Dramma lirico a più voci o, se si vuole, azione drammatica dialogante o, come lo sottotitola lo stesso autore, “oratorio” che, musicalmente, è una forma drammatica di argomento religioso eseguita da solisti, coro e orchestra senza messinscena teatrale. Questo poemetto per quadri e voci di emanuele Giudice intitolato “Come noi”, è un piccolo grande libro dall’accentuato peso specifico: compatto e filante, stratificato e intenso, originalissimo nel taglio e nella scrittura, sulla linea della produzione ormai pluriennale dello scrittore siciliano.Un viaggio nel cuore della stagione greve che vive il Paese, all’interno di un diffuso smarrimento del tu e di un rarefarsi drammatico della pietà e della condivisione. La parola diventa allora narrazione affranta di un mondo che rimuove da sé i poveri rilegandoli nell’esilio di una compassione perbenista vissuta come appagamento lenitivo. Ne emerge la sembianza di una società di sazi gaudenti, persa nell’allucinato vociare dei media, nella spocchia di glaciali tecnocrazie, o nei tortuosi sviluppi della politica,dove l’io finisce per arrotolarsi su se stesso, rinserrandosi nei propri pregiudizi egolatrici. Si enfatizza così il rischio di un contagio che atterrisce e delinea orizzonti di panico inquietanti. “Come noi” è la storia dei nostri giorni e anni: l’odissea dei barconi, quasi sempre veri rottami galleggianti, in balia delle insidie del mare prima ancora che di quelle degli uomini. E’ il dramma delle migliaia di clandestini taglieggiati (per viaggiare sui rottami si pagano tariffe più care di quelle delle navi di linea e degli aerei)e magari respinti, quando non parcheggiati nella carcerazione mascherata dei centri di accoglienza o peggio andati a picco ed affogati nel corso della traversata. Il grido che si leva della poesia di Giudice è di dolore, per l’indifferenza tragica in cui si consuma il gesto continuo di chi non solo è defraudato, ma tenuto ai margini di quella considerazione e di quell’amore che sono (o sarebbero) la sostanza rigenerante per tutti. “Come noi” è un’epica e insieme un’elegia, germogliata sui rovi del presente e affidata alle risorse del linguaggio poetico-drammaturgico per vincere un’amnesia in cui pare essersi liquefatta la memoria di un Paese dove lo scambio e la contaminazione tra culture sono la radice di una vicenda civile millenaria.
Paolo Ruffilli
SCENA 1/A – L’album delle foto
( Sul fondo del proscenio campeggia un grande schermo sul
quale compare l’immagine di una vecchia nave a vapore
dei primi dell’ottocento; poi immagini di un molo da cui è
in partenza la nave che attraverserà l’Atlantico: sventolio
di fazzoletti, saluti, lacrime, mentre si ode, in sottofondo
leggero, quasi sussurrata, la vecchia canzone napoletana
“Partono i bastimenti…”. Nell’angolo destro del proscenio
un tavolo e due sedie, su una è seduta un uomo sui trent’anni,
“l’erede”, intento a sfogliare un vecchio album di fotografie
adagiato sulle gambe. Porta abiti moderni di una qualche ricercata
eleganza. L’uomo si alza e si porta al centro della scena).
L’EREDE
Io appartengo alla generazione dei posteri,
degli eredi: sono ultimo tra quelli che ora tentano di
rimuovere il ricordo di stagioni antiche in cui il dolore
era il distacco, la separazione, lo sradicamento
violento. I nostri nonni e bisnonni partirono così
verso l’ignoto, le mani vuote e l’anima a pezzi, verso
un mondo lontano ed estraneo, ostinandosi a credere
in se stessi, nella loro tenace volontà di aggredire il
passato e di vincerlo.
frugate in qualche vostro cassetto tarlato, troverete
una foto gialla di qualche bisnonno o lontano zio,
di quelli che ogni tanto mandavano un pacco dalle
Americhe…Scoprirete che è impossibile cancellare
del tutto la memoria quando essa ci assedia con la
straziante quotidianità di una cronaca antica…
(entrano in scena Haddish e Yassef)
HADDISH
Tra noi stanno gli immemori
del tempo di croci e di dolori,
svagati nei ricordi
che annientarono i padri.
Si portarono dietro
i vecchi stracci,
le foto del padre, della madre
il pane raffermo per il viaggio.
Furono estranei
spiantati
chiusi in rocciose solitudini,
parlavano a segni,
solcando l’aria con le mani
e frasi monche balbettando
a gente che ascoltava
e non capiva.
erano ultimi
estranei
reietti
nei campi
nelle strade
nei cantieri
nei ristoranti a lavar piatti
e cogliere rifiuti.
YASSEF
Uscirono infine
dalle stamberghe,
dagli umidi catoi
in cui marcivano,
coi denti con gli artigli
mordevano l’acciaio,
la disperata voglia
di vincere il buio della vita
li colse li avvinghiò
li spinse a osare,
sudando,
a metter tutto in gioco.
E molti vinsero la partita,
uscirono dai tunnel trionfanti,
diventarono uomini.
Come gli altri.
Come noi.
Alcuni riuscirono
perfino a entrare
nel catalogo dei grandi
a porsi sui prosceni dei primati.
SCENA 12/A – La pietà del mare
( Sullo schermo una scena marina, sagome accennate di
barche, di conchiglie, di onde.Suoni martellanti ma lievi di
risacche scandiscono l’azione scenica; c’è un vociare lontano
di gente che s’accalca mentre il rumore delle risacche si va
spegnendo per cedere il posto alla musica. Entrano in scena
due figuranti i quali, mentre gli attori recitano, trascinano
un lungo telo azzurro, con passi di danza si avvolgono nel telo
e da esso si sciolgono, lo muovono in tutte le direzioni per una
simbologia del mare che accoglie e libera l’uomo dalle sue ambasce.
La musica accompagna la danza).
L’EREDE
Il mare, e quello di Lampedusa ne è il simbolo
affranto e inquietante, è divenuto il testimone
d’accusa della nostra indifferenza, della crudele
abulia che ci possiede. uomini come rifiuti il mare
ha accolto nei suoi flutti a migliaia; più pietoso degli
uomini, ha offerto un abbraccio ai derelitti, ne ospita
pra e per sempre i corpi, in esanimi schiere
d’innocenti.
YASSEF
Il mare
spegne l’avventura
divora sogni e gemiti
fievoli come sussurri accennati
nelle fauci ingorde
e lacrime lacrime lacrime
riversa nelle rive
che attendono
tremandi di paure ancestrali
i suoi instabili umori,
gonfi di travagli
che spegne infine nel suo grembo.
Siamo come pesci stanchi
d’acqua e d’azzurri
che cercano altri paradisi
tra le pietraie intravisti.
CORO
Mare
immensa madre dei mortali,
culla che accogli
i dolori che ci accerchiano,
mare
dove muta
discreta
ha sede e appiglio
la pietà,
mare
cangiante negli umori,
tra rabbie mostruose
e sontuose bonacce
e brezze alternate a maestrali.
HADDISH
Mare
che hai accolto la vita
nei millenni,
l’hai tradotta in reliquia
di grandezze,
l’hai fatta scrigno
di memorie
che pezzo a pezzo scrivono
la storia,
mare
che abbracci anche la morte,
offrendole acque
come avelli
in cui svaporano
le ansie le paure,
le amare solitudini
si spengono nel tempo.
LUAM
Cimitero
senza croci e fiori
è il mare,
dove si scioglie
nei secoli
il timbro dell’umano,
e sangue carne ossa
si disfanno,
le vicende dell’uomo
nella pace si adagiano,
s’estingue la sua storia
triste o rapace di passioni.
Eterno mare
più della terra ospitale,
più della vita rischio
che hai raccolto i sogni
di un uomo divenuto Ulisse,
insaziabile Prometeo
che i germogli d’umano
tentano e avvinghiano
con lusinghe
di avide sirene.
Emanuele Giudice è nato e vive a Vittoria (Ragusa). I suoi interessi spaziano dalla narrativa,alla saggistica, alla poesia, alla drammaturgia poetica. Nel 2002 gli è stato assegnato il Premio della cultura della Presidenza del Consiglio.Ha pubblicato 29 testi tra cui: Monologo sulla pietà (2000)Finale d’avventura(2006), il dolore e la luce(2008).
Faccio i miei complimenti ai lettori del nostro blog per l’estrema sensibilità e forte interesse (tanti commenti!)a questo straordinario “oratorio” di Giudice magistralmente letto da Ruffilli. L’ intento di questo post voleva essere (oltre a farvi conoscere un’opera letteraria ” compatta e filante”)un ricordo dell’immane tragedia del 3 ottobre 2013. Che non succeda mai più.
Luciano Nota
Giuste parole, gentile Luciano Nota. Però, il silenzio non sempre è indice d’indifferenza verso uno scritto di valore, bensì è mancanza di tempo, almeno nel mio caso.
La bella opera di Emanuele Giudice è ben impostata anche per la scelta della forma drammatico-musicale religiosa, ma non liturgica, senza messinscena, in cui la vicenda è interpretata da solisti, coro e orchestra.
E’ l’Oratorio, creato nel Seicento a Roma prima in latino (Giacomo Carissimi), poi in lingua volgare (Alessandro Stradella), in seguito diffuso in altre città, in altri paesi e sempre più perfezionato verso la forma del melodramma non solo religioso. Nel Settecento fu composto anche da grandi musicisti come, per esempio, Georg Friedrich Händel.
L’autore-regista crea gli ambienti della vicenda proiettando sullo schermo immagini che narrano, o almeno rappresentano, i drammi e le sciagure dell’emigrazione, che anche l’Italia ha conosciuto soprattutto alla fine dell’Ottocento e per metà del Novecento. Un album di fotografie delle partenze con il piroscafo verso immaginari “paesi di Bengodi” illustra la prima scena, mentre l’immagine del mare con personaggi danzanti in una suggestiva coreografia, con larghi drappi azzurri in cui si avvolgono, illustra la dodicesima, portando il lettore-spettatore dentro la tragedia del naufragio.
I personaggi lamentano il fallimento del loro viaggio per mare intrapreso con tanta speranza:
“Il mare
spegne l’avventura
divora sogni e gemiti
fievoli come sussurri accennati
nelle fauci ingorde
e lacrime lacrime lacrime
riversa nelle rive
che attendono…”
Il coro, come nelle tragedie greche e nel moderno melodramma, suo erede, commenta dolorosamente le loro parole:
“Mare
immensa madre dei mortali,
culla che accogli
i dolori che ci accerchiano,
mare
dove muta
discreta
ha sede e appiglio
la pietà,
mare
cangiante negli umori,
tra rabbie mostruose
e sontuose bonacce
e brezze alternate a maestrali.”
Il mare dà la morte ma è capace di pietà. Gli uomini non tanto.
Non si può che ammirare l’Oratorio “Come noi” di Emanuele Giudice e la sensibilità di Paolo Ruffilli nel presentarlo e commentarlo
Giorgina Busca Gernetti