Il paesaggio sonoro nella scena autobiografica leopardiana. Luci e suoni del sogno memoriale, di Gabriella Cinti (seconda parte)

 

Viggiano

 

LA DANZA DELLA MEMORIA E DELLA LUNA

Vi è una sorta di danza di ricordi che si allaccia e si insegue sul filo di una memoria danzata come la fuga di stanze della casa paterna, i temi sono amplificati, ma tutta la poesia respira di un ritmo di danza, che culmina nella danza di Nerina. La danza di per sé rinvia a una azione scenica, a una visione dinamica e ondulatoria, ma costituisce anche una esecuzione sonora in continuo, in cui dialogano scrittura e trascrizione motoria del suono nei movimenti corporei tracciati nell’aria. La danza della poesia leopardiana è la traduzione in parole di un volo mistico, uno slancio ontologico del piacere che muove le cose umane e l’universo ad esistere costituendone la manifestazione sonora, perfetta fusione di raffigurazione visiva, eidon (Idilli…) e musica, segreto ritmo dell’essere. In Nerina culmina la solarità della vita rappresentata in quella dilatazione della luce espressa dal ricorrente verbo all’imperfetto. Il ritmo travolgente di questi versi produce un cortocircuito tra presente e passato, attivato da quel “danzando” che reinserisce la rievocazione nella
circolarità del ballo in cui tutto danza, i giovani, Nerina, la primavera, i sentimenti del poeta, supremo vortice del canto e vertice della poesia stessa. La stessa dimensione paesaggistica, specialmente quella lunare, assume anche forme di sonorità, che rivelano come per Leopardi il suono, assai più che modalità rappresentativa della realtà, è la materia costitutiva del mondo esterno ed interiore. Possiamo così parlare di un paesaggio fonico costitutivo della sua scena interiore, in cui le cose acquistano realtà nella risonanza uditiva che crea nel suono una duplicazione dell’esistenza, l’essenza musicale del mondo.
Questo porta a riflettere sulla natura interlocutoria della poesia leopardiana, sul colloquio assorto con il mondo che Leopardi ha sempre cercato, così come risulta dalle lettere ai fratelli e agli amici, e dalla sua poesia che ci ha consegnato dialoghi-monologhi ai luoghi trattati da lui alla stregua delle speranze e delle persone a cui si rivolgeva. La luna è la principale protagonista di questa interlocuzione, non è un caso che compaia come astro dedicatorio della prima e dell’ultima poesia dei Canti fin dal titolo, ma sia al tempo stesso presente, come evocazione nei sublimi incipit de La sera del dì di festa, ne Le ricordanze, nel Canto notturno, e in Alla luna trascinando il nostro ascolto interiore nella conchiglia fonica di un’incantata atmosfera notturna.
Un parallelo con questa atmosfera lo offre l’altra grande poetessa della luna, cioè Saffo in una sorta di sovrapposizione uditiva, di ricalco fonico, che crea un effetto di falso bordone. Non si può non riconoscere nella lunarità leopardiana un simbolo di quell’indefinito così centrale nel suo pensiero, quando si richiama alla luce vaga dell’astro e delle stelle a lei compagne. Come intensamente dice Citati:
«Lo Zibaldone è un libro sull’indefinito, sulle apparenze, sui riflessi e dunque sulla luna. Si apre con una visione lunare».(19) E ancora: «Sebbene la luna sia o possa essere una illusione, essa resta il culmine – questo infinito inseparabile dal vero amore»,(20) «era la sorgente dei maggiori piaceri che l’uomo potesse provare del mondo».(21)
Prendendo in considerazione l’altra importante modalità percettiva e della realtà, la vista, rileviamo come Leopardi ne stabilisca una equiparazione con l’udito: la luce alla pari del suono, come canali del viaggio verso l’indefinito remoto o onirico ovvero manifestazioni di una reciproca polarizzazione tra l’uno e l’altro aspetto. C’è in Leopardi anche una poetica della luce, vibrazione affine al suono, come dilatazione delle cose, più che visione, iridata proiezione verso supremi orizzonti. Il sensibile, pur muovendo da dati reali entra subito in una angolazione interiorizzata e “ideale” carica di valenze infinitiche e oniriche. Le Ricordanze appaiono l’emblema della prevalenza di questa fonicità del sogno memoriale di Leopardi, musica della sua Recanati-ricordo.

 

LA FINESTRA VERSO L’OLTRE SONORO

Come già accennato sopra, il fondale scenico recanatese ruota prevalentemente intorno a Palazzo Leopardi, e agli spazi naturali limitrofi, a quegli interni-frontiera sul mondo, imprescindibili per il suo volo sonoro. Nello specifico, il tema della finestra, cerniera per eccellenza tra interno ed esterno, così intimamente legata anche nella tradizione letteraria e artistica alla figura femminile, quasi sua cornice, rinvia comunque a quella dimensione di limite e di barriera senza la quale sembra non potersi generare in Leopardi lo slancio verso l’oltre. Opposizione e passaggio, zona di transito tra mondi diversi costituisce una sorta di porta aerea che consente il transito dello sguardo e della voce come vicari del corpo. La finestra è parte integrante di quella “terra natal” che pur allontanatasi nell’immaginazione del poeta nella cesura fatale della morte, diventando “quella”, determinativo per eccellenza della distanza, rimane luogo iniziatico di dialogo, di apertura al sogno. Non è un caso, in questo senso, la presenza, già dai primi versi del componimento, delle finestre attraverso cui il poeta riesce a “ragionar” con le stelle, avvicinandole a sé forse grazie a questa familiarizzazione dell’indefinito resa possibile dall’ancoraggio ad un finito che dialoga con l’infinito, in virtù del prodigio ossimorico della poesia. Ora questa finestra, nella sua qualità di telaio della figura femminile, ancillare, funge in realtà da canale sonoro, amplificando i suoni e permettendo il passaggio della voce-canto di Silvia, come di Nerina. La finestra quindi è luogo uditivo per eccellenza, di emanazione della soavità sonora femminile, se per estensione possiamo interpretare i “veroni del paterno ostello” di A Silvia come un prolungamento verso l’esterno della finestra, un fuori che conserva le caratteristiche di un dentro che si sporge all’esterno.

 

SINESTESIE DIFFUSE

Pur avendo l’impressione di una predominante presenza di immagini visive e coloristiche, le Ricordanze in realtà affidano la ri-creazione poetica del passato alla dimensione fonica, tanto che la presenza delle notazioni uditive, circa 27 contro i 14 richiami visivi, intesse di materia sonora la reminiscenza del passato. Aggiungerei che l’aspetto fonico si inquadra in una più complessa prospettiva di relazioni tra la lingua, il tempo, la memoria, in cui la poesia leopardiana si carica di un’autentica sfida ontologica e soteriologica, come mette in luce Antonio Prete:

Una lingua che sa ospitare e accogliere nel ritmo del verso le parvenze che salgono da un tempo fatto cenere, un tempo irreversibile, finito, che più non torna. Ė il movimento della ricordanza che, rompendo la prigione dell’oblio, si trasforma nel nuovo tempo della poesia. Resistenza contro l’oblio. Potremmo dire: contro la tentazione dell’oblio […]. Nella caduta delle illusioni, nel definirsi dell’orizzonte chiuso della finitudine, la lingua della poesia accoglie la vita di perdute immagini e s’aggira sui confini del limite, dove si riverbera ciò che è assente impossibile e negato.(22)

D’altro canto, che tra le diverse percezioni ci sia contiguità lo sottolinea anche Getto: «Ma nell’udire del poeta è implicito anche un vedere».(23) Tra gli elementi legati alla vista inoltre, il mirare torna ben tre volte e così il sorriso peraltro connessi tra di loro anche etimologicamente attraverso la radice sanscrita smay, che ha appunto il significato di sorridere. In Leopardi, poeta del sorriso e della stuporosa e assorta visione, spesso troviamo questo connotato per esempio ne Le ricordanze, come in A Silvia o ne La sera del dì di festa. Dovremmo proprio soffermarci sulla stessa articolazione della parola mirava, per osservare come gli angoli della bocca inevitabilmente si sollevino e la bocca tutta si disponga fisicamente al sorriso. Ai sorrisi leopardiani si potrebbero accostare quelli di Saffo, espressione di totalizzante abbandono al Piacere come Principio ontologico.
Come dice Citati: «i piaceri sono sempre una cosa viva. Nell’Elogio degli uccelli, quando sono lieti gli uccelli cantano […] i loro giochi di voce sono come gli uomini […] lieti la mattina. Questo canto è una specie di riso che percorre e anima».(24) E ancora:

Mentre gli uomini più hanno vita, più sono infelici, gli uccelli più hanno vita, più godono una quasi estatica felicità. Gli uccelli hanno una funzione cosmica. La natura li ama naturalmente ed essi amano la natura e la rendono lieta. Con gli uomini hanno un rapporto intimo. […] ridono, come gli uomini, che portano in cuore un lato uccellesco, sebbene quasi sempre offuscato. Gli uccelli vivono a metà strada fra la natura e l’uomo.(25)

La predilezione per il vitalismo e la musicalità ornitologici conducevano altresì Leopardi ad avvicinare le creature alate ai bambini, che, sempre secondo Citati, «gli sembravano uccelli che saltano, beccano, cantano: non stanno mai fermi…».(26)
D’altro canto Leopardi stesso, nello Zibaldone affermerà: «Quanto ho detto degli uccelli, dico pure de’ fanciulli in genere» (1725, 17 febbraio 1821). Ecco un altro ampliamento delle associazioni leopardiane, felicità, infanzia, sorriso, canto, ricordo, eterno, in una catena ondeggiante che tutto trascina in un flusso memoriale, in cui un ruolo espansivo rivestono i gerundi, veri gong poetici, anelli fonici elicoidali che dilatano magicamente la poesia volgendola a quella prospettiva di indefinito-infinito, sottolineata dall’uso frequente dei superlativi e dei plurali al posto del singolare. Insomma dal versante scritto la poesia deborda su una scena fonica da percepire come visione poetica integrale. Spesso l’immagine visiva è prevalentemente percezione della luce reale o immaginaria, (scintillanti, luci, chiaror delle nevi, raggio delle stelle) e il mirare del poeta è un guardare sorridendo, sgranare il sorriso alla vita come giovinezza che appunto sorride. Così la memoria autobiografica leopardiana si aggancia a un dato sensoriale (in obbedienza alla sua tesi “materialistica” della felicità) prevalentemente sonoro e visivo, come ricordo e sorriso alla luce, pur senza trascurare una componente olfattiva che si riveste di morbida e sensuale fascinazione. La rievocazione incantata raggiunge vertici di lirismo in quello “splendea”, intenzionalmente ripetuto: colata di sole in cui la vita appare come oro liquido degli occhi femminili grazie anche al vocalicissimo dittongo finale. Anche in A Silvia leggiamo: “Mirava il ciel seren, le vie dorate e gli orti…”. Di sicuro è proprio grazie a questo recupero della vita per frammento sonori e schegge di luce sorridenti, che Leopardi riesce a compiere una operazione autenticamente di salvezza, per se stesso e per il mondo.

 

ANALISI FONOSIMBOLICA

Esempio di questa semanticità sonora, i versi 12-17, costituiti da una trama fonica che si sovrappone auralmente alla forma semantica. Vi compare la dominante leopardiana, de Le ricordanze in particolare, dell’ondeggiamento, l’ondivagare e l’abbandono confidente al flusso mnestico che sembra riprodurre lo spazio paesaggistico marchigiano. Infatti quell’ondulazione collinare, mansueto conforto visivo da lui trascritto in musica, era del tutto connaturata alla sua anima, traccia visiva di un consolante dondolamento sonoro e forma fisica della sua poesia. Penso alla nasalizzazione consonantica con ben 323 N, ai 12 gerundi che di per sé creano onde foniche e che uniti sette volte all’avverbio quando, fanno sì che ritorni per 19 volte il suono –ando, (o –endo) vera musica del pensiero nel riverbero fonico nasale. Tra l’altro è proprio da due gerundi (mirando, ascoltando) che investono vista e udito, che muove l’affabulazione acustico-visiva, che si sviluppa proprio grazie a questi generatori sonori di immagini che trovano le loro rispondenze nel susurrando del v. 15 e nel richiamo allitterante in canto del v. 12 e vento del v.15. Il verso 12 nell’alternanza di N e L irradia l’ipnotismo fonicomemoriale che impronta i versi successivi, disegnando una spirale attraverso il movimento ascensionale della nasale che scivola nella ciclicità fonica della consonante liquida, per cui sembra davvero di intravedere una trascrizione acustica del paesaggio recanatese, come in filigrana, disegno sonoro sovraimpresso allo specifico scorcio visivo-acustico dei versi. Per inciso si noti che i dieci gerundi presenti nella poesia sono intimamente connessi ai momenti più rievocativi, siglano la musica del ricordo imprimendo al viaggio memoriale quella peculiare circolarità fonica che caratterizza la rimembranza leopardiana. Tuttavia l’incipit del v. 12, quel mirando, ci porta ad aprire una parentesi sull’importanza di questa consonante bilabiale nel testo, il più intimo dei suoni; difatti la emme ritorna 168 volte, di cui 53 in composti di pronomi e aggettivi personali, me, mio, ecc.., ma 115 volte in parole vere e proprie e 12 in forma raddoppiata. Significativo che Leopardi, pur avendo intitolato il suo Canto, Le ricordanze, usi questo termine solo una volta e al singolare (v.140) e gli preferisca proprio quella rimembranza, (che ritorna per quattro volte), non solo più aulica ed arcaica, ma carica di profonde e viscerali risonanze. Infatti tale vocabolo contiene ben due di quelle –emme che si intensificano a contatto con la vitalità ripetuta del gruppo consonantico –br e sono precedute proprio da quella –r, vibrante alveolare che, in chiave di interpretazione della consonante come UR simboli, rappresenta la reiterazione di un atto nel tempo.(27) Il concetto di ricordo si riflette esattamente in questo termine in quanto affonda le radici nella profonda affettività personale e si caratterizza per la sua ricorrenza nel nostro sentire, più o meno consapevole. Lo stesso principio proustiano della memoria involontaria, nonché le ricerche in tal senso della psicoanalisi e della psicologia del profondo, ci dimostrano il radicamento della memoria negli abissi dell’essere e il suo emergere, vibrante di affetti, con frequenza ciclica. Una conferma, in qualche modo, dell’aderenza assoluta in Leopardi della parola alla cosa, della risoluzione totale e perfetta che solo la grande poesia riesce ad attuare tra idea e sua forma fonica, della semanticità originaria dei suoni; tra l’altro egli prediligeva questo termine peregrino che figura in numerosi suoi componimenti. Il fluire dei versi è accentuato dagli enjambements dei vv. 12, 14 e 15 e da una sorta di sinalefe a cavallo dei versi tra il 14 e il 17, con quel gioco vocalico tra A-E, I-E, O-I, che situa i versi in un perpetuum musicale. Il tracciato fonico si evidenzia anche nella sequenza di voci allitteranti tra aiuole-viali e viali-vento con rispondenze incrociate, una di tipo vocalico tra le E di aiuole e vento e due consonantiche tra le V di vento e viali e le L di aiuole e viali. A parte il verbo al passato chiaramente evocativo del ricordo del v. 15 (errava), la composizione procede per accenni circuitanti (rana-lucciole; siepi-aiuole).

Mirando il cielo ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna,
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l’aiuole susurrando al vento
I viali odorati ed i cipressi
Là nella selva…

Aprendo una parentesi all’interno della disamina fonosimbolica di questi versi, avverto l’esigenza di far risuonare la voce attenta e sensibile di Francesco Flora che proprio sulla prima strofa si è pronunciato così:

Una sovrumana armonia di trasparenze si fa in queste parole, che dicono già il tono
fondamentale di questo canto delle memorie. E se la voce indugia sulle sillabe mimetiche del verso della rana, sentiamo in esse diffuso quel notturno gracidare, e l’umido del limo su cui le piccole creature si posano e una vaghezza di distanza che il ritmo delle sillabe crea. E se il gracidare è detto canto ciò avviene per quel perenne tramutare dell’impressione in una parola ferma (il meno mimetica possibile) in cui consiste tanta parte della virtù linguistica del Leopardi. E del resto, con procedimento non diverso, il poeta dice suono il rumore. E quando il verso evoca la lucciola, quel fugace palpitare di lucciole sulla siepe, risponde come in un segreto rapporto, al brividante lume delle “vaghe stelle”.(28)

Nonostante la lontananza temporale che ci separa dalla critica del Flora, non si può non riconoscere come egli abbia colto in questi versi l’alchimia poetica leopardiana, l’auscultazione attenta della trama linguistica, i segreti richiami e le magiche vibrazioni. Tornando all’analisi puntuale, nel verso “e in su l’aiuole susurrando al vento” è da notare che, musicalmente, la parola aiuole equivale a una scala cromatica ascendente (come su un pentagramma immaginario), un’introduzione alla
serie di accordi trattenuti del susurrando, dove l’allitterazione alza il tono in un continuum musicale che ha il suo vertice nel vento espanso nei viali per cui il librarsi della lucciola passa per sinestesia nel vocalissimo profumo sonoro di quegli odorati che suscita quasi una prospettiva di infinito nei “suoni” della memoria. Curioso come l’atmosfera dell’idillio accentui la caratteristica scura delle vocali di “rana”, una A aperta e misteriosa che accoglie il verso protrattosi nel rimota e ancora in campagna caricandole di un’ulteriore valenza notturna. Interessante intanto la sequenza di vocali scure del terzo verso con il prevalere delle U e della vocale chiusa di lucciola che, oltre all’impronta musicale notturna, crea come una specie di bilanciamento sul versante della profondità alle ripetute presenze del “su” che sostiene il verso in un innalzamento anche timbrico che sembra prolungarsi insistendo nella doppia esse del verso 16 fino a stemperarsi nella selva del v. 18; e le L dello stesso verso 15 sembrano allungarsi sulle velari di vento e dei viali del v. 16, espandendo lo spazio. L’amplificazione generata dalla L, peraltro deborda sulla velare V verso le distanze arcane del bosco, la cui presenza è già come preannunciata dal quel brivido sonoro dei cipressi. Ma forse questo slancio era stato già anticipato da siepi in cui l’inconscio del grecista Leopardi con quel “su” (epì = su) sembra alludere all’avverbio che in greco indica l’ascendere.
Inoltre le 17 –I– presenti in questi cinque versi intensificano lo slancio direzionale del volo poetico. Tra l’altro il sibilo misterico della esse serpeggia per tutto il canto, complice suono memoriale, ritornando come frequenza per 248 volte, con ben 23 parole contenenti doppia S. Eccezionale la concentrazione dei raddoppiamenti consonantici, ben tre nel v. 14 ma che si protraggono anche nei vv. 15-16. Sempre nel v. 14, la presenza di quattro L alludono volo delle lucciole mentre i raddoppiamenti consonantici sono l’equivalente fonico del loro pulsare, come una condensazione di luce, rappresentata dalla intensificazione del suono raddoppiato ben tre volte in un verso, con la complicità del frusciare notturno di quelle tre S. Il volteggiare di questi piccoli fuochi volanti è già reso fonicamente dalle prime tre parole “e la lucciola” (v.14) che annuncia la sua epifania, in un gioco sonoro tra la L e le vocali A, E, quest’ultima sconfinando nell’iniziale di errava, come in “e in”, fino alla I che apre il verso 16. Il riverbero inoltre è come allargato dalle A a fine parola e inizio di quella
successiva nella zona centrale dei vv. 13 e 14. Vi è quasi una sovrapposizione fonica o di gemellaggio animale tra le due piccole creature del tenero bestiario minimalistico leopardiano; il canto della rana, siglato con la cifra onomatopeica della doppia R, perdura per ben quattro versi, come imprinting musicale intersecandosi in dualità fonico-visiva nell’errava e nel susurrando, in cui l’aver espunto una S modula ancor più soavemente il suono del vento.
La liquidità del verso è accentuata dalla presenza vocalica, dalla E iniziale che si inanella nelle due parole centrali del verso 14, tutte comincianti per vocale, errava, appo, che continua nel verso 15, (sempre iniziante per E) con aiuole, parola esclusivamente vocalica, una sorta di record di massima espansione sonora, che dilata la luce delle lucciole, solo grazie ai suoni, vera traduzione musicale di un dato visivo e memoriale. Nel testo intero questa consonante emblematica ritorna 304 volte e 98 volte la L è contenuta in articoli e preposizioni articolate; 45 volte ritorna il raddoppiamento consonantico –LL– anche se spesso inserito in preposizioni articolate e in pronomi o aggettivi determinativi, (quello, ecc.). Si origina egualmente una rete fonica di liquidità, di particolare scorrimento, di altalenanza ondulatoria, come le colline marchigiane, per cui l’uso talora esornativo delle preposizioni articolate e dei dimostrativi sembra obbedire a segrete ragioni musicali di puro canto oltre a delineare quasi una melodia del paesaggio.
Inoltre a rafforzare questa quiete fluida osserviamo come per tre volte torna la parola dolce e tre la parola dolcezza, con quell’ampliamento interno dell’assaporare il piacere nell’ondeggiamento della elle, che risulta la consonante principale, generativa di quel fiume altalenante di ricordi in cui scorrono Le ricordanze. E anche questa parola, carica di affettiva confidenza ricorre nella poesia leopardiana, di cui andrebbe stilata una puntuale lessicologia degli affetti che metta in risalto la loro strutturale presenza. In conclusione, ad accentuare, il propagarsi del flusso sonoro sottolineerei la presenza della velare V per 102 volte, di cui 32 addirittura ad inizio parola a potenziare lo “scivolamento” fonico del canto. E che sia il canto della vita e della sua vita, è attestato anche dall’insistente presenza della parola vita (8 volte), viver (2 volte), frequenza non giustificabile se non in questa dichiarata centralità biografica o meglio “biofonica”.
Tutta la dimensione infantile leopardiana e gli spazi psico-fisici dei suoi ricordi, sono resi in modo del tutto musicale oltre che visivo, come questo esempio specifico, secondo me, dimostra in modo particolare. La percezione sinestetica si rivela la totalizzante modalità di restituire il reale, di percorrere le stanze del tempo, di celebrare il mondo e il “suo” mondo, di corteggiare l’infinito come di degustare la vita attraverso convergenze sensoriali che si sprigionano più che altrove a Recanati, il luogo dei luoghi, omphalos amato-odiato. Quella leopardiana si potrebbe definire un’onirografia memoriale che giunge a una ri-creazione totale della sua esistenza, attraverso una mistica della memoria, tanto che, secondo Citati, «il vero ricordo non conosce la nostalgia, ma è identità, resurrezione, felicità».(29)

Gabriella Cinti

19 PIETRO CITATI, Leopardi, cit., p. 107.
20 Ivi, p. 114.
21 Ivi, p. 134.
22 ANTONIO PRETE, Il pensiero poetante, cit. p. 196.
23 GIOVANNI GETTO, Saggi leopardiani, cit., p.103.
24 PIETRO CITATI, Leopardi, cit., p. 270.
25 Ivi, p. 272.
26 Ivi, p. 330.
27 TULLIO RIZZINI, L’origine delle idee e delle parole ovvero Il codice linguistico primitivo, Roma, Edizioni Scientifiche MaGi, 2007.
28 FRANCESCO FLORA, Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1947, p. 175.
29 PIETRO CITATI, Leopardi, cit., p. 365.

 

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