Emanuela Dalla Libera, “Infinito andare” (Il Convivio Editore, 2022). Nota di lettura di Gabriella Cinti

Questa raccolta poetica è attraversata da un filo rosso tematico che tesse con nitida congruenza i componimenti e ritorna suadente come un motivo musicale di una dolente ed elegiaca lunga ballata, un mormorio melodico in cui sono le parole e i versi a costituirne la materia sonora, intessuta di echi interni multipli nella sottile aura semantica che essi distillano.  Uno degli elementi che mi pare centrale, è la presenza di un silenzio come luogo, come dimora di quiete “nascosta”. Termine che ricorre emblematicamente con frequenza, il silenzio si muove in un ambito di significazione molteplice ma connesso all’enigma dell’irreversibile, alle zone d’ombra della vita.  La poetessa illumina uno spazio sospeso, in qualche modo sottratto al “divenire inesorabile”, mette in atto una azione salvifica nei confronti di un “moto” riconosciuto come “dolore”, volta a recuperare una consistenza analoga a quella degli elementi della terra, il “tronco”, gli scogli, le zolle.

La natura si dispiega nei versi, con la sua accampante matericità, che nulla toglie al valore simbolico con cui è rappresentata, anzi lo rende più denso, impastato di una vita attraversata dall’interno, perché il rapporto di Emanuela Dalla Libera con il paesaggio è di una intimità fusionale, senza scarti.

 Si avverte nitidamente, nei vari testi, una tensione a cogliere, nel flusso rapinoso e indistinto del tempo, l’eternità d’istante, i “piccoli prodigi”. Una vera e propria elegia della vita – per certi versi paradossale quando sembra affiorare da dolorosi precipizi -, pur vi si declina, lieve e accorata, nella cristallina misura del dettato poetico. Al contempo si scorge, nello sguardo dell’autrice, una sorta di contemplazione da un’angolazione distaccata, a volte quasi rassegnata. Pathos e distanziamento prospettico, generano una prospettiva mobile, un alternarsi di piani che talvolta hanno suggestive movenze filmiche.

Nella sofferta consapevolezza del percorso umano transeunte e fuggevole, Emanuela Dalla Libera, sembra cercare il montaliano “anello che non tiene”, un momento fuggevole di grazia per risalire a ritroso nel passato, invertire la rotta del destino.

Vero protagonista del libro mi pare infatti proprio il tempo, alla cui spoliazione, agli anni precipitati, alla “corsa che trascina il tempo all’infinito”, occorre opporre figure di luce rappresentate, ad esempio, da alcune felici immagini simboliche, per sceglierne solo alcune, come quelle dell’ambra di mare e del fiore d’elicrisio.

Poesia di visione e fortemente sinestetica, quella di Dalla Libera, che rende quanto i sentimenti e le idee siano in adesione assoluta alla natura, che intreccia la sua lingua non umana ma non meno affascinante, a quella poetica dell’autrice, in un rispecchiamento totale, un messaggio cifrato ed iniziatico che solo lei ha il dono di ricevere.

La poetessa sembra dare voce al mondo, sciogliendosi dall’io individuale, per assumere una voce corale scommessa ma di ampio e religioso respiro.

Anche per questo l’afflato poetico investe creature per lo più femminili dal destino estremo e travagliato e Emanuela riesce a dare voce a quelle “storie frantumate”.  Ma vi è anche un’ispirazione umanitaria più espansa, un caldo appello redentivo verso creature diseredate, le tante vittime sacrificali che hanno attraversato la terra,  un senso profondo di affratellamento universale espresso con un lirismo dalle movenze evangeliche.

La vena nostalgica che trascorre nella raccolta, pur nella struggente evocazione di un tempo memoriale fatalmente trascorso, rimane composta in una delicata malinconica che esprime misura del cuore e perizia stilistica al contempo.

I versi ordiscono la trama di una dialettica tra una memoria che sembra prigioniera del passato, arresa alla irrevocabilità del tempo, alle “vite inabissate” e un’ opposta, vitalistica e volitiva necessità,  quella di liberare sogni in forma di “canti che si levano a sciogliere il gelo”.

 Una analoga correlazione si può rilevare tra la consonanza armonica che domina la natura – quel “verde paradiso” che è il luogo diletto dell’anima dell’autrice – e la sua dimensione interiore. Infatti spicca con frequenza tra i versi, l’istanza di distendere sul penoso orizzonte umano, un tessuto di pacificazione, di riconciliazione delle cose nelle “trame dentro l’universo” .

Nell’impari sfida tra resistenza e distruzione, la memoria costituisce dunque uno scudo magico di difesa, una privata salvezza, fosse pure il nominare le antiche presenze, e portarle in ri-cordi, cioè immagini vicine al cuore.

Di fronte al mistero del mondo, la parola poetica si erge come un baluardo di speranza, di un recupero esistenziale che inverta la rotta ineluttabile e soprattutto sia testimonianza di questo “infinito andare”, viaggio di poesia e viaggio dell’anima del poeta.

Va ribadito che una particolarità della poesia di Emanuela consiste in questa riflessione sul tempo intrinsecamente legata ai luoghi, spaziali e geografici, indissolubilmente connessa ad essi. La definirei una poesia “marina”, “cielica”, se posso creare questo termine perché tutti gli elementi aerei ed equorei sono ben più che uno sfondo naturale ma assurgono al ruolo di tangibili e animate figure creaturali, con cui in grande naturalezza stabilire uno stretto rapporto di fratellanza d’anima. Il paesaggio e le stagioni non circondano la vicenda interiore della poetessa, ma ne costituiscono davvero l’emblema, in un perfetto “correlativo oggettivo”. La natura è l’unica interlocutrice in grado di interpretare il senso della vita: le stagioni, il volgere dei giorni, incarnano i rivolgimenti interni e le emozioni, il tendere verso una sia pure utopica alba di nuova vita. Perché la natura di per sé contiene quel “perpetuo ritorno” che consente all’anima di rinnovarsi, fondendosi in un ritmo vitale, di consolante accordo con l’esistente, di ritrovata e consapevole appartenenza all’universo, in cui comporre dissidi e sciogliere le più cupe malinconie che trapelano spesso dalle poesie.

Ma vi è di più, lei  presta la voce alla natura e alle sue creature o meglio è in grado di intenderne la lingua e di tradurla perché  è, iniziaticamente,  “vestale di natura”, perché vi è appunto una piena osmosi tra lei e “l’eterno battito del mondo”, quel rigenerarsi della vita, che rinverdisce speranze anche umane. Si è insistito particolarmente su tale aspetto della poetica dell’autrice perché questo parallelismo è realizzato con una naturalezza rara,  con  un’autenticità convincente e coinvolgente.

In questo dialogo muto, Emanuela plasma i suoni dell’aria, della terra, degli animali in una grande sinfonica elegia in cui risuona una sommessa poesia “botanica”, dove la vegetazione marittima compare come amicale epifania, in confidenza di dolce conforto.

Circola un’altra segreta istanza, velatamente confessata, che la memoria e la poesia possano riportare la vita che sembra perduta, il passato, la storia e le storie. La parola poetica assume così il compito di una sorta di rinascenza, di possibile, fragile e solida diga d’anima al franare del tutto, al “tempo dissolto”.  Infatti “anche la morte ha vita/ se racconta” e “una voce perdura/ a inanellar sentieri sulle orme rimaste del passato” e la poesia ricompone “il soffio breve” “dei nomi” e ricrea le voci originarie, riporta alla luce “un’altra aurora” che vinca la ferita luttuosa di un tempo “schiacciato dal destino”.

Perché l’anima di un poeta può guarire “il male di vivere” e generare miracoli e far ritrovare “il nostro paradiso” ma anche l’età d’oro dell’uomo, quella dei sogni.

Un dono che la generosa poesia di Emanuela Dalla Libera regala al mondo.

Gabriella Cinti

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