Marek Baterowicz è nato a Cracovia nel 1944. Ho avuto il mio primo incontro epistolare con lui quando stavo preparando la mia antologia di racconti brevi polacchi dal 1945 al 1985 circa, che fu poi pubblicata da Editori Riuniti nel 1988 con il titolo Viaggio sulla cima della notte. Gli scrissi informandolo di questo mio progetto, ma mi rispose di non aver ancora scritto un racconto breve e di essere soprattutto un poeta. Da allora, pur non essendoci mai incontrati, dura la nostra sincera amicizia “a distanza”.
La sua odissea continua ancora oggi. Essa iniziò nel 1985 quando, dopo quattro anni di inutili tentativi, grazie al premio Circe Sabaudia, ottenne finalmente il sospirato passaporto che gli era stato rifiutato per la legge marziale polacca del 1981: l’Italia – da lui sempre ritenuta la sua seconda patria – gli aveva restituito la libertà. A Roma ha ricevuto riconoscimenti per le traduzioni dei poeti Montale, Saba e Ungaretti. Ha poi viaggiato attraverso la Francia e la Spagna, fino a raggiungere Sydney, dove vive tuttora. E’ autore di numerose raccolte di poesie pubblicate, oltre che in Polonia, in Australia, in Francia, negli USA e in Inghilterra, e di narrativa (racconti, un romanzo, e la novella Il manoscritto di Amalfi; ha collaborato anche con la rivista “Miscellanea” con saggi e poesie in italiano. In Italia una sua raccolta di poesie scelte è stata pubblicata dalla casa editrice Empirìa di Roma nel 2010, con il titolo Canti del pianeta, nella mia versione. Essa comprende prevalentemente le poesie composte durante le sue drammatiche peregrinazioni in diversi paesi, senza mai dimenticare la Polonia. Canti del pianeta è un libro aperto all’umanità intera. Il poeta diventa un “uomo planetario” che invita alla fraternità tra gli uomini.
Ecco un suo lapidario ritratto, tracciato da un autorevole critico australiano: “indiscusso principe dei letterati polacchi residenti in Australia, grande erudito, conoscitore di culture straniere, lavoratore instancabile, pensatore-poeta, maestro di metafore filosofiche”. Un altro critico scrive: “ogni sua poesia è una entità intellettuale e artistica, creata in modo pressoché perfetto. La sua capacità di sintesi, l’eleganza dello stile, la disciplina verbale e la profondità filosofica – tutti questi aspetti concorrono a formare una creazione non comune”.
Dopo tanti anni di lontananza, Baterowicz ha sempre la Polonia nel cuore. L’amore per la propria Terra infatti non si può cambiare con i luoghi e col tempo e, consapevole del suo destino di emigrato, il poeta cerca e ritrova la sua patria nei valori trascendentali, nel cosmo delle verità universali.
Una peculiarità di Baterowicz da sottolineare, è il suo atteggiamento nei confronti del progresso. Nelle numerose lettere inviatemi in tutti questi anni, ricorre spesso il motivo del signor Retro, un personaggio-maschera, uno scettico del progresso tecnologico, perché esso distrugge ogni progresso dei valori spirituali. In una delle poesie della raccolta Canti del pianeta Baterowicz dice: “il signor Retro rinuncia al progresso, convinto che l’umanità sia andata già troppo lontano”.
Pubblico qui, nella mia versione, sette poesie di Marek Baterowicz tratte da questo volume.
La canzone di squame di pesce
Dalla mia torre
fatta di sale marino
vedo la riva deserta
e le orme cancellate
dei tuoi piedi.
Tre barche da pesca
come vecchie tartarughe.
Il vento penetra
nelle reti strappate.
Sono solo e non so
se è il crepuscolo
o l’alba.
Un gabbiano mi porta nel becco
una canzone di squame di pesce.
*
I miei pensieri sono come poesie sparse,
rimaste nella mia vecchia casa –
non ho le forze per farne una nuova
e ho perso tanti manoscritti,
ho varcato sette frontiere
e tre oceani –
ma soltanto alla frontiera della patria
mi hanno aperto l’anima e guardato i denti,
i doganieri mi hanno tolto la bilancia,
e ogni lettera ha un peso specifico diverso
e in nessun dizionario troverò le differenze
in apparenza non essenziali; per fortuna il cuore
si è rivelato la migliore bilancia
e l’ho portato di nascosto fin qui
malgrado le perquisizioni e le fotocellule,
perciò vado avanti, con la speranza del paziente
che crede nel farmaco.
In mano però non ho la chiave
della porta degli anni passati
e non distinguo più la luce dall’ombra,
ed anche essa pian piano mi abbandona.
Isola Tiberina
La voce di un uccello che chiama la primavera,
solitario contrappunto alla melodia del Tevere
– dell’acqua che infrange contro il fondo sassoso
giare di canti – interroga il futuro.
Dal passato, che anch’esso detta le sue leggi,
giunge il ritmico grido delle legioni
che marciano sui ponti Cestio e Fabricio.
Il mio passo tenta di unirsi al loro
– mi precedono sempre di un lampo di spada.
Anche l’acqua è più rapida correndo immutabile verso il mare,
dove Nettuno possiede da secoli
la corona abbandonata dei cesari.
L’Isola Tiberina salpa allora verso la sorgente del fiume
come nave che mi porta fino alla prima goccia
del sangue di Remo.
Roma, 1973
*
Il signor Retro estrae l’orologio da tasca,
lo carica –
e ascolta il ticchettio del meccanismo,
che impassibile spinge avanti
le lancette e i secondi
(come fermare l’istante, questa goccia di eternità?)
girando sempre nello stesso punto,
lungo la divina forma del cerchio,
eppure senza sosta andando oltre,
tirandosi dietro folle di manichini –
che si accalcano in marcia,
illusi dalla chimera del Domani,
la quale appare come nuova stella,
scoperta nella vecchia volta celeste –
ma misurata senza la bussola…
Il signor Retro rinuncia al progresso,
convinto che l’umanità sia andata già troppo lontano.
Venezia
A mia figlia
Il suono qui è luce,
riflessa sugli specchi della pioggia,
è stelo e fiore,
reciso dal movimento dell’archetto,
luna nel prisma della finestra
e perla che rotola sui gradini del Ponte di Rialto.
Il suono è anche ombra,
nebbia e corda del sole sull’acqua,
quando una chitarra risuona sulla laguna,
i colombi nelle gondole
ferme sotto il ponte,
su di esso un leone con la criniera come foglie d’autunno,
sul tetto della basilica i cavalli
saltano sulla scacchiera del mondo.
Nel vicolo di balconi
si ode un madrigale di secoli orsono
– composto forse da Gabrieli?
le voci si levano sull’acqua,
superiamo una figura con la maschera
– ombra nella tunica luminosa –
stregata in un perenne sorriso
come un affresco bizantino
la città dei tre elementi
– e il quarto è mistero e arte,
la portano in alto i leoni alati
e le chiare sillabe di un mottetto
Oh, ascolta fratello…
Oh, ascolta fratello del pianeta Terra
come cantano le stelle
per noi tutti lo stesso canto ripetono
e la stessa luce donano a me e a te,
ascolta come il tema della fuga cosmica
incava e penetra tutte le galassie,
come s’inerpica ed erra nelle voci di quelli
che divenuti polvere o nirvana
non si sperdono, perché sono già oltre la terra e il corpo.
Guarda come in fondo alla luce spumeggia l’eterno essere
e come il cosmo vibrante si riversa nelle tue vene…
Ecco il tuo vero canto,
senza dissonanze e senza tempeste,
sopra il pianeta ondeggiante e disteso
sui fili invisibili della ragnatela
che è questa viuzza dell’Universo,
diletta e abbandonata dal Creatore,
ma contraddistinta nel Suo testamento
nel caso Lui stesso non ritrovasse la strada
che porta a noi (Satana Gli strappò la bussola di mano secoli fa
e cade andando alla deriva tra stelle e pianeti
come arpa d’oro dalle corde spezzate),
ascolta dunque fratello come cantano le stelle
per noi tutti lo stesso canto ripetono
qui, dove perduriamo presi
come nelle reti del Grande Pescatore,
illusi dalla promessa del giudizio finale,
che saggiamente sazia i desideri insoddisfatti.
Il ritratto di Pompei
Taci. Salvata dal fuoco del vulcano
– in quale lingua le tenui lettere scrivi?
Una missiva o un verso incide la tua mano?
Latino? Greco? E quali chimere ravvivi?
Oltre la lava il tuo sguardo si protende,
e in esso la città morta è racchiusa
– la luna d’ambra nei tuoi occhi risplende,
e la luce lunare con l’ombra s’è fusa –
la tabula gelosamente nascondi
e celi il tuo nome, i pensieri, il dolore,
saggiando con le labbra lo stilo acuminato,
prima che esso nella cera affondi
e la sciolga con la fiamma del cuore –
sei l’ape e il fiore di un antico prato.
Paolo Statuti è un patrimonio di bravura da conservare. Grazie della proposta.
Un commento in versi
Francesco M.T. Tarantino
A Stilicone
Amico carissimo Stilicone,
barbaro e romano allo stesso tempo,
mi conforta la tua approvazione
per un mio scritto che nottetempo
d’impulso mandai a un Noto Luciano,
amico tuo caro che non conosco,
ma che lo apprezzo perché materano
e soprattutto perché non è fosco.
Quando lo incontri vorrei gli dicessi
che il Sud ha, forse, qualcosa da dire:
basterebbe non esser genuflessi
in questa terra che sembra morire.
Basterebbe che il canto degli oppressi
spingesse tutta la gente ad agire!
Queste poesie sono una rivelazione. Ringrazio Paolo Statuti per la proposta di un così grande poeta.
Caro amico da Tarentum,
sì, mi è caro questo aulico nome “Stilicone”, il grande e leale generale dell’impero d’Occidente, difensore dell’Imperatore Onorio al quale diede in sposa le sue due figlie, il generale metà di sangue vandalo e metà, per parte di madre, di sangue romano. Ebbene, Stilicone, colui sconfisse i goti di Alarico in ben due battaglie nel 406 d.c., non fu fortunato, venne catturato nella sua villa (nei pressi di Verona, se ben ricordo) dove si era ritirato a vita privata da sgherri inviati dal senato di Roma, sottoposto a processo sommario e vigliaccamente giustiziato sul posto.
Stilicone, il grande difensore dell’impero d’Occidente, era stato eliminato con la complice neutralità del suocero, l’imperatore Onorio trincerato a Ravenna. Ma ormai la strada per Roma era libera per il sacco dell’Urbe…
Una vita drammatica quella di Stilicone. Sarebbe un perfetto soggetto per una filmografia se in Italia ci fosse un cinema vitale, e invece si confezionano cine panettoni, romanzi pandoro e poesie tartine.
vorrei condividere con i lettori questi versi, perché soltanto un grande poeta può raggiungere vertici di tale sintesi e intensità, dove il non detto è altrettanto importante del detto:
Il signor Retro estrae l’orologio da tasca,
lo carica –
e ascolta il ticchettio del meccanismo,
che impassibile spinge avanti
le lancette e i secondi
(come fermare l’istante, questa goccia di eternità?)
L’invenzione del «Signor Retro» è qualcosa che lancia questa poesia su un altro piano, propriamente, sul piano metafisico, dove la fisica delle cose nominate sconfina con il non-fisico delle cose passate sotto silenzio. E poi quel gesto, ironicamente casuale e saltuario, dell’estrarre l’orologio da tasca, è qualcosa di formidabile, è un gesto, casuale, fatto da ciascuno di noi miliardi di volte nella vita, e quindi è un gesto che passa inosservato, apparentemente insignificante. E invece quale profondità c’è nell’aver fermato, congelato quel gesto! E quale intensità!
…dimenticavo la chiusa:
«Il signor Retro rinuncia al progresso,
convinto che l’umanità sia andata già troppo lontano».
Ritengo superfluo ogni commento.
Ancora un commento in versi:
QUANDO…
Quando nel ticchettio
e l’insieme dei meccanismi
scorgi l’impassibile movimento
e il susseguirsi dei secondi
in sintonia col battito
del tuo cuore in armonia,
l’eternità e l’istante
in un vortice di magia
fermeranno l’attimo
che non ti lascerà andar via:
ed in quel momento sarai tu
ad esser già troppo lontano!
Per chi non lo sapesse, nel 2010 è uscita una raccolta di poesie scelte di questo poeta nella mia versione, Ed. Empiria, Roma. Titolo del libro: Canti del pianeta.
Mi si perdoni il lapsus, ho dimenticato che questa informazione figura già nel testo di presentazione.