Angelus Silesius, Il Pellegrino Cherubico (a cura di Roberto Taioli)

Angelus Silesius (al secolo Johannes Scheffler, 1624-1677) ci riporta alla grande stagione della mistica tedesca fiorita nel Seicento. La sua poesia, consegnata ai versi del Pellegrino cherubico, istituisce un legame  profondo tra mistica a e poesia, così congiunte da costituire un unico paradigma. I temi trattati in questo  singolare libro, scritto in distici e in sonetti, mette a fuoco il bisogno di assoluto del singolo in un esperienza, quella umana, delimitata dallo spazio e dal tempo. La ragione non riesce a dare risposte a questo enigma che accompagna la vita dell’uomo, la ricerca quindi si pone su un piano verticale, ove il piccolo e fragile aspira alla fonte dell’Uno. Ma questo avviene in Silesius mediante folgorazioni e lampi linguistici che hanno qualcosa di sbalorditivo. Silesius accenna alla trasformazione che avviene nell’esperienza mistica, ove Dio si protende e si fa paesaggio e presenza nella vita, senza cessare di rimanere tale. Il pellegrino, cifra etica che  caratterizza il poema,   è il viandante assetato che  si fa ponte tra terra e cielo e che si lascia  permeare dalla luce.

Silesius lavora sulla parola per renderla consona a dire l’indicibile, pur conoscendo lo scacco di ogni esperienza umana. Il linguaggio poetico  si affina e quasi si smaterializza nel farsi preghiera. Lungi da ricercare definizioni e soluzioni, la sua lirica si serve di paradossi per descrivere l’esperienza umana con Dio. Il paradosso, nel suo essere disorientante, svela un’apertura di senso che, sorprendendoci, rischiara l’orizzonte limitato dell’uomo. Finestre sull’assoluto e sull’ineffabile danno respiro e aria, che si offrono  sul faticoso cammino. 

Appassionato alle scienze naturali, Silesisus  divenne medico e fu accusato ai suoi tempi  di panteismo in quanto il suo paesaggio poetico è colmo di immagini tratte dal mondo della natura. Ma il prelievo linguistico da quel mondo non è fine a se stesso, né Silesius divinizza la natura sacralizzandola tout court.  In realtà l’uomo e la natura si autotrascendono in Dio che rimane il telos cui aspirare. La sua poesia può apparire  di difficile comprensione all’uomo di oggi perché abbiamo perduto le coordinate entro le quali si muoveva Silesius. Ciò è l’essenziale e il radicale che è stato smarrito a vantaggio del superfluo e del contingente, dell’irrilevante e del caduco. Perciò davanti alla lettura di Silesius rimaniamo come imbarazzati e perplessi, per la forza vertiginosa delle sue immagini che non ci sono consuete e familiari.

Roberto Taioli

Io non sono quello che sono, non so quel che so.

Cosa e non cosa io sono. Io sono un punto e un cerchio.

Giacché in te ci sono tutte le cose e Dio,

com’è che tu desideri  fare qualcosa, uomo?

La rosa che ora scorge il tuo occhio esteriore

Così è fiorita in Dio fin dall’eternità.

L’uccello sta nell’aria, la pietra sulla terra,

nell’acqua il pesce, ed io nelle mani di Dio.

Alla sorgente l’acqua è pura, chiara, limpida:

se non bevi alla fonte, sta’ attento, sei in pericolo.

Mio Dio, com’è possibile? Il mio spirito, un nulla,

brama inglobare te, lo spazio  dell’eterno.

Vanno vestiti i vizi, la virtù resta nuda:

questa è davvero grande, quelli sono apparenza.

In cielo non puoi entrare – smettila di agitarti-

Se tu stesso non sei prima un cielo vivente.

Dio, senza cavillare, è insieme niente e tutto.

Dimmi, allora cos’è? Dimmi, cosa non è?

Dio è come una sorgente e scorre dolcemente

Nella sua creatura, e intanto resta in sé.

Se non diventi un bimbo, non entrerai là dove

Sono i figli di Dio: la  porta è troppo piccola.

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