collocano all’interno di dieci anni, tra il 1986 e il 1995, in una fase di transizione e di stabilizzazione verso quella che vorrei chiamare «poesia significazionista».
Decisioni è del 1986, Ponte d’ingresso del 1988, Sigillo del 1989 e Uno stadio del respiro del 1995. Nel 2003 esce Epoca immobile, che è un po’ la continuazione del discorso sulla «parola» delle prime tre raccolte, che segna anche una decisa evoluzione del suo stile: ora la dizione è come rallentata, si è acquietata in un giro largo della frase, il tono si fa meditativo, le parole non si assiepano più con la forza percussiva delle raccolte sorta di pacificazione da quello stato di belligeranza fonica totale delle prime tre raccolte. Nel 2006 uscirà, postuma, la raccolta completa delle poesie di Giovanna Sicari per i tipi di Empiria di Roma Poesie 1984-2003.

Non ho che cosce dure e capelli di ferro, l’amore è una risata
sarcastica, l’amore dal petto caricato di un prestigiatore
attende che il petto sia una mareggiata
che arrivi alla gola e bussi e crepi.

Nel testo citato è chiaro che il genere è quello della poesia di confessione ricevuta in eredità dalle Variazioni belliche e da La libellula di Amelia Rosselli ma qui ciò che importa è il trattamento cui la poesia di confessione è sottoposta: la qualificazione delle immagini, la loro selezione, l’omogeneizzazione linguistica oscillante tra il surreale e l’onirico, tra il metareale e l’iperrealistico. Siano sufficienti alcune brevi citazioni di incipit tratte a caso:

«Sognavo che ero morta e camminavo / l’ignoto scandiva impeti e campane»; «Con l’energia dei soldati ascolto il canto sfrenato / che arriva, che s’ode dalle crepe dei muri / respiro che crea un ingorgo!»; «Le sorelle mute per tutta la notte mi vegliarono»; «Dalla notte non venivano voli ma tele di ragni e canti di uccelli / risate da cani mentre giovanotti si tuffavano nella piscina» (da Sigillo, 1988).

Le azioni (ma parlare di azioni è quasi una forzatura, giacché in questa poesia non avvengono azioni di sorta), sono come a contatto di un reagente chimico, l’io poetico «parla», immerso in un clima di ostilità, di minaccia, di scherno, di derisione, di avventura picaresca e di intimità familiare; le «azioni», dicevo, sono delle vere e proprie «inazioni». Una poesia esternamente tutta «passiva» ed internamente tutta «reattiva», irriflessa, popolata di «soldati», «divise militari», «bombe al napalm», «fotogrammi osceni», «dove il vento nemico contagia i sordi», dove coabitano «Marlene, Gilda, Cleopatra», «banditi e rivoluzionari», occhieggiano « vampiri», un vero e proprio «inferno» «di cui gli uomini non sanno nulla»; tutta una nomenclatura che parteggia per una belligeranza totale di tutto contro tutti, in una indefinibile commistione di incomunicabilità e indecifrabilità, di tolleranza e di ribellismo esistenziale, rigurgiti di conflittualità e di amicalità, di ipotassi e di paratassi. Il senso finale del lettore è di dispersione labirintica prima ancora che semantica, ontologica.
La poesia della Sicari costituisce un esempio emblematico di un’età di transizione che si situa tra la fine del tardo moderno e il post-moderno propriamente detto.

Possiamo affermare che a metà degli anni Novanta è percettibile presso la poesia più avvertita che ci si avvia in un’epoca di transizione stilistica che conoscerà la crisi della «forma-poesia». Ma questa è già storia dei nostri giorni.
Nella poesia di Giovanna Sicari la «parola» è già metafora e quest’ultima si presenta come un vettore in movimento verso la significazione auto-dislocantesi. Il «significato» della metafora della Sicari risiede nel movimento del vettore-parola. Fintanto che c’è movimento c’è l’avvistamento del «significato», e se c’è in vista, dentro l’orizzonte di attesa del destinatario un «significato» attingibile, ecco che la «parola» inizia il movimento. Il nomadismo della «parola» è il motore immobile di questa ricerca costante del «significato». Il senso complessivo, ultimo, sarebbe la «risultante» di tutti i «significati» attinti e mai raggiunti, mai posseduti. Nella poesia della Sicari avviene una continua «perdita»: la «parola» insegue se stessa attraverso le innumerevoli facies delle sue «configurazioni». I suoi mutamenti possono essere identificati attraverso le innumerevoli «personificazioni» della parola, le innumerevoli stazioni di sosta lungo i binari di una fuga perpetua. Lungo i binari di una perdita perpetua. Lungo i sentieri di una dimora linguistica manifestamente ostile. La «parola» attinge le «personificazioni» come configurazioni formali del «significato». È una rincorsa affannosa di un qualcosa che sfugge continuamente. Come la chiama la Sicari: «la lingua degli angeli», la lingua immutabile perché interamente significazionista, che conosce soltanto la beata dimora del significato.

«Parlo dalle vette la lingua degli angeli / guastami nella corrente / non ho che mare di fogliame gremito / se afferro le cose – non si tratta qui di salvezza – / uno per uno attendono / sono fermi, incitano alla disfatta / diventa giorno diventa acqua la materia del tempo, / se afferro le cose è per la nascita, per la liberazione / degli esiliati» (da Uno stadio del respiro).

È sorprendente che proprio negli anni in cui «Poiesis» tentava la teorizzazione di una poesia «metafisica» (il Manifesto della «Nuova Poesia Metafisica» è del 1995), lo stesso anno di pubblicazione della poesia sopra citata, in quegli anni la Sicari fosse impegnata anche lei in direzione di una poesia «significazionista» e «metafisica». Le date non sono mai casuali ed è impossibile smentirle. Era, quella della Sicari, una poesia di difficile ricezione, ostica, quasi impenetrabile, che da taluni veniva scambiata per eccessiva, addirittura ingenua, o disarmata, e quindi periferica, se non addirittura «laterale». Una poesia non in linea con i dettami impliciti della poesia istituzionale.
Se andiamo a leggere i testi del primo libro, ci accorgiamo che la Sicari si muoveva in controtendenza, seguendo quello che era un percorso obbligato dettato dalla sua poetica, dalla sua etica, dalla sua scelta estetica e dalla sua sensibilità. Tutto ciò in un momento in cui il «minimalismo», nelle sue varianti romana e milanese, nella sua inarrestabile marcia trionfale verso un epigonismo di maniera, sembrava aver dissolto tutti gli argini e gli ostacoli e si poneva quale unico «modello istituzionale» della poesia contemporanea, quale parametro di riferimento delle ricerche poetiche in corso.

Una poesia intensa, febbricitante e pulsante ad alto quoziente di combustibile. La prematura scomparsa della poetessa romana, sanziona un discorso «interrotto», ci dà l’opportunità di ricostruire la geografia poetica degli anni Novanta, per poterne comprendere le ragioni che stavano al fondo della crisi della forma lirica.

Giorgio Linguaglossa

12 commenti
  1. Ho incontrato/conosciuto personalmente la poetessa Sicari; l’ultima volta io e la vedova del grande poeta Tommaso-Riccardo andammo a trovare in una località vicino Roma per una cena; vi era anche il marito Milo De Angelis – sapevamo che era ammalata. Ho sempre considerato la poesia della Sicari superiore a quella di De Angelis.
    antonio sagredo

  2. Mi pare che nella poesia che inizia con il verso:
    “Ortolana io scrivo per brama di controversie”
    ci sia questo con qualche refuso:
    “Mi apparire normale spiare la musica”

  3. Grazie Ennio per l’indicazione. Refuso corretto.

    Ho un bel ricordo di Giovanna sulla spiaggia di Torvaianica con suo figlio ed io con il mio (allora erano due bambini coetanei) e parlavamo un po’ di tutto. Lei mi faceva spesso domande su questo o quel poeta per conoscere la mia opinione, in lei c’era la curiosità di conoscere il mio pensiero ma non notai mai un cenno di invidia o di alterigia verso altre poetesse o poeti, cercava di capire che cosa ne pensassi io… insomma, in lei c’era molta vitalità, curiosità intellettuale… questo era molto bello, e ci stavo bene insieme al mare perché era franca e schietta, in ciò mi sembrava perfettamente romanizzata… dico nel senso migliore… forse all’epoca la crisi di degrado del paese non aveva ancora raggiunto i livelli macroscopici di oggi, intendo de “La grande bellezza”. Insomma, ricordo con nostalgia e rammarico sotto l’ombrellone di agosto il suo sorriso franco e schietto… Ricordo che un giorno, timidamente, mi chiese che cosa ne pensavo della sua poesia… e non ricordo più che cosa le dissi…

  4. DA STASERA

    Da stasera posso sentirla
    in un arpeggio di parole
    che non mi disconosce
    e raccolgo le frange di una storia
    spezzata, curvata, stonata.
    Anch’io di marzo sono caduto
    in un deserto di parole
    senza limiti e interferenze
    mi chiedevo dove scorgere
    le ombre malsane della guerra
    l’incapacità a decifrare gli ossi
    ad inseguir le tracce
    ripercorrere le orme
    di un ritorno estraneo alla terra.
    Spingo i passi fin dentro la bufera
    e mi respinge il fato:
    non ho dove poggiare il piede
    e mi spaventa la desolazione.
    ricomporrò i miei sogni accattivanti
    per intensificarne la memoria
    che m’attraversa e non mi fa domande.

  5. Caro Giorgio,
    in Arsenale, Giovanna non fu mai segretaria di redazione (lo era Bruna Giacomi). Ne fu, come coloro che citi nell’articolo (e altri: Alessandro Ricci, Italo Benedetti, Giuseppe Saltini) fondatrice e redattrice. Altro discorso sarebbe da fare sulla rivista stessa, ma non è il luogo…
    Francesco Dalessandro

  6. Francamente tra ipoeti della rivista Braci che citi, Beppe Salvia mi sembra tutto fuorchè aurorale e rurale. Ti ringrazio comunque per questo prezioso articolo sulla Sicari che, proprio in questo periodo sto leggendo con molto interesse, certamente a livello poetico non può essere certo considerata una “moglie di” (il cui marito in effetti e a tratti profondamente m’annoia) e qui mi trovo molto d’accordo con Sagredo.

  7. Incontrai Giovanna Sicari a casa mia qui a Manhattan e apprezzato la sua compagnia per alcuni giorni circa due anni prima della sua partenza per l’eterno. Gentilissima signora, bellissima di animo forte e sicuramente poeta
    come rari lo sono. Parlai con Giovanna al telefono pochi giorni prima la sua voce dolce già lontanissima nello spazio si spegnesse. Poi le dedicai un simpatico ricordo sulla rivista Gradiva. Che l’amico Milo mi perdoni se dico che la poetica di Giovanna è più robusta della sua misteriosamente compatta. Due forze che non si assomigliano.
    Alfredo de Palchi

  8. Carissimo Alfredo, come ci troviamo d’accordo!!! MI fa piacere assai il fatto che rispondi coi commenti, e io mi faccio vivo per darTi un bacio sulla fronte,
    Eppure ricordo forse che quella sera a cena mi parlava di un poeta italo-americano, e forse mi disse anche il nome… ma Ti spedirò l’Opera di Tommaso-Riccardo al più presto… io e Tommaso consigliammo al MIlo di smettere di scrivere. Non lo ha fatto! e ha fatto un errore!
    antonio

  9. Carissimo Antonio, che piacere sentirti privatamente e anche in questo blog. Giovanna ascolta tutti noi che diciamo frasi sincere, ed è giusto che
    Giorgio Linguaglossa l’abbia portata a galla. Modo di dire. Non mi sono mai
    permesso di mettere a confronto Giovanna e Milo, a parte che non faccio il
    critico, perché come ho già detto loro sono due forze assolutamente separate e differenti che nessuno può farle assomigliare. Non direi mai a Milo di dedicarsi al lavoro dei campi, ma scrissi in vari blogs qualcosa di simile e feroci accuse ai 60 milioni di pochettini italiani, noti e non, di abbandonare la scrittura per il benessere del paese. I milioni che continuano a farmi venire conati di vomito sono sfide defunte di “zombis”.
    La sola curiosità rivolta direi a vanvera a Milo fu quella di sapere se l’avesse mai assistita, e consigliata al grosso editore. Capii che non aveva poteri. Comunque, Milo non c’entra in questo discorso su Giovanna. Qui auguro a Giorgio di riuscire ad allargare e approfondire il discorso sulla poetica di Giovanna Sicari e farla risorgere dalla devastazione dell’abbandono.
    Ciao a te Antonio e a chi commenta.

  10. Invito tutti a leggere l’indispensabile fascicolo monografico di “Gradiva” , n. 26, Fall 2004, interamente dedicato a Giovanna Sicari, che e’ curiosamente taciuto nei vs. commenti, e che contiene interventi, fra gli altri, di Eraldo Affinati, A. Anedda, M. Caporali, M. Cucchi, M. De Angelis, A. de Palchi, R. Diedier, L. Fontanella, B. Frabotta,M. Guzzi, I. Marchegiani, R. Mussapi, G. Palmery, E. Pecora, P. Perilli, G. Sica, A. Toni, I. Vincentini, V. Zeichen, ecc. ecc.
    Copio e incollo qui di seguito l’intervento da me tenuto poche settimane fa a Frascati (10 gennaio 2014).

    PER GIOVANNA, OGGI COME IERI
    _________________

    L’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta.
    GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone 4357

    Non invecchierai, non morirai
    Resterai così come in quelle foto d’estate
    Nel maggio luglio delle azalee
    Col fiore all’occhiello e l’alito di gioventù
    Senza ferite senza morte senza anni.
    GIOVANNA SICARI

    È sempre con struggente, “splenetica” malinconia che mi viene di ripensare a Giovanna Sicari, amica tra le più care che la vita mi ha regalato. E oggi non mi capacito che siano già trascorsi dieci anni da quando ci ha lasciato…
    Della poesia di Giovanna sono stato lettore appassionato fin da quando la conobbi intorno alla metà negli anni Ottanta. A quel tempo (1985-1989) era redattrice di “Arsenale” (rivista ottimamente diretta da Gianfranco Palmery: ecco un altro poeta che se n’è andato tre mesi fa lasciando un grande vuoto dentro di me), e aveva appena pubblicato Decisioni (Quaderni di Barbablù, 1986), il suo primo libro di versi, con l’Introduzione di Milo De Angelis, che quattro anni dopo sarebbe diventato suo marito. Ricordo che mi colpì, di primo acchito, la perentorietà di quel titolo, e altrettanto perentori sarebbero stati tutti i titoli dei suoi maggiori libri successivi: Sigillo (Crocetti, 1989), Uno stadio del respiro (Scheiwiller, 1995, Premio Dario Bellezza), Nudo e misero trionfi l’umano (Empiria, 1998), Epoca immobile (Jaca Book, 2003). E non sto neppure a ricordare varie plaquettes o pubblicazioni a quattro mani, tra cui, decisamente significative, spiccano Non solo creato (Crocetti, 1990), che comprende due nuclei antologici di diciannove poesie ciascuno, il primo di Milo De Angelis, il secondo di Giovanna Sicari, e Roma della vigilia (Il Labirinto, 1999, con tre disegni di Nancy Watkins), preziosissimo libriccino che mi è particolarmente caro, e che contiene versi tra i più strazianti e febbricitanti della sua intera opera (basterebbe la sola poesia finale di quel libretto, dall’indimenticabile copertina rossa, a testimoniare la straordinaria capacità “divinatoria” di Giovanna).
    Ovviamente le poesie di queste pubblicazioni sarebbero poi rifluite, con varianti e cambiamenti di tipo strutturale nelle raccolte a tutto tondo; tutte operazioni che andrebbero analizzate attentamente in vista di una auspicabile, complessiva edizione critica – se mai ci sarà – che comprenda anche testi tuttora inediti in volume.
    Discorso a parte meriterebbe poi il lavoro critico e saggistico di Giovanna, variamente intrigante, racchiuso in tre libri (La moneta di Caronte, da lei curato per Spirali nel 1993); La legge e l’estasi (I quaderni del Battello Ebbro, 1999, con una Nota di Roberto Roversi), e Milano nei passi di Franco Loi (Unicopli, 2002), nonché in svariate note e recensioni pubblicate in riviste più o meno importanti, come “Fermenti”, “Galleria”, “Rendiconti”, “Poesia”, “Arsenale”, “Gradiva”, ecc.
    Va infine – ma non alla fine – ricordato il bellissimo volume americano, postumo, Naked Humanity (Gradiva Publications, 2004), traduzione di Emanuel di Pasquale, Introduzione di Paolo Valesio, Nota di Milo De Angelis, foto di Ferdinando Scianna.

    Ma oggi, per quest’occasione, io vorrei ricordare, prima ancora della sua poesia, la bellezza – da intendersi in tutti i sensi – che irradiava Giovanna. La quale è stata una bellissima donna e ancora più bella era stata da giovane: alcune istantanee dell’appendice fotografica del volume monografico a lei dedicato dieci anni fa da Gradiva Publications a cura mia e di Milo De Angelis, stanno ben a dimostrarlo. So di recitare uno stilema arcinoto da Dostoevsky a Keats (Beauty is truth, Truth is beauty), ma davvero in lei Bellezza e Verità (verità poetica assoluta – l’aggettivo “assoluto” è d’obbligo per la poesia di Giovanna) si fondevano in modo patente quanto, a volte, perfino insolente. Del resto – chiunque abbia frequentato Giovanna ha avuto modo di percepirlo – tra le due categorie non c’è mai stata una vera dicotomia. È certo, anzi, che in pochissimi poeti della modernità il nesso vita-poesia sia stato così stretto, così intrecciato, così immediato, così fatalmente necessario come in quello di Giovanna. E ovviamente qui il ricordo corre subito a modelli stellari come Baudelaire, Dino Campana, Amelia Rosselli, Pier Paolo Pasolini; quest’ultimo da lei tanto amato: ricordo la sua recitazione a memoria di non pochi passi della poesia pasoliniana, in particolare quella da lui scritta a Roma e per Roma. E proprio sulla nostra amata/odiata città Giovanna avrebbe pubblicato un bellissimo libriccino, poc’anzi menzionato, Roma della vigilia, che lei stessa mi portò a New York nel novembre del 1999, in occasione del terzo congresso della IPSA. L’aveva pubblicato Gianfranco Palmery, poeta fine e tenebricoso, suo compagnon de route litteraire fin dai tempi della rivista “Arsenale”.
    Roma della vigilia è il nono titolo dell’elegante collanina Tarsie delle Edizioni Il Labirinto. In quel prezioso libriccino comparivano, della nostra autrice, sedici intensissime poesie (poi riprese e amalgamate in vario modo in Epoca immobile) ispirate a Roma, città nella quale – se si esclude l’infanzia tarantina e il breve periodo milanese in Via Bovisasca tra il 2002-2003 – Giovanna ha vissuto quasi tutta la sua vita (dopo la permanenza a Monteverde, la famiglia Sicari si trasferì nel 1970 in Via Nicola Stame, dove tuttora risiede. Infine, dopo un breve periodo in Via Prenestina, Giovanna, a seguito del matrimonio con Milo De Angelis, andò a vivere in Via Giolitti).
    In queste poesie di Roma della vigilia l’autrice non si stanca di interrogarsi su passato e presente nel quale luoghi, persone e situazioni la videro agire in “anni imperfetti” e nel tremore del “buio ansioso”. Profonda è la mia commozione che scaturisce dalla rilettura di questi versi, che si muovono affannosamente tra nostalgia e utopia, pregni come sono di una febbrile, cogente, ancestrale pietas (“[…] nel buio della folla appassionata / che assetata voleva il nostro sangue / sangue degli amici, sangue dei nemici / oh follemente ero nel vuoto infinito / dell’indecisione, volevo quelle strade / di Roma senza scampo / rinunziavo o le trovavo / le volevo solo per la mia infanzia / rincorrevo, ringraziavo, pregavo. / Roma e le sue strade / erano il tormento.”, p 26).
    E tutto da leggere e rileggere è l’ultimo, presago componimento (XVI), “Pioviggina ed è inverno a Monteverde”, per me l’apice indiscusso di questo libriccino, pasolinianamente dedicato a “mamma Roma”:

    Vorrei avvolta in un mantello non fingere
    mai e poter pregare, chiamare
    – mamma! – mamma incisa e designata,
    mamma del ricordo come fosse lei sola a guarire

    le ferite mentre fuori tutto è fermo e pioviggina
    ed è inverno, è inverno a Monteverde dietro i vetri
    nulla fa male, soltanto un sogno non importa cosa;
    ho tredici anni e piango per nulla con vero dolore
    ma dentro in un attimo divampa la gioia.
    Tutto in quella casa affonda
    a poco a poco rivedo i fratelli nati alla stessa ora
    o forse morti o partiti o cresciuti
    in una bolla, non hanno rischiato la vita,
    non si sono feriti nella campagna, ora li vorrei
    qui all’ingresso della villa, in un soffitto di panno
    con lo stesso cielo d’amore. (p. 28)

    Vengo ora a Epoca immobile (Jaca Book, 2003), la raccolta con la quale Giovanna raggiunge la sua piena maturità espressiva; libro che lei ebbe modo di sfogliare in anteprima in una preview copy, freschissima di stampa, portatale da suo marito direttamente nella sua cameretta del sacro Cuore, il 25 dicembre 2003, sei giorni prima della morte. Lì presenti, accanto a lei e a Milo, c’ero anch’io con Plinio Perilli. Fra l’altro, a dimostrazione della sua uscita a cavallo fra il 2003 e il 2004, la noticina finale indica dicembre 2003 come data di stampa, mentre, nella pagina precedente, nell’elenco dei volumi pubblicati nella collana curata da Roberto Mussapi, viene indicato il 2004.

    Il titolo è ricavato dall’ultimo verso del componimento Non parlo con gli inquilini (“Cinque minuti d’amore valgono / cinque anni d’infelicità perché / i giorni sono avari di labbra, ruotano congelati / in un’epoca immobile pieni di sangue”, p. 17). Un titolo che sembra suggellare per sempre un che di fermo e immutabile, di imprescindibile credo, di nudità assoluta e disarmante, nella poetica della nostra autrice;, come dimostrano altri titoli affini; titoli che in qualche modo stanno subito a sottolineare, a esibire la fede totale, categorica, imperativa nella/della poesia. Una “fede” – sia precisato immediatamente – che non è mai confessionale e non si chiude solipsisticamente in chi apertamente la professa, ma si rivolge, si appella agli altri e a quanti siano “degni” (capaci) di ascoltarla e condividerla. Questa fede, questa dedizione incondizionata ed esclusiva, comporta da un lato una costante attenzione al mondo degli umili, degli sfruttati, dei periferici, degli emarginati e dei “perduti” (nella stessa poesia contenente lo stilema del titolo c’è un preciso rimando in tal senso), dall’altro si apre a squarci visionari; poesia, insomma, che spinge a una presa di coscienza totale e, al contempo, stimola l’evasione e la visione di/da ciò che essa può suscitare nell’animo trepidante di Giovanna che se ne fa messaggera, annunciatrice, veggente.
    Da questo punto di vista Epoca immobile si dipana in modo acceso e vibrante, attraverso un discorso allucinato e letteralmente sibillino (la voce della “sibilla” coincide con quella del poeta). Da qui, per ogni umano destino, il contrasto insanabile tra Legge e Caso, Désir (liberatorio) e Convenzione, Azzardo e Necessità.

    È tra questi due poli che si gioca la scommessa del poeta, pronto a “sacrificare” la propria fisicità stanziale, del proprio Esserci, fino ad aspirare ad una pura “scia d’amore” (“Solo una scia d’amore vorrei cantare / quando non sono né donna / né carne, né volo, né acqua”). Questa sorta di “sottrazione” di se stessi si attua proprio quando il soggetto percepisce il disfacimento urbano in cui si muove giornalmente (ricordo che Giovanna per dodici anni ha insegnato nel penitenziario di Rebibbia); un disfacimento, tipico delle periferie romane, che però si offre come materia di canto. Nella sua poesia la realtà come lutto e disfacimento trascina con sé qualcosa di ineluttabile ma anche, al contempo, di estremamente vitale; perché il “lutto” viene continuamente riscattato da una Bontà di dostoevskiana memoria. Tutta da leggere e da riflettere è la bellissima poesia intitolata “Lydia” ( che già compariva in Roma della vigilia), della quale riporto l’incipit.

    Poi quelle facce della periferia andando
    mimando i piccoli fiori smorti delle aiuole
    ancora un nome scritto dietro il recinto
    errato: una donna gaia madre straniera
    con la vitalità del lutto eterno. (p. 22)

    È la percezione della realtà quotidiana sentita come ‘terra desolata’, dove il tempo è astorico, e tutto sembra sbrindellarsi, polverizzarsi tra furori e risentimenti, pianti e condizionamenti, “solchi di strappi e pressioni”, miserie e rancori; il tutto come a (s)comporre una disarmante, nuda umanità che ne è comunque protagonista.

    La liberazione da questi ceppi di natura sociale e morale possono essere rappresentati dagli sbocchi improvvisi della memoria: momenti d’infanzia e di giovinezza che s’affacciano improvvisi e giulivi in tutta la loro flagranza; attimi visivi in cui può offrirsi alla sensibilità (alla sensorialità) di Giovanna la presenza di un muto mendicante simile a un “uccellino intirizzito”; l’immagine di una prostituta che non ha perduto la sua dignità; uno sconsolato abbaino di periferia; il volto “selvaggio e lieve”di un ragazzo o quello segnato di una detenuta che non ha rinunciato ai suoi sogni. È da questi momenti di “agnizione” che può scaturire (scattare) lo slancio ‘ribelle’, come una sorta di moto catartico verso l’alto (sottolineo, en passant, che “cielo” – insieme a “finestra”, “luce” e “speranza” – è il lemma più ricorrente in assoluto nella poesia di Giovanna); uno slancio liberatorio che ha come angeli custodi la sublime Bontà e l’irriducibile Speranza. Sulla prima tutta da leggere è la poesia “L’ultima chance” (p. 50), che molto significativamente porta un epigrafe dostoevskyana (il Dostoevsky dell’Idiota e la Morante di Menzogna e sortilegio) sono stati in assoluto gli scrittori più amati da Giovanna.
    Da qui l’esaltante coinvolgimento che provoca questa poesia visionaria, fisica e spirituale insieme, letteralmente estremista, specialmente laddove essa subisce come un processo di bianca trasfigurazione (“La faccia si trasfigurerà in uccello bianco / come la luce nella stanza, la luce avrà pietà del nostro destino / piove a dirotto come un evento […] È tutto, è questo, è quieto. Il lettore si trova di fronte – e mi riferisco in particolare alla sezione di Nudo e misero trionfi l’umano – a una versificazione vertiginosa, proferita con il massimo dell’esaltazione parossistica, oratoria e oracolare, mistica ed elegiaca, nella quale Giovanna raggiunge un pathos raramente riscontrabile nella poesia italiana d’oggi (si legga in particolare il componimento conclusivo a p. 65), che influenzerà qua e là la stessa poesia di De Angelis. Dietro di esso si cela un’intensa, immensa, insaziabile richiesta d’amore. I testi che compongono Il giorno fu pieno di lampi mi sembrano altamente eloquenti in tal senso.
    Epoca immobile si conclude con la sezione Canto della riparazione e Ore d’aria. Il poemetto omonimo (“Canto della riparazione”) non solo segna il vertice espressivo ed emotivo di questo libro, ma a mio avviso si pone tra le vette più alte di tutta la poesia contemporanea a Giovanna. Poemetto scritto come in uno stato di trance (e ne andrà sottolineato l’etimo), con uno srotolamento trasognato di immagini e cose, sensi e allucinazioni. Il tutto svolto come un panopticon a 360 gradi, ch’è canto e incanto pieno. È decisamente in questo poemetto, lo ripeto, che la poesia visionaria e divinatoria di Giovanna tocca il suo acme di rivelazione assoluta, in cui poesia e profezia combaciano in una sintesi di irripetibile densità e fascinazione.
    Libro radicale, Epoca immobile, è opera senza compromessi con niente e nessuno; libro nudo di preghiere e di maledizioni, di slanci, di desideri e di miserie; libro che, nel cupio dissolvi finale (mi riferisco in particolare alle quattro poesie dell’ultima sezione), sanguina senza richiesta di balsami pietosi, che trova pace e compimento proprio nel suo magma aperto, esposto agli uomini, allo scempio del tempo e a un cielo forse troppo lontano.
    LUIGI FONTANELLA
    Firenze, gennaio 2014

    • Ringrazio Luigi Fontanella per la precisazione del fascicolo monografico dedicato alla poesia di Giovanna Sicari e per il denso intervento presente nei commenti.
      Il pezzo da me scritto sulla poesia di Giovanna Sicari risale al 2005 ed era inedito, così ho pensato di rendere omaggio alla memoria sua e della sua poesia pubblicandolo sul blog.
      Per quanto riguarda gli studi contenuti in Gradiva, faccio presente che questo è un blog che non ha (e né può avere) alcuna pretesa di completezza bibliografica. Quello che a me in veste di critico stava a cuore quando ho scritto il pezzo era tentare di storicizzare la poesia della Sicari entro le coordinate stilistiche e storiche del suo tempo. In quest’ottica il rapporto di amicizia che mi ha legato a suo tempo con Giovanna passa necessariamente sullo sfondo in quanto avrebbe potuto inquinare la neutralità storica del mio giudizio critico.
      Un conto è la critica militante dell’oggi per l’oggi, un altro è la valutazione storicocritica di un corpus poetico già fermo e concluso nel tempo.

Lascia un commento