Mino, ricordi la Marcia su Roma?
Io avevo dodici anni, tu ventuno.
Io in collegio tornavo e tu a Roma
guidavi la squadraccia dei Trentuno.
Mino, ricordi? Alle porte di Roma
ci salutammo. Avevi il gagliardetto,
il teschio bianco, il pugnale tra i denti.
Io m’ero tolto entusiasta il berretto
e salutavo tra un gruppo di studenti.
Mino, ricordi? Tu eri perfetto
nella divisa di bel capitano.
Io salutavo agitando il berretto.
Tu andavi a Roma, io andavo a Milano.
(1959)
«Se il linguaggio della post-avanguardia entrava in rotta di collisione con i linguaggi della scienza e della modernità, la «Nuova Poesia Modernista» prende atto della crisi irreversibile di ogni linguaggio fondato sulla «differenza», sullo «scarto», sullo «statuto ambiguo»; e prende atto della mancanza di un fondamento su cui sia possibile poggiare la costruzione poematica. La «Nuova Poesia Modernista» è il tipico e più maturo esempio di una poesia sopravvissuta dopo la bancarotta dell’ontologia, tra Heidegger e Wittgenstein. L’ontologia negativa di Heidegger, per il quale «Essere è ciò che non si dice», tendeva a spostare l’asse del logos poetico novecentesco più sul non-detto, sui silenzi tra le parole, ed infine, sul silenzio tout court. Il nichilismo era il precipizio entro il quale precipitava e periclitava tutta l’ontologia heideggeriana. Per contro, il linguaggio poetico novecentesco minacciava di periclitare, sull’orlo del nichilismo, nel compiuto silenzio della poesia post-celaniana. L’impossibilità di approdare ad una conclusione, in Heidegger, è totale: il pensatore è poeta, il silenzio è l’essenza del linguaggio, esso è il luogo atto a esprimere l’essenziale come non-dire».
(dalla quarta di copertina di Luigi Reina)
Luigi Manzi, In margine
Caro Giorgio, avrei già voluto rispondere alle tue “noterelle”. Lo farò appena possibile. Intanto non mi sottraggo ai pensieri stimolanti che hai sollevato in me e in molti altri. Dedico il tempo concesso negli interstizi della frenesia urbana a riflettere e riordinare le idee che vorrei comunicarti. La poesia italiana – e più in generale la società civile fino al culmine, come osservi tu – è ormai in stato di liquefazione (altro che baumaniana liquidità!), tanto che occorrerebbe un periodo di moratoria poetica, per così dire, in attesa che il linguaggio della poesia si condensi di nuovo nel più vero correlativo oggettivo: quello cioè che misura la distanza fra ciò che percepiamo e ciò che ci è imposto di pensare come merce di scambio per sopravvivere. Il mio Mele rosse (2004) è stato un tentativo in tale direzione, a partire dal titolo. La poesia – compresi premi, convegni, happening e ogni altra compagnia cantando – mostra finalmente (e meno male) di essere per davvero il cascame della trascendenza e dei rituali religiosi di soccorso (cfr H. A. Murena). Perciò smettiamola di scrivere poesie, fino al rinnovato riconoscimento della responsabilità laica che compete alla poesia, per sua stessa natura. I poeti disseminano suggestioni, ambiguità, indeterminatezze, la somma delle quali forma un pericoloso declivio dove già da tempo va scivolando vischiosamente il linguaggio di ogni menzogna comunicativa che snatura la democrazia. Vorrei utopicamente che tutti i poeti si autosospendessero; o perlomeno si astenessero – fino a escatologici tempi migliori – dall’uso indiscriminato del linguaggio genericamente metaforico che ha invaso i mezzi di comunicazione: i giornali soprattutto. Bombe intelligenti, guerre umanitarie . . . prova a analizzare il testo di un articolo e ne vedrai delle belle. Prova a contare le metafore e altri consimili carambole che addormentano lo spirito critico. La poesia – il dominio della metafora – si trova ormai ampiamente riversata nella dialettica politica e si trasforma in trappola durante il sopore che ci viene dalla fatica mentale di tutti i giorni. Autocensuriamoci! E se proprio non ci riusciamo, dedichiamo al riscatto almeno un giorno del nostro silenzio, visto che le parole non servono più per argomentare e i tropi letterari vengono usati neppure come artifici retorici ma come farmaci ipnotico-sedativi o, al meglio, come oggetti contundenti. Bonzi e gonzi convivono in una sciagurata mattanza quale estremo orizzonte in cui si muovono una quantità di furfanti, lenoni, profittatori, dispensatori di indulgenze e, insieme a essi, uno stuolo di vittime consapevoli pronte a depositare la gola sul ceppo più scomodo pur di osservare da quella posizione l’ improbabile cielo della notorietà e/o della gloria futura. Su di loro – su ingenui e finti ingenui – si fonda la vertiginosa babele sul cui apice nebuloso siedono certi illuminati delle università e delle case editrici, intenti famelicamente a produrre materiale di consumo per anime semplici. Impinguando i 740 a scapito loro. E vedrai pure che prima o poi accadrà persino per la poesia di essere prodotta in filiera come già avviene per la narrativa. Ma quale autore? Un’idra dalle mille teste (o una kali dalle mille braccia) per lo sfrenato editing delle più ricche case editrici, spinto fino all’espropriazione; che inevitabilmente avvelena il lettore per esigenze di mercato e per giunta mantiene efficiente il sistema di alimentazione dell’ipocrisia. E poi, ragazzini e ragazzine adescati, pronti a una fama effimera e alla firma facile su un contratto editoriale che li abusa e li manipola. Butta l’occhio su le mondadoriane Strade blu a proposito di editing e ne vedrai . . . di tutti i colori! Si tratta perciò di estetica o di etica? Platone (perdonami il richiamo aulico che può apparire fuori luogo) tutto sommato pensava bene a voler espellere i poeti (gli intellettuali) dalla Stato quali potenziali corruttori della Verità – nel suo caso, e con grave danno per noi – assoluta. Meglio è invece che costoro (gli intellettuali) si guadagnino il pane col sudore della propria fronte, e la penna sia residuale; a meno che non sia rivolta autolesionisticamente, come un pugnale, verso se stessi (vedi il buon Dario Bellezza). Mi viene quasi la voglia di dare un po’ di ragione a quel tal ministro Bondi . . . Ma scusami questo lungo soprassalto, cui affido tutte le attenuanti per ogni eccesso del mio fiammeggiante ragionamento. Ti aggiungo soltanto che tempo fa ho cercato un vomitorium per queste mie indigeste paturnie e invece mi sono imbattuto in uno dei non rari condotti fognatizi in cui i liquami gorgogliavano per essere disostruiti. Ho tentato di farlo. Quando mi sono voltato indietro, quasi tutti gli addetti (noti e meno noti) erano scomparsi, per evitare ciascuno di essere colto da qualche volatile deiezione. E dire che tanti di loro se ne nutrono quotidianamente con la posata d’argento, salvo poi a fingere di contrarre il viso in una smorfia di disgusto se per caso vi rinvengono un capello! Scusami anche per il tono un po’ savonarolesco, dettato dall’impulso. Ma sai, caro Giorgio, ti dico ancora: mi trovo più in allegria fra i miei operai schietti e dilavati dal sudore, in aperta campagna, per indicare senza inutili connotazioni ciò che è giusto fare e ciò che non lo è per elevare un edificio che stia in piedi e si conservi.
Quanto alla nostra brava e cara amica, ti ho già detto la stima, oltre all’affetto, che ti porto. Ti confermo sinceramente l’opinione che ho di te come uno dei rarissimi critici (penso: l’unico) che rivela senza viscide circonlocuzioni ciò che pensa; e che lo fa con il coraggio acuminato fino all’avventatezza: sei libero perché nel tuo dire – e nel tuo fare – non c’è mai il sapore dello stipendio, come Pasolini scriveva della poesia piccolo-borghese. Spesso purtroppo molti tuoi colleghi si comportano come i posteggiatori abusivi che stendono la mano, per chiedere una moneta non dovuta, a chi ha temporaneamente occupato uno spazio pubblico. Per questo tuo coraggio e modo di essere ti ritengo un interlocutore vero e privilegiato!
Un caro saluto, Luigi Manzi
Roma, 21 giugno 2010