L’ideale poetico di Dino Campana nasce all’incrocio fra vita e forma, apertura e cornice, tenebra simbolistica e clarté naturalistica, avanguardia e tradizione. L’arte d’avanguardia, a partire dal futurismo, nasce dal bisogno di offrire forme simboliche alla tecnologia, cioè di rispondere positivamente allo sviluppo meccanico ed elettrotecnico del mondo contemporaneo: vuole fondarsi sul «violento groviglio delle forze nelle città elettriche» (lettera a Papini, maggio 1913). La poesia sorge dalla «febbre elettrica del selciato notturno». Ma il macchinismo e la nuova tematica urbana si collocano in un orizzonte più vasto di trasfigurazione, che dialoga con i segni del cosmo, fra tempo ed eternità. Il percorso di Campana aspira alla liberazione orfica, alla dinamica ascensionale verso una più vera patria (ad es. il Mediterraneo) dove abbracciare, come in “Genova”, il «più alto palpito» dell’armonia riconquistata. Il suo è un “classicismo dissimulato” che si arma di apparati avanguardistici per confrontarsi con la modernità. Così, il “germano di razza mediterranea”, nel suo continuo pendolare fra dionisiaco e apollineo, come a dire fra vita e forma, può apprezzare e, anzi, elevare a ideali poetici due composizioni che egli stesso percepisce agli antipodi: “Gilnàra” di Lorenzo Montano «cupa profonda orgiastica folle come una musica di zingaro» (lettera a Lebrecht, 26 ottobre 1917), e “Dianora” di Luisa Giaconi, dove «la strofa liberata dalla multiforme catena, con due o tre assonanze elementari ritenta un più puro amore delle luci e delle forme», esprimendo la sensibilità neo-greca della «vera poesia italiana moderna» (lettera a Novaro, maggio 1916).
Ma forse il suo vero ideale lo esprime a proposito di Anacleto Francini (lettera a Papini, 1915): «Le cose che egli mi ha mostrato rispecchiano la più viva sensibilità moderna pur restando nella linea della più pura tradizione italiana». Esattamente quanto si era proposto di realizzare con i Canti Orfici. Aprirsi alle suggestioni moderne senza però tradire «quella saldezza della tempra aristocratica che è necessaria per salvare il carattere della letteratura», ovvero l’ideale sublime e alto della grande tradizione toscana (Dante, Petrarca, Leonardo, Michelangelo, Carducci). Anche per questo sceglie Orfeo: perché gli torna utile come «terza via», di sintesi, tra Dioniso e Apollo, per evocare e realizzare la divinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di immagini plastiche.
Il sogno vero è plasticità della musica, è concretezza dell’astratto, è realtà metafisica. Infatti Campana è un visionario dell’al di qua: non fotografa una realtà “altra”, ma fissa i principi fondanti della vita «quale è» (il «panorama scheletrico» al di sotto delle fugaci apparenze) per darne una sorta di giustificazione e interpretazione finale.
Ed ecco “Genova”: la composizione finale del libro, sia ne Il più lungo giorno che nei Canti Orfici. Il traguardo estremo. L’orizzonte insuperabile. Una delle più intense poesie del Novecento mondiale. Se il «più chiaro giorno» è il traguardo del viaggio iniziatico e la traduzione del «sogno della vita in blocco», “Genova” rappresenta il momento in cui quel traguardo sta per essere raggiunto. Si riverbera sulla pagina il senso di un’attesa ansiosa ma fiduciosa per una rivelazione sempre più imminente. L’anima partita si appresta a tornare alla luce da cui era stata separata dall’atto violento del nascere. Il tempo è sospeso: la nube si è fermata nei cieli. Il sogno è già «arcanamente illustrato»: la realtà è pronta a svelarsi e l’io, divenuto finalmente ricettivo, può uscire dal buio labirinto dei vicoli genovesi per disporsi, in una vasta visione marina e solare, a ricevere la rivelazione suprema. Basta alzare gli occhi al cielo stellato per innescare la giusta disposizione al compiersi dell’Evento, teatralmente preannunciato dai puntini sospensivi. Ed ecco la celebre quarta strofa. Le stelle: simboli metafisici come le «Chimere nei cieli»: testimoni dell’eterno destino dell’uomo, della «vicenda infaticabile / de le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale»: il corso millenario dell’uomo e del tempo che passa, come il sogno di un’ombra, in un mondo che gli sopravvive. Le stelle-Chimere evocano una salvifica «visione di Grazia», finta dal vento salmastro, che dovrebbe infine coincidere con la definitiva sospensione del tempo per il momento eternamente presente del «più chiaro giorno». L’apparizione è affidata alla “musica”: il significato ordinario è scompigliato e destrutturato, anche a livello sintattico, per la ricerca faticosa di un “sovrasenso” che ci parli di un’altra dimensione. E il testo diventa inafferrabile, ai limiti dell’afasia. La «visione di Grazia» appartiene a un mondo radicalmente altro, le cui porte vengono appena socchiuse ma restano invalicabili anche per il poeta.
Torniamo alla «vicenda infaticabile» che si svolge «dentro del cielo». È la vita, il mistero dell’esistenza sintetizzato in due potentissimi emblemi: nuvole e stelle. Noi stessi siamo infaticabilmente implicati in questa “vicenda”, crocifissi tra il piano del tempo (le nuvole) e il piano dell’eterno (le stelle). Le nuvole scorrono evanescenti, bianche e fantasmatiche, sotto il velluto nero del cielo notturno, trapunto di stelle, che brilla tra gli squarci del loro passaggio. Anche noi scorriamo come nuvole d’ombra rispetto al «bagliore magnetico» delle stelle, che raccontano con parole di silenzio l’«infinità delle morti». La dimensione delle nuvole (anche se “spiano” il mistero) è quella del naturalismo (la vita «quale è»); le stelle sono veicoli di misticismo; la quintessenza del «sogno della vita in blocco» è rappresentata dal sintagma «dentro del cielo», attraverso cui Campana realizza una nuova dimensione del mondo come praticabilità fluida e aperta, derivante dallo «scorrere sopra la vita» come «unica arte possibile» oltre la «stretta oppressione dei contrari». Ed è solo uno degli indizi di penetrazione assoluta della realtà, che Campana mette in opera nella rivelazione in fieri della quarta strofa, non a caso caratterizzata da cinque “interni”:
• Dentro del cielo serale (v. 56)
• Dentro il vico marino (v. 57)
• Dentro il vico (v. 58)
• Dentro silenzii solenni (v. 79)
• Dentro del cielo stellare (v. 86).
«Dentro del cielo» realizza il paradosso di un interno inesistente, perché cercato e scavato dentro la maggiore esternità; e dunque la circolarità biunivoca fra gli opposti dell’interno e dell’esterno, del finito e dell’infinito, del tempo e dell’eterno. Il mondo è dentro il cielo; il cielo a sua volta è dentro il mondo. Così come «dentro del cielo stellare» siamo immersi noi; e il cielo stellare è dentro di noi. Campana sviluppa e porta avanti in parallelo questi due piani della realtà (quello della dissipazione dionisiaca: naturalistico, spaziale e materiale; e quello della concentrazione apollinea: psicologico, temporale e concettuale) che poi, nella realtà astratta della scrittura, trovano la loro interconnessione continua e fluida su un terzo piano, “sovramentale”, cioè oltresensibile, onirico, metafisico, verso il traguardo di una trasfigurazione “orfica” (apollinea e insieme dionisiaca) del mondo e dell’uomo. Emerge così in superficie il riflesso di un «tempo senza tempo» (che però racchiude e distilla tutto il tempo: oltre l’impaccio del suo scorrimento diacronico, così come, all’altro estremo, oltre la sua negazione in eternità, in struttura sospesa e potenziale) attraverso la dimensione sintetica e sublimata di uno «spazio senza spazio» raggiunto al cuore del «panorama scheletrico» e, ancora, oltrepassato ab imis, fino al fondo primordiale della sua creazione. Che cosa c’è dentro l’incubo della materia opaca? Forse il varco per la più grande luce: la luce della luce, l’essenza della luce: il chiaro che non è di questo mondo. È a tale origine che cerca di attingere il Mito. Un discorso simile riguarda il rapporto fra cultura e natura. La cultura polverosa dei libri cerca il contatto vivificante con la natura, aprendosi al flusso cosmico e ondivago della sua energia fondamentale; la natura a sua volta è chiamata a “riscattarsi” sul piano evolutivo superiore garantitole dall’assimilazione dei segni umani (arte, memoria, storia). L’obiettivo finale è una sintesi alchemica ottenuta per profonda unità metafisica, attraverso cui la cultura ritorni, al colmo della sua sublimazione, natura trasfigurata e riconciliata, portatrice di nuova armonia universale. Natura e cultura insieme: raccolte al vertice sommo delle loro potenzialità, per innescare la grande vampata trasfiguratrice in grado di cambiare lo sguardo all’uomo, e dunque il volto visibile al mondo. È questo il significato orfico del «sogno della vita in blocco».
Ma ecco che il sogno orfico si disfa nell’ultima visione felice, il «grande velario / di diamanti disteso sul crepuscolo»; poi il sole intesse un “sudario” (versione funebre dell’iniziale “velario”) per gli «uomini stanchi», e i viaggiatori, che poco prima si avventuravano fiduciosi per le piazze e le vie di Genova, tra schiamazzi di fanciulli (simbolo positivo di gioia e innocenza ritrovata), ora si trasformano in “ombre” e camminano «terribili e grotteschi come i ciechi». Il Mito, insomma, si spegne con gli ultimi bagliori del crepuscolo. Il poeta ripiomba nel carcere del tempo. Torna la notte da cui i Canti Orfici avevano preso le mosse. Resta solo l’ultimo fotogramma, la sterminata devastazione cosmica del cielo stellato sulla notte tirrena, nel quale annega in dissolvenza lo sguardo del poeta… Il viaggio della poesia va fatalmente da notte a notte; ogni illusione salvifica è destinata a concludersi nel sangue sacrificale del Fanciullo, raggrumato nel colophon da Withman.
Campana sente di far parte della race of rangers whitmaniana, la «razza dei liberi cacciatori» massacrata a tradimento da un mondo meschino, volgare e violento, che non può e non vuole accogliere le istanze spirituali dell’uomo, la voce originaria della poesia. Cerca di trovare un accordo cosmico fra i tempi storici e i tempi biologici, cioè di assorbire in una più vasta unità universale le manifestazioni e gli effetti generati dal “progresso” nei campi della scienza, della tecnica, della produzione. Può anche provare momentanea esaltazione per lo slancio creativo e il vigore dinamico che si manifestano nell’uomo con l’elettricità, il cinema, il fervore delle navi, dei porti, delle gru, dei tram, dei treni, degli aerei… così come per le energie grandiose della terra, del cielo e del mare, degli elementi naturali, nel libero giuoco delle forze fenomeniche del mondo. Ma Genova si conclude con un distacco inequivocabile che sa di nausea, di rifiuto, di sconfitta: la forza culla la «tristezza inconscia» di un futuro non proprio rassicurante (pensiamo che i Canti Orfici vengono stampati negli stessi giorni dell’attentato di Sarajevo e in coincidenza storica con l’inizio della Prima Guerra Mondiale), e così il ritmo è affaticato, e la nube delle ciminiere è un «vomito silente».
Vasto, dentro un odor tenue vanito
Di catrame, vegliato da le lune
Elettriche, sul mare appena vivo
Il vasto porto si addorme.
S’alza la nube delle ciminiere
Mentre il porto s’addorme: e che la forza
Dorme, dorme che culla la tristezza
Inconscia de le cose che saranno
E il vasto porto oscilla dentro un ritmo
Affaticato e si sente
La nube che si forma dal vomito silente.
Il colophon da Withman è un atto d’accusa (un modo per dire: voi vi siete macchiati del mio sangue innocente) contro un mondo che lo aveva coperto di sputi – lui, semplice poeta – ma che, soprattutto, avrebbe consentito il massacro generazionale dei “boys”, dei fanciulli sacrificali, sull’altare truculento della Storia. È anche questo, forse, il significato ultimo della «visione di Grazia», bianca e lieve tra le ali rosse dei fanali.
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca …
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì …
La «visione di Grazia» è la poesia nel mondo contemporaneo, che lotta faticosamente contro l’invadenza del disumano per mantenersi bianca (cioè pura), e lo è già a stento nel rosso del fanale che la inghiotte, e allora è costretta a salire “su” per abbracciare la dimensione dell’eterno (il cielo stellato) in cui soltanto può sopravvivere. Altrimenti detto: è vano l’esorcismo della modernità, il disperato tentativo di recingere uno spazio in cui la poesia possa resistere all’onticizzazione dell’individuo nella società di massa tecnicizzata (con le sue spietate leggi economiche), e durare come un canto di eternità dell’Uomo nella «Nuda mistica in alto cava/ Infinitamente occhiuta devastazione».
La Chimera
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Giardino autunnale (Firenze)
Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto
Ella m’appar, presente.
La speranza (sul torrente notturno)
Per l’amor dei poeti
Principessa dei sogni segreti
Nell’ali dei vivi pensieri ripeti ripeti
Principessa i tuoi canti:
O tu chiomata di muti canti
Pallido amor degli erranti
Soffoca gli inestinti pianti
Da’ tregua agli amori segreti
Chi le taciturne porte
Guarda che la Notte
Ha aperte sull’infinito?
Chinan l’ore: col sogno vanito
China la pallida Sorte …………………………
…………………………………………………………
Per l’amor dei poeti, porte
Aperte de la morte
Su l’infinito!
Per l’amor dei poeti
Principessa il mio sogno vanito
Nei gorghi de la Sorte!
L’invetriata
La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – C’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è
Sempre una piaga rossa languente.
Il canto della tenebra
La luce del crepuscolo si attenua:
Inquieti spiriti sia dolce la tenebra
Al cuore che non ama più!
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
Sorgenti sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare…
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
Ascolta: ti ha vinto la Sorte:
Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:
Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte
Più Più Più
Intendi chi ancora ti culla:
Intendi la dolce fanciulla
Che dice all’orecchio: Più Più
Ed ecco si leva e scompare
Il vento: ecco torna dal mare
Ed ecco sentiamo ansimare
Il cuore che ci amò di più!
Guardiamo: di già il paesaggio
Degli alberi e l’acque è notturno
Il fiume va via taciturno…
Pùm! mamma quell’omo lassù!
La sera di fiera
Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni: colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
………………………………………………………………………..
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.
“Pampa” (frammento)
E allora figurazioni di un’antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di orge si crearono avanti al mio spirito.Rividi un’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mammelle stinte.Credetti di udire fremere le chitarre là nella capanna d’assi e di zingo sui terreni vaghi della citta, mentre una candela schiariva il terreno nudo. In faccia a me una matrona selvaggia mi fissava senza batter ciglio. La luce era scarsa sul terreno nudo nel fremere delle chitarre. A lato sul tesoro fiorente di una fanciulla in sogno la vecchia stava ora aggrappata come un ragno mentre pareva sussurrare all’orecchio parole che non udivo, dolci come il vento senza parole della Pampa che sommerge.
La matrona selvaggia mi aveva preso: il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra: ora la luce era più scarsa sul terreno nudo nell’alito metallizzato delle chitarre. A un tratto la fanciulla esalò la giovinezza, languida nella sua grazia selvaggia, gli occhi dolci e acuti come un gorgo. Sulle spalle della bella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma
augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un balzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle selvaggie nell’ombra.
L’ha ribloggato su "LA GROTTA DELLE VIOLE" di Giorgina Busca Gernetti.
L’ha ribloggato su La distensione del verso.
È stato Contini il critico che ha posto l’opposizione tra una linea «innica» capitanata dal capostipite più importante: Campana e la linea «elegiaca» impersonata dal più grande Montale degli “Ossi” e delle “Occasioni”. Chiusa in questa formula dualistica la vittoria non poteva che arridere all’elegiaco Montale. Contini da critico acuto vede lontano. Vede che il futuro della poesia italiana si incamminerà verso l’elegia e l’anti-elegia delle post-avanguardie. Ma se andiamo ad osservare i fatti stilistici (come fa Marco Onofrio) vediamo che non è esatto parlare della poesia dei “Canti orfici” come di una poesia appartenente al genere innico. Una lettura dei suoi versi sarebbe sufficiente a smontare la famosa formula del Contini. Di fatto la liquidazione di Campana rientrava in un movimento di truppe che aveva scelto di parteggiare per l’esercito vincitore, giacché Montale sarebbe prevalso anche senza l’arbitraggio finto-neutrale del Contini. Se osserviamo lo snodarsi della poesia italiana ufficiale nel corso del Novecento ci accorgiamo come essa segua i binari indicati dal Contini (poesia e anti-poesia del genere elegiaco). Ma la questione è senz’altro più complessa di come ce la racconta il celebre virtuosismo critico del Contini. Per il semplice fatto che la formula va verificata, e se la andiamo a verificare lungo lo scorrere del Novecento ci accorgiamo che esulano da quella formula i poeti più significativi del Novecento (Govoni, Palazzeschi, Pavese, Ennio Flaiano, Helle Busacca, Ripellino etc.), coloro che non si sono allineati dentro la formula e che la formula fanno saltare con il semplice atto della loro presenza.
Una cosa è certa, la formula di Contini ha una maglia troppo rigida, una griglia troppo stretta, non contiene né può contenere tutta la poesia del Novecento, va quindi rivisitata e corretta. E fa bene Marco Onofrio a sottolineare il carattere dionisiaco-apollineo della poesia di Campana, il suo simbolismo espressionistico che contiene in sé anche il parlato e la frantumazione dell’endecasillabo, l’esondazione dall’endecasillabo…
Ricordo che Mario Luzi indicava Dino Campana come portatore di uno stile nuovo, di una radice di novità che avrebbe potuto guidare tutto il percorso della poesia del secondo millennio. Lo indicava ai giovani come lettura esemplare. Dimostrando anche qui un occhio lungo.