“Annunciazione” di Antonio Sagredo

Antonio Sagredo Ritratto
Antonio Sagredo è un autore completamente inedito in Italia, tradotto e apprezzato in Spagna, è quasi sconosciuto in patria. Dopo aver compiuto gli studi di slavistica all’Università la Sapienza di Roma ha lavorato presso una banca. Sagredo ha sempre mantenuto un atteggiamento di ostracismo nei confronti del ceto letterario italiano e ne è stato, per così dire, ampiamente ricambiato con un silenzio che non sappiamo se di neutralità e cinismo o altro. Fatto è che lungo cinquanta anni di solitario e inedito percorso poetico Antonio Sagredo si è cimentato in un itinerario irrituale e algebrico, insomma ha fatto di tutto per rendersi stilisticamente inclassificabile, irricevibile e inospitale. C’è un costante barocchismo nell’impiego dei retorismi e delle immagini, un mix di alleluia cantarellante e di maledettismi blasfemi, di ipocondrismo e di elettricità che rendono i suoi testi altamente godibili e, ad un tempo, respingenti, repulsivi, come percorsi da una sottile trama di nervi sensibilissimi e cattivi che captano le minime rifrazioni quantiche dell’ambiente insonoro. I suoi versi sono onde sonoro-magnetiche autorespingenti, sono sfollagenti; interno ed esterno sono capovolti, così come convesso e concavo, riflesso e irriflesso; è presente nei testi un qualcosa come una forza de-gravitazionale generale del suo sistema solare, come se agisse un quoziente di perdita in direzione dell’implosione lessicale e stilistica: una simmetria del disordine.

Giorgio Linguaglossa

Annunciazione (2° quadro – da: 1-7 di Quadri, 1999)

Se il corpo è divina malattia,
cos’è l’anima senza le nostre ossa?

Gli incendi che fusero l’argilla
per secoli hanno impagliato le Madri
con legni ottoni e corde
le note seducenti carezzavano il sudario.

Soltanto Alessandria bruciò i libri ?!

E non so se a una finestra alligna un presagio
perché un poeta bisogna di sguardi di faina:
fattucchiere che illumina sinistri Morituri
e gonfia dietro le quinte il Riso degli Ospizi

Non giocate con parrucche e capricci:
nel trucco c’è sempre un candelabro spento
che cova inerte un raccapriccio di cera
sui capelli cotonati della vostra balbuzie.

Udivo sonetti tradurre lacrime in nitriti…
non ho facoltà equine, limiti di puro sangue,
perché gli zoccoli non sono ali rupestri e ferine
che sanno le pause, le pulsazioni degli angeli.

Me ne fotto del millennio che viene,
dei passati e futuri struggimenti!
Me ne fotto di tutti i poeti legati alla storia,
alla vita, al quotidiano di(s)mettere i canti!

Perdonatemi, sulla mia maschera
non cercate sguardi addolciti
ma afflizioni, brandelli posticci…
oscure evanescenze barocche
mutate in presagi, cedimenti, prodigi!
Cercate bacche scarlatte, abbecedari!
Requiem affetti da tosse canina,
lingue ferine che frugano con denti
mastini l’antica insolenza del cuore.

Come si fa ad essere presenti
se si esiste?!

Forse che l’Appeso
esclude dal patibolo le proprie parole
o il boia s’infervora se la corda
è tenace e non vuole più impiccare?
So che gli angeli non amano gli Ordini
se non hanno per coda un concetto divino,
ma stragi, tormenti e scale
per uncinare legioni di battiti d’ali.
Sono quelli ovipari dalla spada onnisciente!

Trionfi: medaglie di sventure,
capestri insensati ovunque…
perché il Mistero è il contrario del Vuoto,
ma il Nulla si sa, è pieno di zoccoli duri,
untuosi inchini, malìe, numeri sinistri!
I dèmoni, ora, amano luminosi convegni,
la larva l’oscuro insetto che protegge.

Attento, Dio, ai tuoi stessi peccati… miracoli… prodigi!
Gli umani Ti giudicano senza pietà!
Se nell’ospizio la vecchiaia soggiace all’ultimo cantore,
alle lucciole non bastano più le notti eretiche.

Le vigilie ammalano il riflesso d’un fuoco,
gli specchi temono un confronto con l’anima.

L’immortalità si nutre d’ombre:
non è destinata ad offendere l’uomo.

(non posso più ascoltare la mia voce
che non m’ascolta: è un ponte del suono!)

Ponte del suono

I carri dei morti nell’ora pendula
evanescenti… insaziabili – non muti
i suoni delle ruote a mani giunte,
note di zavorra dal selciato – nella musica!

La caduta di un astro improbabile
genera una circonferenza discontinua:
il gesto sospeso e non eterno
nel circolo compiuto è l’atto estremo.

Liberati dal Tempo resteremo infine orfani felici
in un dove che Padri e Figli non sapranno mai
che quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
scorre mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.

1 commento
  1. “Me ne fotto di tutti i poeti legati alla storia,
    alla vita, al quotidiano di(s)mettere i canti!”

    Non è possibile. Lo sarebbe se ci fosse qualcosa oltre la storia, la vita, il quotidiano (ben poco cantabile). O si potesse costruire qualcosa – fosse pure soltanto poesia – fuori dalle tre suddette “cosucce”.

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