“Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo” di Antonio Delfini, Einaudi – 2013, letto da Maria Grazia Trivigno

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Mercanti, banchieri, avvocati,
ingegneri, cocchieri,
non siete che polvere di rotti
bicchieri,
di cui faremo carta vetrata
per sfregiare la faccia
dei nostri irricordabili ricordi di ieri!

L’invettiva è scolpita già dai pochi versi sulla copertina bianca. La raccolta, edita da Einaudi appena nel 2013, porta un nome gonfio e ridondante, e già in quella promessa diacronica è svelato il percorso poetico ed esistenziale di Antonio Delfini. L’intervallo temporale coperto, infatti, dagli anni Venti agli anni Sessanta, comprende un vistoso periodo di mutismo, dal ’42 al ’55, interrotto con una lirica emblematica:

Ceux qui pleurent
Ils pleurent

Quelli che piangono,
Piangono
(1955)

E il francese, che nella poesia di Delfini risuona spesso (Je suis un poète flaneur et débauché), non può che essere letto come un omaggio a Baudelaire, sua costante fonte di ispirazione. Leggendo a fondo, la fine del mondo non è la devastazione fisica e spirituale della guerra- quanto accadeva al più accorato Ungaretti, che portò la poesia in trincea e la trincea nella poesia. Delfini ha negli occhi la fine come solo può l’uomo moderno, con le sue disillusioni politiche, l’irriverenza, lo sconforto di ogni ideale, la denuncia borghese, l’arrendevolezza al materialismo più cinico, e tutto ciò si stratifica in un animo aristocratico già naturalmente indolente e disposto alla mal sopportazione (Non vi annoiate per carità/lasciatemi innocente/ della vostra noia.)

I componimenti giovanili, prima della fine del mondo, sono solo lievemente canzonatori, allegretti, filastrocche, toccando a tratti punte esistenziali di lirismo, in una riuscita gradevolezza fonica ( tetro tempo tetro), ma già il poeta si pone in una volontaria condizione di esule tra i sui simili, sino ad autoimporsi nel 1935 l’esilio reale a Firenze, non molto lontano dalla sua Modena, per poter sfoggiare il più paradossale campanilismo. “Il punto è che a Modena non si può in alcun modo essere modenesi, da qui la scelta di Firenze, che era una specie di porto franco per intellettuali in cerca di apolidismo (…) e da cui si poteva esercitare la scrittura di un luogo senza il pericolo di localismo”(dalla prefazione a firma di Fois).

E così, dopo la fine del mondo, che non è una vera fine ma l’inizio di qualcosa di persino peggiore, si passa all’invettiva degna del più indisciplinato Catullo, al turpiloquio, all’antipolitica e  alla satira nella sua cogente attualità.

foto

Sporca la scheda,
lasciala bianca.
Non v’è chi non veda che la Patria è stanca

*

Monarchico anafilattico,
allergico repubblicano,
idiosincratico socialdemocratico.
Rimasto son solo,
ho preso lo scolo:
Non voterò!

Aveva sempre cercato di essere idiota, cioè autentico privato, anzi, in una estrema condizione di isolamento autoimposto dalla società civile (Zitti zitti/ che c’è il poeta/lasciamolo passare), tanto da provare sempre stati d’animo opposti rispetto a quanto accadeva intorno a lui. Sotto il sembiante volutamente superficiale e menefreghista, si cela lo spirito di poeta impegnato, la rabbia di un animo forse fin troppo idealista.

E poi, al centro della raccolta, la sorpresa di trovare tra le pagine gli anni Trenta, il Futurismo allo stato puro: poco meno che una decina di componimenti assemblati con ritagli di giornale, eppure dotati di una dose ineffabile di senso.

Sotto all’astrazione del componimento poetico, insieme alla Coccoina, inventata a Voghera nel 1927, che serviva per incollare le strisce stampate, si era impiantata la realtà, nel suo nudo svolgersi di guerra coloniale, compleanni, incidenti sul lavoro, feste, prime cinematografiche, discorsi dal balcone. Ma sussisteva anche un atto segreto in quei componimenti, come l’azione nascosta di un delatore che stesse componendo una denuncia anonima e temesse di essere scoperto attraverso la propria calligrafia. Quell’immorale di Delfini spulcia la notizia alla ricerca della frase e non della notizia; gli altri lavorano, lui fa il poeta.

Così Marcello Fois nella prefazione, di una vibrante eccezionalità, da godere quanto e forse più della raccolta stessa.

Maria Grazia Trivigno

LO SPETTRO DELL’INFANZIA

Con un vecchio paletot
mi ricordo
con la coda andavo per la via

Due libri sotto il braccio
Povero ragazzo
pieno di fantasie
verso la scuola
arida e perduta

E tra la nebbia
ombra indecisa
guardavo avanti

chissà fin dove
chissà fin dove guardavo mai

Malinconia
di una ribellione
che vuol durare ancora

E ritornavo a casa
gonfio di niente

Poi mi affacciavo
a riguardare
dalla finestra del solaio
giú nel cortile buio
l’invisibile andare della gente
il muto ricordo del mare
me naufragante nel pantano
e un topo infine
che orribile
strisciava nell’umidità

 

NON C’E’ NIENTE DA FARE

Notti lilla
sconfortate dalle speranze
silenziose
come piazze col passante
e le tre botteghe in fondo

Notti senza numeri
senza calcoli
senza pensieri

Duomo torre e casa mia
voglio con te andar via

Vedremo le comete
gli astri
la luna
e le vecchie chincaglierie

Manderemo un bacio
al vecchio silenzioso
dell’angolo della strada

Un mucchio di sospiri
senza firma
una rete di gioie
senza piaceri
valanghe di malinconia

Tetro tempo tetro
che scorre
come un fuscello di paglia
sotto la mia scarpa
che passa via

Su di una finestra aperta
un fiore marcio
guarda la scolta del Signore

 

NON HO VOLONTA’

Potessi un giorno
camminare da solo
ma solo solo
non come vado adesso
solo
ma solo solo
senza me stesso

*

voi potete entrare nella mia camera,
ma non parlate

*

Meglio sarebbe
se ognuno di noi
andasse fuori
un giorno
a comprare per tutti
un poco di pane

Meglio sarebbero
tante cose

Meglio sarebbe

Antonio Delfini

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