
Edgar Lee Masters (1868-1950)
Edgar Lee Masters nacque il 23 agosto 1868 in Kansas, ma la famiglia ritornò presto nella fattoria dei nonni paterni in Illinois. Nel 1880 si trasferirono a Lewiston dove Edgar frequentò la scuola superiore e poté realizzare le sue prime pubblicazioni per il Chicago Daily News. Il clima culturale della città, il cimitero cittadino a Oak Hill e il vicino fiume Spoon furono per Edgar Lee Masters preziose fonti di ispirazione per l’Antologia di Spoon River, in primo luogo, e per le sue opere più famose e celebrate. L’Antologia di Spoon River che rappresentava la sua vendetta contro l’ipocrisia e la mentalità ristretta di una piccola città, gli decretò una grande fama ma, al contempo, la rovina della sua posizione di prestigio nella società cittadina. L’antologia è composta di 244 epigrammi, atti a riprodurre altrettanti epitaffi, come nell’Antologia Palatina che è stata fonte di ispirazione di Masters insieme ai grandi classici greci. Ogni epitaffio è una storia, un personaggio, una vicenda, tratteggiati alla perfezione in sole poche righe, vive come poche espressioni poetiche sanno essere.
I morti del cimitero di Spoon River, cui la morte non ha dato pace e neppure ha tolto la voce sono ancora tutti lì, che dormono sulla collina, presi dalle proprie passioni, dai rimpianti, da una voglia di riscatto che non li abbandona. Quando Edgar Lee Masters nel 1914 diede alle stampe l’Antologia di Spoon River una parte dell’America, quella impegnata ad inseguire il mito della propria grandezza, si dimostrò infastidita e quasi offesa nel sentir raccontare di una condizione umana di miseria, povertà, emarginazione, disperazione. Ma vi fu anche un’altra parte dell’America che si fece conquistare dalla raccolta trovandovi verità e profondo realismo tanto che l’opera rimase la più venduta per decenni. La poesia di Masters si rivela meno innovativa sul piano stilistico ma è capace di creare una forte tensione etica e toccare gli aspetti morali e culturali. Masters al pari di Hawtorne e Melville si mostra infaticabile scrutatore del cuore e dei dilemmi della vita morale. L’opera non si conosce in Italia prima del 1931 quando Cesare Pavese scrive il primo dei suoi saggi dedicati a Masters. Avuta nel 1930, tramite un suo corrispondente italo-americano che abitava negli Stati Uniti, un’edizione dell’Antologia di Spoon River, Pavese se ne innamora ed affida da leggere l’Antologia a una giovanissima Fernanda Pivano, contagiandola del suo stesso amore per l’opera. Quasi per conoscere meglio i personaggi, Fernanda Pivano iniziò a tradurre in italiano le poesie senza dirlo a Pavese temendo il suo giudizio. Ma un giorno quest’ultimo scoprì in un cassetto il manoscritto e convinse Einaudi a pubblicarle (1943). Era l’inizio della guerra e con il Regime la libertà di stampa in realtà era cosa ormai dimenticata. Incredibilmente riuscì a evitare la censura del ministero della cultura popolare cambiando il titolo in “Antologia di S. River” e spacciandolo per una raccolta di pensieri di un quanto mai improbabile santo. Dopo un primo sequestro (apparentemente dovuto all’immoralità della copertina) il libro cominciò a circolare con un ritmo da bestseller mentre per Lee Masters in America il sipario è calato e la sua notorietà, nonostante avesse dedicato l’intera vita a produrre altre opere, è offuscata. Così a qualche giorno dalla sua morte, avvenuta il 6 marzo 1950, Eugenio Montale scriveva sul Corriere della Sera:
«Edgar Lee Masters, l’autore di Spoon River Anthology, morto ieri in un convalescenziario di Melrose Park (Pennsylvania) era un poeta celebre e sconosciuto. Celebre perché nessun moderno poeta americano ha avuto una così larga diffusione fuori dei confini degli Stati Uniti, è stato tanto tradotto e ha esercitato tanta influenza sui poeti d’oggi che cercano di evadere dalle forme tradizionali della poesia classica, giudicata (a torto o a ragione) troppo legata a contenuti inerti, di pura contemplazione, riecheggianti una somma di atteggiamenti lirici e formali ormai insuperabile nei suoi grandi modelli. (Anche in Italia dove l’eredità petrarchesca è sempre viva, abbiamo avuto qualche imitatore di Lee Masters, qualche tentativo di far sprizzare la poesia da un semplice coflage cli notazioni di cronaca, disposte con un sapiente ritmo e ordinate secondo una scrupolosa regia di tipo cinematografico.) Ma la celebrità di Lee Masters, autore di una quindicina di raccolte poetiche non tutte ispirate al realismo che ha fatto la fortuna di Spoon River, era limitata appunto a quella sua Antologia del 1914, era finita con quel suo libro; e da allora il silenzio si era fatto su un poeta che doveva ancora scrivere una dozzina di raccolte di versi, alcune biografie di uomini rappresentativi e una cronaca più o meno immaginaria del paese che aveva ispirato il suo libro più fortunato. Di Edgar Lee Masters, che da giovane aveva esercitato l’avvocatura e che da vecchio ha conosciuto una vita di ristrettezze, la giovane generazione americana non sapeva quasi nulla. Era vivo o morto? Tempo addietro lo chiedemmo alla sua valente traduttrice italiana, e lei stessa, Fernanda Pivano, ci disse che non lo sapeva. Lee Masters ha dunque duramente scontato il suo successo; in un Paese dove un best seller può arricchire un autore ma dove esistono poeti importanti che toccano tirature irrisorie, inferiori a quelle di alcuni poeti italiani di oggi, certi miracoli non si ripetono. Buttato un seme, il seme dà i suoi frutti ma oggi la vita è troppo frettolosa perché ci si possa volgere indietro e la memoria si rifiuta di ritornare su se stessa e di rettificare i suoi giudizi. Masters aveva scritto un libro di liriche che si componevano in un quadro quasi romanzesco e segnano una data nella storia del realismo americano; tornato alle forme della lirica individuale egli avrà potuto toccare anche risultati più soddisfacenti ma nessuna forza poteva impedire che il suo nome fosse legato per sempre a quell’Antologia Palatina di epigrafi tombali che prese il nome da un immaginario villaggio medioccidentale.»
Con l’Antologia di Spoon River Masters arrivò al successo, che subito lo abbandonò, costringendolo per il resto della sua vita a inseguire inutilmente se stesso.
Fabrizio Milanese
BENJAMIN FRASER
Their spirits beat upon mine
Like the wings of a thousand butterflies.
I closed my eyes and felt their spirits vibrating.
I closed my eyes, yet I knew when their lashes
Fringed their cheeks from downcast eyes,
And when they turned their heads;
And when their garments clung to them,
Or fell from them, in exquisite draperies.
Their spirits watched my ecstasy
With wide looks of starry unconcern.
Their spirits looked upon my torture;
They drank it as it were the water of life;
With reddened cheeks, brightened eyes
The rising flame of my soul made their spirits gilt,
Like the wings of a butterfly drifting suddenly into sunlight.
And they cried to me for life, life, life.
But in taking life e for myself,
In seizing and crushing their souls,
As a child crushes grapes and drinks
From its palms the purple juice,
I came to this wingless void,
Where neither red, nor gold, nor wine,
Nor the rhythm of life is known.
BENJAMIN FRASER
I loro spiriti battevano sul mio
come le ali di mille farfalle.
Io chiusi gli occhi, e li sentivo vibrare.
Io chiusi gli occhi, ma sapevo quando le loro ciglia
frangiavano dagli occhi abbassati le guance,
e quando voltavano la testa;
e quando i loro abiti aderivano a loro,
o ricadevano in squisiti drappeggi.
I loro spiriti osservavano la mia estasi
con ampi sguardi d’indifferenza stellare.
I loro spiriti guardavano la mia tortura;
la bevevano come se fosse acqua di vita;
con guance arrossate, con occhi lucenti
la fiamma dritta della mia anima indorava loro gli spiriti,
come ali di farfalla ch’esce a un tratto alla luce del sole.
E invocavano da me solo la vita, la vita, la vita.
Ma io prendendola tutta per me,
afferrando e schiacciando quelle anime,
come un bambino schiaccia l’uva e beve
a giumella il succo purpureo,
giunsi a questo vuoto senz’ali,
dove né rosso, né oro, né il vino,
né si conosce il ritmo della vita.
CONRAD SIEVER
Noi in that wasted garden
Where bodies are drawn into grass
That feeds no flocks, and into evergreens
Thai bear no fruit —
There where along the shaded walks
Vain sighs are heard,
And vainer dreams are dreamed
Of dose communion with departed souls —
But here under the apple tree
I loved and watched and pruned
With gnarled hands
In the long, long years;
Here under the roots of this northern-spy
To move in the chemic change and circle of life,
Into the soil and into the flesh of the tree,
And into the living epitaphs
Of redder apples!
CONRAD SIEVER
Non in quel giardino abbandonato
dove i corpi si trasformano in erba
che non nutre greggi, e in sempreverdi
che non portano frutto —
là dove lungo i sentieri ombrosi
si odon vani sospiri,
e si sognano sogni anche più vani
d’intima comunione coi morti —
ma qui sotto il melo
che amavo, vegliavo e sarchiai
con dita nodose
per lunghi, lunghi anni;
qui sotto le radici della vedetta del Nord
aggirarmi nel moto chimico della vita,
nel suolo e nella carne dell’albero,
e negli epitaffi viventi
di mele più rosse!
THEODORE THE POET
As a boy, Theodore, you sat for long hours
On the shore of the turbid Spoon
With deep-set eye staring at the door of the crawfish’s burrow,
Waiting for him to appear, pushing ahead,
First his waving antennae, like straws of hay,
And soon his body, colored like soap-stone,
Gemmed with eyes of jet.
And you wondered in a trance of thought
What he knew, what he desired, and why he lived at all.
But later your vision watched for men and women
Hiding in burrows of fate amid great cities,
Looking f or the souls of them to come out,
So that you could see
How they lived, and for what,
And why they kept crawling so busily
Along the sandy way where water fails
As the summer wanes.
THEODORE IL POETA
Da ragazzo, Theodore, sedevi per lunghe ore
sulle rive del torbido Spoon
con gli occhi profondi fissi sulla tana del gambero,
aspettando che apparisse spingendo la testa,
prima le antenne ondeggianti, come fili di fieno,
e poi il corpo, colorato come steatite,
gemmato con occhi di giada.
E ti domandavi, come rapito,
che cosa sapeva, che cosa desiderava, e perché mai vivesse.
Ma più tardi guardasti uomini e donne
nascosti nelle tane del fato fra grandi città,
osservando le loro anime uscire,
in modo da poter vedere
come vivevano, e per che cosa,
e perché strisciassero così in faccende
sulla distesa di sabbia dove l’acqua vien meno
quando l’estate declina.
PETIT, THE POET
Seeds in a dry pod, tick, tick, tick,
Tick, tick, tick, like mites in a quarrel —
Faint iambics that the full breeze wakens —
But the pine tree makes a symphony thereof.
Triolets, villanelles, rondels, rondeaus,
Ballades by the score with the same old thought:
The snows and the roses of yesterday are vanished;
And what is love but a rose that fades?
Life e all around me here in the village:
Tragedy, comedy, valor and truth,
Courage, constancy, heroism, failure —
All in the loom, and oh what patterns!
Woodlands, meadows, streams and rivers —
Blind to all of il all my life long.
Triolets, villanelles, rondels, rondeaus,
Seeds in a dry pod, tick, tick, tick,
Tick, tick, tick, what little iambics,
While Homer and Whitman roared in the pines?
PETIT, IL POETA
Semi in un guscio secco, tic, tic, tic,
tic, tic, tic, come insetti che litigano —
giambi sommessi che la brezza ridesta —
ma il pino ne fa una sinfonia.
Triolé, villanelle, rondelli, rondò,
ballate a dozzine col solito vecchio pensiero:
le nevi e le rose di ieri sono svanite;
e che cosa è l’amore se non una rosa che muore?
La vita intorno a me, nel villaggio:
tragedia, commedia, valore e verità,
coraggio, costanza, eroismo, fallimento —
tutto sul telaio, e che disegni!
Boschi, prati, correnti e fiumi —
cieco a tutto ciò tutta una vita.
Triolé, villanelle, rondelli, rondò,
semi in un guscio secco, tic, tic, tic,
tic, tic, tic, che giambi minuti,
mentre Omero e Walt Whitman ruggivano nei pini?
HARLAN SEWALL
You never understood, O unknown one,
Why it was I repaid
Your devoted friendship and delicate ministrations
First with diminished thanks,
Afterward by gradually withdrawing my presence from you,
So that I might not be compelled to thank you,
And then with silence which followed upon
Our final Separation.
You had cured my diseased soul. But to cure it
You saw my disease, you knew my secret,
And that is why I fled from you.
For though when our bodies rise from pain
We kiss forever the watchful hands
That gave us wormwood, while we shudder
For thinking of the wormwood,
A soul that’s cured is a different matter,
For there we’d blot from memory
The soft-toned words, the searching eyes,
And stand forever oblivious,
Noi so much of the sorrow itself
As of the hand that healed it.
HARLAN SEWALL
Tu non comprendesti mai, o Sconosciuto,
perché abbia ripagato
la tua devota amicizia e i tuoi servigi delicati
dapprima con ringraziamenti via via più rari,
poi col graduale sottrarmi alla tua presenza
in modo da non dovere esser costretto a ringraziarti,
e poi col silenzio che segui alla nostra
separazione estrema.
Tu avevi curato la mia anima malata. Ma per curarla
conoscesti il mio male, penetrasti il mio segreto,
ed è perciò che fuggii da te.
Perché mentre, riemergendo da un dolore del corpo,
noi baciamo in eterno le vigili mani
che ci han dato l’assenzio, pur rabbrividendo
se pensiamo all’assenzio,
la cura di un’anima è tutt’altra cosa,
perché allora vorremmo cancellar dal ricordo
le parole tenere, gli occhi indaganti,
e restare per sempre dimentichi
non tanto del nostro dolore,
quanto della mano che lo ha risanato.
Edgar Lee Masters (traduzione di Fernanda Pivano)
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.
Lo stile scarno, diretto, privo di qualsiasi cedimento retorico – che sarebbe stato facile, qui, considerando la natura dei temi – rende sempre attuali questi testi di Edgar Lee Masters. E, quando una poesia resta intatta nel tempo, allora possiamo riconoscerne l’autenticità.
Rileggendo questi versi, non ho potuto fare a meno di ricordare le otto poesie di Spoon River che Fabrizio De André trascrisse molto liberamente – come sappiamo -, insieme a Giuseppe Bentivoglio e a un giovanissimo Nicola Piovani, per il suo album del 1971, “Non al denaro, non all’amore nè al cielo” (in copertina l’ intervista di Fernanda Pivano). I titoli che ora mi vengono in mente sono, ad esempio, Un giudice da Judge Selah Lively; Un malato di cuore da Francis Turner; Un chimico, da Trainor, the Druggist; Il suonatore Jones, da Fiddler Jones; Un matto, da Frank Drummer, ecc. Al di là del valore artistico, il lavoro di De André fu importante per la divulgazione dell’opera di Leee Masters. Difatti, molti ragazzi si accostarono all’Antologia di Spoon River proprio dopo aver ascoltato le ballate di De André: in breve quella Antologia diventò il “cult”, per così dire, di una intera generazione.
Vorrei riproporre qui la poesia “Francis Turner” (nella traduzione di Fernanda Pivano) ispiratrice della canzone “Un malato di cuore”. Buona lettura e…
Buon ascolto!!
“Francis Turner” dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters
(traduzione di Fernanda Pivano)
Io non potevo correre né giocare
quand’ero ragazzo.
Quando fui uomo, potei solo sorseggiare alla coppa,
non bere –
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Eppure giaccio qui
blandito da un segreto che solo Mary conosce:
c’è un giardino di acacie,
di catalpe e di pergole addolcite da viti –
là, in quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary –
mentre la baciavo con l’anima sulle labbra,
l’anima d’improvviso mi fuggì.
-Interessante, empatico, ricco e documentato articolo che ricorda storicamente la famosa antologia di Spoon River ed il suo autore, tradotto da F. Pivano, che lo definiva espressione di “una poesia senza tempo”, un caso editoriale, e che attirò l’attenzione dei giovani libertari, tanto che Eugenio Montale nel marzo del 1950, pubblicò sul “Corriere della Sera” l’articolo che ne segnalava la novità col titolo «Celebre e sconosciuto l’autore di Spoon River», cui seguì a ruota quello prestigioso di Mario Praz sul “Tempo”, dal titolo «Tragica arguzia di Spoon River». Perfino Vittorio Sereni ne scriveva sulla rivista “La Scuola” (a. XLV, 1948) col titolo «I morti coerenti di Spoon River» e Cesare Pavese su” L’Unità” nel marzo del 1950, con l’articolo «L’ultima voce di Spoon River», dedicato alla morte dell’Autore e nel 1951, ne parlava ancora ammirato nella ” Letteratura americana”, di Einaudi. Riscosse negli anni Cinquanta anche il consenso di un largo pubblico, a testimonianza dei mutamenti dei gusti e delle preferenze dei nuovi lettori italiani.
La situazione politica di quegli anni infatti aveva creato una grande tensione intellettuale e uno sforzo continuo di impostare in chiave epica anche gli elementi più semplici ed elementari della vita sociale collettiva, con il rifiuto della magniloquenza e di valori arbitrariamente camuffati da eroismi patriottardi. I morti di Spoon River che, con la forma dell’epitaffio, possono smentire le parole e i simboli incisi sulle loro pietre tombali, dimostrando che spesso la realtà è ben diversa da come appare, e i protagonisti si presentano a compiere una grande operazione di verità e di libertà intellettuale e morale.
Anche Gianni Rodari lesse l’opera e ne fu attratto, (Il cavallo saggio) in particolare perché la forma stilistica espressiva di quelle epigrafi sa cogliere con straordinaria efficacia l’umorismo, l’ironia, il sarcasmo, svelando l’ipocrisia della società e non è priva di spunti surreali. Dovette piacergli molto lo sguardo di E. Lee Masters che osservava lucidamente senza facili sentimentalismi la «piccola America» del suo tempo giudicandola e rappresentandola come una commedia umana i cui vizi e le cui virtù si manifestano sul terreno di una società in involuzione, futile e tragica, che non sa pensare più in termini umani universali. In un linguaggio quasi sempre semplice, spoglio e comune, oscillante tra poesia e prosa, i morti che riposano nel cimitero della cittadina americana di Spoon River, sulla collina sovrastante il fiume, recitano il proprio epitaffio. Questi strani morti parlano in un linguaggio simile a quello corrente, e non dicono nulla sui misteri dell’aldilà, dell’eterno. Parlano dell’aldiquà, come l’avvocato AssoShaw o la prostituta Aner Clute. Sono un coro concorde solo negli accenti, livellati nel sonno. Ogni epigrafe fissa le linee essenziali della vita trascorsa e ne stabilisce il senso. Sembra che la morte non abbia insegnato nulla oltre la loro personale esperienza, e non sembrano essere esperti di giudizi assoluti sul bene e sul male, sulla felicità e infelicità umana.