Viaggio onto-logico dell’Immortalità. Considerazioni per “Indice di Immortalità” di Marina Petrillo, di Gabriella Cinti

(Marina Petrillo, “Indice di Immortalità”, Prometheus Editrice, Milano, 2023)

Devota all’Indicibile, Marina Petrillo, ci addita una immortalità come orizzonte supremo dell’uomo e cardine della sua poetica, una sintassi della trascendenza in cui il “non detto-sussurrato” si rivela essere in realtà una invocazione verso la “vastità” del Sublime con cui dialoga quest’opera. 

Raramente dunque nella poesia contemporanea si riscontra una tensione spirituale così elevata ed espansa come nella poesia di Marina Petrillo. Questo libro in particolare – composito tra il mémoir, il brano teatrale, la poesia, la prosa filosofica e aforismatica e altro ancora – si presenta come una summa condensata di motivi e di forme, anche grafici perché ogni espressione abbia una sua veste e un suo stile.

I suoi messaggi poetici, serratamente metafisici, si possono cogliere per lo più con voli d’intuizione, antenne interiori che devono farsi sottili e potenti per poterne captare il vertiginoso portato semantico del libro. Cito i seguenti versi, in apertura, come una sorta di manifesto emblematico del nucleo concettuale portante dell’opera: “Al battere continuo alla porta dell’assoluto / risponde, in segnale, l’indice di immortalità”, scaturito direttamente dalla fonte prima dell’Essere, che rompe il suo silenzio per farsi dono di poesia e di amore per gli uomini.

Il nodo del tempo, proteicamente inafferabile, che intreccia vita e morte nella vertiginosa “successione dell’istante”, è una delle costanti tematiche dell’autrice.

Un tempo di tipo circolare e una natura vista dall’alto, da prospettive angeliche apicali, dominano nell’opera e percepiamo come la sua comunicazione disponga in modo puramente strumentale del dispositivo della parola, una sorta di piedistallo di natura spirituale per voli oltrepoetici. La sua scrittura frequenta e attiva lo spaesamento temporale che porta alla simultanea, ossimorica presenza di tutte le dimensioni, in una logica di tipo quantistico: in questo spazio si dispiega una tenace lotta a smantellare l’apparenza delle cose con una sottrazione che non viene da un isolamento ascetico ma dal riconoscimento di una patria celeste di riferimento.

In realtà gli scritti di Petrillo necessitano di una capacità alchemica di collocarsi nella trascendenza, evocata da una simbologia complessa quanto catturante: dietro le parole, DENTRO LE PAROLE, traspare l’epifania di un Soprannaturale da considerarsi come angolo prospettico per interpretare le cose del mondo. Lei stessa afferma poeticamente: “Opera Sacra il vivere”.  Con ciò non intendiamo il divino come il “Deus Otiosus” delle divinità etnologiche, cioè come un Essere creatore avulso dal suo creato. In realtà, il suo rivelarsi pulsa come corrente del divenire in una filialità universale: così si svela il Volto dell’Essere nella sapienza panica, una “divina forza” che pervade il cosmo guidandolo verso ascensioni spirituali e liriche al contempo.

Il frutto è Poesia alta e densa, ma al contempo lieve come parole di nubi, da contemplare e cercare di decifrare in modo ampiamente divinatorio.

Una tale vicinanza all’immortalità, fa della lettura di queste pagine una conquista iniziatica ardua ed esaltante, perché ci si affida alla fallibile impresa di decodificare ciò che invece occorre accogliere come lingua astrale, un messaggio dallo Spazio Profondo, quello dell’anima, della sua anima. E questo messaggio parla di una Totalità in cui l’uomo partecipava edenicamente dell’Essere: “Fummo elementi del Tutto a lui affini”. Questo senso di esilio si fonde con una viva e calda istanza di ricongiunzione, di recupero nella vita terrestre di questa provenienza.

Viaggio angelico dunque incarnato in varie anime, quelle che Marina Petrillo ha attraversato e che delineano uno scenario di luci e ombre di grande valenza simbolica; un dialogo tra chiarore e oscurità pervade il libro, all’insegna di un sogno che holderlianamente avvicina l’uomo a Dio e a cui l’autrice appartiene, direi per destino e per poesia. Tale tensione mistica si arricchisce di contributi alchemici, necessari per quel continuo processo di trasmutazione psichica che colora gli slanci spirituali, gli aneliti salvifici che circolano tra i versi: “Un fuoco divino pur ci sospinge, di giorno e di notte (Holderlin)”.

Certo è che Petrillo possiede a pieno “il nuovo sillabario” dei poeti, perché le è insito, le è naturale come un respiro, congeniale come un passo di danza: lo spessore di un pensiero prettamente speculativo risolto in versi con grazia alchemica, grazia che viene da altri mondi di cui l’autrice è come messaggera, riuscendo a dare forma di pietra filosofale alla “vastità del non-detto”. Pietra su pietra, lemma su lemma, la cattedrale metafisica si innalza (o scende fino alle vene della terra) su parole gotiche e di antica sapienza, tramando simmetrie segrete al limite del visibile, sciolte in suoni destinati all’udito interiore, ritmati su frequenze al limite dell’inudibile, ma che scendono nelle profondità di chi li ascolta. Perché lei, con il Checov che cita, vive in quell’oltre e da lì proviene, può affermare: “Ciò che sta oltre è/ enorme, inimmaginabile, sublime e sopravvive”.

Da questa eburnea torre dell’Oltre, Marina Petrillo contempla con pietas poetica il trascolorante divenire del mondo, “le specie ibride” del vivente anche se il suo è “sembiante di stella” e la sua parola angelicata “traccia il sintagma di un musicare estremo” e ritesse armonia come missione divina. Perché alla Parola è assegnato un compito ontologico di natura apocalittica: “Nell’istante di rottura, fuoriuscire in altra forma e lì, essere parola”, e parola che ricompone il mondo in un kosmos di interezza che ne saldi tutte le dolorose fratture, che superi la separazione delle lingue e degli umani dalla perfezione divina. Come se il logos terreno portasse il marchio di quello che lei chiama “adulterio lessicale” che sconta lo scivolare del mondo in una inevitabile aporia, a cui reagire in permanenza, opponendo a questa sorta di “colpa”, una catarsi linguistica quanto spirituale. Infatti userei questa parola, – scomponendo intenzionalmente il termine “onto-logico”-  che ho attribuito al suo viaggio, per significare con insistenza che l’Essere cui tende Marina è esattamente Parola, a prescindere che venga pronunciata o si aggiri nella sfera superiore e incorporea dell’intellegibile. E che si tratti di una precisa simbiosi, ne abbiamo traccia in versi come questi: “A stento tracciai una spirale illuminata da dorate lettere in cui trascrivere l’Eterno”, a riprova della connessione tra il piano delle parole e quello dell’Essere e dell’Essere superiore. Che poi è il Logos di cui lei stessa, quello “non diviso” come “indiviso è il multiverso”, e la poeta sua suprema “ancella”, che “stringe tra le mani “il fuoco assoluto (che) illumina il passo”, lei che può vedere “l’immobile sfolgorio”: un Essere che è anche e soprattutto Bene che appunto “viene incontro a chi ama”. La vera poesia è sempre sull’orlo dell’indicibile e quell’orlo è la dimora di Marina Petrillo, per giungere a quella “transustanziazione linguistica” che è il suo vero telos, in quanto “l’Assoluto richiede altra forma”, verso cui Marina tende, per disvelare “la chiave dell’Essere”. Di questo Bene dovremo parlare, per illuminarne la natura metafisica più che etica. È parola, numero, musica, intendimento, che prorompono dai versi in forma non solo cifrata. Quasi un manifesto di intenti. E la poesia è lo strumento principe di questa ascesa, per quell’heideggeriano “cantare il sacro” che Marina poeticamente cita.  Questo cammino di unità verso cui lei vede gli esseri viventi avviarsi: “il coro /degli esseri senzienti.” E tutto questo è moto continuo, vortice elicoidale in cui il tempo, le civiltà, la natura, il cosmo tutto, turbinano nell’occhio mandalico di Marina Petrillo che li fa respirare, circolare nel divenire prismatico della sua scrittura e della sua visione del mondo.

Uno straordinario esempio della originalissima trasversalità dell’autrice, oltre alla pluralità dei suoi stili espressivi e alla pluralità dei linguaggi cui attinge, consiste nel frequente ricorso a immagini pittoriche delicate ed eleganti, ma tutt’altro che oleografiche (ricordiamo che Marina Petrillo è anche raffinata pittrice, quindi artista in senso completo), ma la vista si fa ben presto simbolica ed eterea e la rappresentazione sfuma in pura astrazione simbolica. Ritornerei ancora sulla dimensione musicale, in cui l’autrice sembra capace di individuare musiche terrene che rinviano a quella delle sfere superiori, fantasmi fonici disseminati nel libro per evocarcene degli echi, per tradurre la lingua e la musica dell’Eterno.

L’empatia creaturale che Petrillo riversa sul reale ne investe globalmente ogni forma, e giunge a cavalcare i mondi anche con quella generosità visionaria dei simboli zoomitici, come appunto Medusa o altre epifanie che solcano i versi.

L’impianto del libro ha un’impronta fortemente oracolare e profetica del tutto singolare: emana una seduzione estetica e musicale per lo stile acceso e fiorito, per le accensioni analogiche contratte e sfolgoranti, per gli ossimori potenti. Uno stile grazie al quale si stempera in amabile linfa energetica, si addolcisce, anche lo sbigottimento ermeneutico per quel senso di radicale impasse che acuisce lo scacco dell’esilio in cui Marina vede precipitata l’umanità. Profetismo, dicevamo, ma del tutto sui generis, elegiaco, concettuale e lirico al contempo, animato da un ethos ontologico di altissima levatura ma sempre benevolo, mai caricato di damnatio millenaristiche.

Apocalittica si potrebbe definire questa poetica, caricando la sfumatura semantica del disvelamento e quel senso di estremo che la sua visione ci pone davanti agli occhi.

Di fronte, per esempio, alla scommessa quasi pascaliana di “Essere o naufragare” la soluzione è forse in quell’anelito che salda la frattura nel sentimento di una prossimità ontologica: “ESSERE IN PROCINTO DI SÉ O DEL SÉ”, una possibilità di redenzione metafisica concessa all’umano, se grazie al poeta, a barlumi scende sulla terra l’ “ASSIOMA DELL’INDICIBILE”.

La grazia espressiva ricompone ogni possibile difficoltà interpretativa nell’alveo di un canto che le risolve in nuova fibra ontologica e mitopoietica e trasmuta “tale cono di ombra in luce, tracimando ciò che l’esperienza sensibile nega”. La soluzione dialettica è nell’arcano salvifico donato in poesia, perché scaturito dall’Origine: “suono primordiale amplificato da intuizioni che precorrono ogni pensiero”. Sapere ed empatia, coniugati e distribuiti come messe di lettura e balsamo spirituale, pur necessariamente iniziatico.

Per lei che parla la lingua dell’Indicibile, il mondo deve apparirle una confusa caduta contemplata da un distacco inevitabile (“l’esule rapsodo”, appunto) perché è da quell’ultima sfera, nel crepuscolo delle ideeche giunge a noi il suo cifrato messaggio di sapienza, di verità ontologica. Con lei “l’Angelo si rivela” e converte la poesia in profezia che viene da “altra forma” che a sua volta genera poi Parola piovuta da “universi paralleli e potenti forze”: spazio etereo in cui l’autrice naviga e soggiorna e da cui, con naturalezza, può “trascrivere l’Eterno”, di cui è mansueta depositaria. Di fronte all’Entità suprema, attua persino una auto-diminutio quando limita la sua “percezione assoluta” a “una trascendenza sommessa”. Lei, che sentiamo prescelta, a cui “l’Essere, quieto e impassibile” elargisce visione di luce salvifica e sapienziale, lei cui è donato persino il “Fiore della pre- eternità”, lei che ha casa nell’Ente, nell’ “Uno-specchio”, abbrunato per l’umanità in generale, ma per lei divino chiarore sia pure per lampi. L’assioma dell’indicibile è la meta di un nostos rovesciato, dal luogo dell’assoluto, persino dal futuro, giù via per i sentieri umani e del tempo. Il sogno è una grande chiave di accesso a questa dimensione, un oltre assaporato in terra, tra  segreti emergenti tra baleni poetici, per comunicarci questa segreta familiarità con il cielo che le parla. Lei, dallo sguardo interiore con cui guarda il cielo da dentro. Lei che ci evoca appunto, la “segreta dimora inconoscibile ai più se sol intuita da occhio interiore.” Poesia pineale dunque la sua, di una veggenza che le rende sfocato il visibile per decifrare con maestria l’invisibile.

Si dipana un mondo di mistero, forse il “Mistero del suono anteriore” dove aggirarsi come nella foresta baudelairiana delle Correspondances, incuiEternità e Immanenza dialogano: luogo arcano in cui il lettore può procedere esclusivamente affidandosi ad un’ermeneutica sinestetica, senza pretesa di traduzione in lingua umana di quel Logos di luce, quell’“ immobile sfolgorio” da cui Marina Petrillo è circondata e in cui si esprime, in un idioma indaco velato d’arcano.  Noi lettori, possiamo solo tentare di inoltrarci, come viandanti cercatori di traduzione, nel messaggio sacro cifrato che da lei ci viene, quell’“albedo” altrimenti accecante per i non adepti, ma che pur tuttavia ci seduce in “eufonie vibranti”, “accese fiaccole” tra atmosfere fiabesche – a volte di sapore orientale – esoteriche e spesso cabalistiche. Sontuoso e magico scenario in cui si aggira nel “passaggio dell’essere” che le insuffla una “chiaroveggenza” interdetta alla “neglitudine” umana: conio questo del tutto speciale, che stigmatizza la distanza tra le cose umane e l’Assoluto come dimora, da cui l’autrice le guarda.

E al contempo, il Divino dispensa la sua dolcezza alle stagioni e alla natura e, proprio in quest’ultima, si può cogliere quell’Eterno, appunto, che rimane sempre la sua prospettiva angolare. Quella “geometria dell’Architetto”, disvelata per lampi alla poeta-sentinella, che percepisce il soffio unitario pervadere l’universo e in cui si può cogliere un sentimento di fusione. Ma l’armonia è sempre frutto di una conquista precaria e sofferta: si ha l’impressione infatti di uno strappo continuo tra il mondo e la “sovrana Creaturache le concede confidenza, l’“Arcano dell’Empireo”, suo sommo Nume, con gli occhi del quale sembra sogguardare l’umanità in perenne bando dal divino. Solo il sacro divenire permette infatti al “cuore devoto” un avvicinamento all’Eden, quel “celeste rimpatrio” attraverso “l’ascensione totale”. Il divino nella sua poesia non è mai accecante o sterminatore, ma sempre clemente e intimo, pur nella sideralità ontologica in cui risiede. Circola diffusa una consapevolezza teleleogica espressa nelle forme eucologiche ricorrenti: “Alla preghiera antica torna il coro degli esseri senzienti declinati a Uno”, infondendo luce di speranza, tornare alla Sostanza di cui l’uomo è emanazione, per grazia divina e per conquista poetica e animica.

Di fronte a un’Apocalissi della Coscienza, incalzante ed entropica, talvolta espressa in termini di un originalissimo millenarismo, la Poesia sembra dunque assumere le fattezze quasi organiche e molecolari di un soffio di verità come linfa di vita che rinnova una tensione perduta – e quasi contraddittoria – alla “perfezione”, verso il “Trono regale” del Tutto, “il Fiore vibrante” (dietro cui mi pare scorgere “il Fiore d’oro” di junghiana memoria) “sconosciuto all’umano”. La poesia come creazione di una metalingua, “un prisma che induce nuovo riverbero”, una “mantica posta a ritroso sino al varco primigenio dell’arché”, in cui immettersi, una volta superati anche i confini dei generi sessuali: “Non più donna, non più uomo. Creature divine a Sua similarità. Perché la posta in gioco è suprema come la mètadove non si vede più, ma si è: “Entrare nell’immobile sfolgorio / non determina visione ma appartenenza”, a quel “mundus novus”di “un assoluto presente”  di cui  la poesiaè in cerca. Perché il suo occhio oltrepassa il tempo e “si spinge fino all’Eterno”, di cui aspira ad esserne guardiana.

La poesia quindi come scala d’accesso, o invenzione di una lingua altra, “lingua di fuoco, azzurra, creante” un “nuovo sillabario” o vetta in cima all’impervio cammino“elicoidale ascesa in spazi difformi”da cui irraggiare nel mondo “il battito ciliare dell’universo”attraverso una scrittura dalle magiche dita sonore, che si svela mediazione angelica, luce emanatistica di traboccante chiarore sull’immortalità irraggiungibile, ma perseguita e ineffabilmente “indicata” come suprema via di ascesi ontologica.

Gabriella Cinti

4 commenti
  1. Ringrazio infinitamente Gabriella Cinti per la meravigliosa lettura onto-logica di “indice di immortalità” e la Presenza di Erato per la preziosa ospitalità.

    Con sincera gratitudine,

    Marina Petrillo

    • Non è possibile accostarsi a questo nuovo, recentissimo libro di Marina Petrillo senza l’armamentario barthesiano incentrato sulla conoscenza dei tre piani del linguaggio scritto. Più precisamente, sulla tripartizione lingua-stile-scrittura che governa la produzione di ogni autrice/autore nell’atto stesso dello scrivere, così come si presenta ne Il grado zero della scrittura, volume che si apre proprio con la domanda: «Che cos’è la scrittura?»., su cui lo stesso Barthes scrive:

      «[…]tentavo allora di distinguere nel linguaggio scritto tre piani: della lingua, dello stile e infine della scrittura, a cui devolvevo il compito politico e di cui feci lo strumento proprio della responsabilità letteraria…» (E oggi?, introduzione a Il grado zero della scrittura, p. 15).

      Così, se la lingua di un poeta è come una Natura e lo stile va considerato come una sorta di appropriazione soggettiva della lingua, la scrittura assume invece il ruolo di una vera e propria funzione, di un rapporto “tra la creazione e la società”.

      Ma se la lingua e lo stile si collocano al di qua dell’atto di scrivere, in Marina Petrillo la scrittura si avverte come qualcosa che sta al di là del linguaggio scritto.

      Ciò significa che, in sintesi, un’autrice o un autore può elaborare o proporre più di un tipo di scrittura. Ed è il caso di Marina Petrillo quando va da Materia redenta a Indice di immortalità poiché la Petrillo ha coscienza del fatto barthesiano che le «scritture possibili di un dato scrittore si definiscono sotto la pressione della tradizione ma anche della storia[…]».

      Sotto tale aspetto, ossia la storia che influenza la scrittura, la Petrillo, senza dichiarazioni esplicite, muove i suoi passi a partire dalla presa d’atto di un fenomeno tipicamente post-moderno: la crisi dell’individuo, ovvero la crisi del senso esistenziale dell’individuo, per cui l’individuo perde ogni riferimento forte in grado di determinarne con sicurezza l’identità, un vortice della contemporaneità in cui l’uomo assiste ad uno sfaldamento e al frammentarsi delle sue certezze, della sua identità, del suo tempo. La velocità con la quale la scienza moderna modifica il senso della realtà rende quasi inutile il tentativo di definirsi e di permanere da parte di un qualsiasi significato. In questo clima di crisi del significato permanente, l’uomo, come soggetto cosciente che deve darsi necessariamente un senso stabile, vive irrimediabilmente la sua stessa crisi.

      La forza vera di questa recentissima opera, Indice di immortalità, (bene interpretato da Francesco Solitario, nel suo dotto saggio introduttivo, e da Gabriella Cinti, in questa lucida e colta nota, proposta su La Presenza di Erato), un misto ben riuscito di prose d’arte e di composizioni poetiche, risiede proprio nella scrittura dell’autrice, una scrittura che chiama il lettore a entrare in ogni parola del libro con una meditazione attiva permanente, giocando così un ruolo creativo non meno importante di quello della stessa autrice.

      Gino Rago

  2. Marina Petrillo, Indice di Immortalità, Prometheus Ed., Milano, 2023

    La scrittura di Marina Petrillo in Indice di immortalità

    di Gino Rago

    Non è possibile accostarsi a questo nuovo, recentissimo libro di Marina Petrillo senza l’armamentario barthesiano incentrato sulla conoscenza dei tre piani del linguaggio scritto. Più precisamente, sulla tripartizione lingua-stile-scrittura che governa la produzione di ogni autrice/autore nell’atto stesso dello scrivere, così come si presenta ne Il grado zero della scrittura, volume che si apre proprio con la domanda: «Che cos’è la scrittura?»., su cui lo stesso Barthes scrive:

    «[…]tentavo allora di distinguere nel linguaggio scritto tre piani: della lingua, dello stile e infine della scrittura, a cui devolvevo il compito politico e di cui feci lo strumento proprio della responsabilità letteraria…» (E oggi?, introduzione a Il grado zero della scrittura, p. 15).

    Così, se la lingua di un poeta è come una Natura e lo stile va considerato come una sorta di appropriazione soggettiva della lingua, la scrittura assume invece il ruolo di una vera e propria funzione, di un rapporto “tra la creazione e la società”.

    Ma se la lingua e lo stile si collocano al di qua dell’atto di scrivere, in Marina Petrillo la scrittura si avverte come qualcosa che sta al di là del linguaggio scritto.

    Ciò significa che, in sintesi, un’autrice o un autore può elaborare o proporre più di un tipo di scrittura. Ed è il caso di Marina Petrillo quando va da Materia redenta a Indice di immortalità poiché la Petrillo ha coscienza del fatto barthesiano che le «scritture possibili di un dato scrittore si definiscono sotto la pressione della tradizione ma anche della storia[…]».

    Sotto tale aspetto, ossia la storia che influenza la scrittura, la Petrillo, senza dichiarazioni esplicite, muove i suoi passi a partire dalla presa d’atto di un fenomeno tipicamente post-moderno: la crisi dell’individuo, ovvero la crisi del senso esistenziale dell’individuo, per cui l’individuo perde ogni riferimento forte in grado di determinarne con sicurezza l’identità, un vortice della contemporaneità in cui l’uomo assiste ad uno sfaldamento e al frammentarsi delle sue certezze, della sua identità, del suo tempo. La velocità con la quale la scienza moderna modifica il senso della realtà rende quasi inutile il tentativo di definirsi e di permanere da parte di un qualsiasi significato. In questo clima di crisi del significato permanente, l’uomo, come soggetto cosciente che deve darsi necessariamente un senso stabile, vive irrimediabilmente la sua stessa crisi.

    La forza vera di questa recentissima opera, Indice di immortalità, (bene interpretato da Francesco Solitario, nel suo dotto saggio introduttivo, e da Gabriella Cinti, in questa lucida e colta nota, proposta su La Presenza di Erato), un misto ben riuscito di prose d’arte e di composizioni poetiche, risiede proprio nella scrittura dell’autrice, una scrittura che chiama il lettore a entrare in ogni parola del libro con una meditazione attiva permanente, giocando così un ruolo creativo non meno importante di quello della stessa autrice.

    Gino Rago

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