Alda Merini, “il sogno di una prigioniera”, di Giovanni Caserta (prima parte)

Alda-Merini-300x226Pubblichiamo, di Giovanni Caserta, un testo su Alda Merini, risalente al 1992, quando la Merini, dopo i successi giovanili, era una perfetta sconosciuta e sembrava essersene perse le tracce. Giovanni Caserta la trovò quasi esule a Taranto. E così ne scrisse

 

1) Il rifugio tarantino

            Alda Merini, dopo la morte del suo compagno, il poeta e medico tarantino Michele Pierri, è ritornata nella sua Milano. Nella sua città sta conoscendo finalmente il successo letterario, consacrato da quotidiani e riviste di grande tiratura e prestigio nazionale. La fama e i riconoscimenti sono arrivati anche attraverso i manuali di storia della letteratura italiana ad uso delle scuole. Il quarto volume della recente storia della letteratura italiana a cura di Cesare Segre, dedicato al Novecento, per fare un esempio, ha un posto dedicato ad Alda Merini, ma ignora Rocco Scotellaro e Ferdinando Camon.

            Negli anni scorsi, e per la precisione nel 1987, conoscemmo Alda Merini, quando era del tutto dimenticata e cercava pace nel lontano rifugio tarantino, dove aveva trovato, in Michele Pierri, l’amico, l’innamorato e il medico curante. La Regione Puglia, d’intesa col Sindacato Nazionale Scrittori, organizzando una serie d’incontri tra poeti, studenti e critici, mi affidò, in quell’anno, l’incarico di presentare Alda Merini in un Liceo classico di Taranto. Di Alda Merini e della sua opera non conoscevo nulla. Mi misi perciò alla ricerca di qualche notizia; le opere me le offrì la stessa Regione Puglia.

            Già le vicende della vita della poetessa mi affascinarono; ma ancor di più mi affascinò la sua opera. Scrissi e dichiarai allora, alla presenza della Merini e dei giovani che mi ascoltavano, che era un’ingiustizia che una così intensa poetessa non fosse nel numero dei grandi della letteratura italiana del Novecento; aggiunsi anche che il tempo, che è il miglior giudice e il miglior critico, prima o poi avrebbe reso giustizia ad Alda Merini e alla sua poesia. Quel tempo è oggi arrivato; forse un po’ tardi, ma è arrivato.

2) Una poetessa prodigio

           Non che Alda Merini sia solo da poco entrata nel mondo delle lettere. Anzi cominciò giovanissima, impressionando per la sua precocità e qualificandosi quale grande promessa della giovane poesia dell’immediato dopoguerra. Ebbe allora il suo rapido momento di gloria. Fu un giovane critico tarantino, Giacinto Spagnoletti, ad imporla all’attenzione dei letterati nazionali. Il suo nome, perciò, già nel 1951, figurava in una raccolta antologica (Poetesse del Novecento), che, pubblicata presso l’editore Scheiwiller, era curata da Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani.     Nel 1953, nella collana “Campionario”, veniva pubblicata la sua prima raccolta poetica. La collana era diretta dal già citato Giacinto Spagnoletti, per conto dell’editore Schwarz; il volume portava il titolo di La presenza di Orfeo. Seguirono Paura di Dio (Scheiwiller, 1955) e Nozze romane (Schwarz, 1955). Il nome della Merini figurava quindi in un’altra antologia di poeti contemporanei, che, curata da Salvatore Quasimodo, portava il titolo di Poesia italiana del dopoguerra (Schwarz, 1958). Seguiva l’antologia Poesia italiana contemporanea -1909-1959 (Guanda, 1959), curata da Giacinto Spagnoletti.  

            Poi venne il silenzio di circa vent’anni, finché, spinta dai nuovi amici tarantini, che affettuosi le si erano stretti intorno, la Merini tornava alla poesia con le Satire della Ripa (Taranto, Laboratorio Arti Visive, 1983) e con Terra santa e altre poesie (Manduria, Lacaita,1984), curata dal sempre presente Giacinto Spagnoletti. Nel settembre 1983, su “Alfabeta”, appariva anche il drammatico scritto in prosa (Diario di una diversa ), dedicato alla sua terribile esperienza di internata nel manicomio di Affori. Recentemente, nel 1991, ha pubblicato, per i tipi di Einaudi, Torino, Vuoto d’amore.

 3) Gli anni della formazione

           La vicenda umana e poetica di Alda Merini comincia a Milano, dove, era nata nel 1931. Come per tutti i poeti, le esperienze che più contano nella sua vita e nella sua opera sono legate alla sua infanzia, vissuta nella estrema miseria di Ripa Ticinese, in una casa fredda e squallida. Per le disagiate condizioni della sua famiglia, non le fu consentito di fare studi regolari. Infatti, ciò che Alda Merini imparò, lo imparò attraverso letture personali, scegliendo soprattutto tra i poeti contemporanei, italiani e stranieri. Fra questi ultimi, le sue preferenze andarono soprattutto a Rilke. Secondo Giacinto Spagnoletti, non conobbe i classici e, tra questi, nemmeno la Divina Commedia.

            Ragazza povera, era però dotata di una accentuata sensibilità, che le urgeva dentro e le dava uno straordinario bisogno di esprimersi, uscire fuori di sé stessa e trovare un raccordo con gli altri. Questo sconfinato desiderio del contatto e della comprensione umana è l’amore, che ella sentiva per tutta l’umanità, indistintamente. “Tu non amerai mai un uomo – le confidò una volta Quasimodo -, perché tu ami tutti”. Dice di sé stessa Alda Merini, in una nota autobiografica che si legge in Diario di una diversa: ” La mia mente ammalata è come una enorme massa informe che aspetta disperatamente il demiurgo, qualcuno che vi metta ordine; è una mente capace di amore infinito, che però nessuno raccoglie. Ogni mattina, destandomi, mi domando come passerò la giornata, con quale forza potrò ancora combattere la solitudine. Ma se penso alla morte allora mi smemoro di tutto e penso, disperatamente penso che la vita, una volta spopolata dei pigmei che la popolano, della gente sanguisuga che vi opera, potrebbe essere sostanzialmente bella e pertanto accettabile. Forse il mio scrivere è delirio; certamente è bisogno di essere accettati, compresi, soprattutto salvati dalla voragine della nevrosi e da quelle sfaccettature interiori, quel plauso segreto che ti dài quotidianamente e che non è che lo specchietto per allodole, che ti conduce inevitabilmente alla morte”.

            A questa eccezionale sensibilità, però – come si diceva -, non corrispondeva una adeguata cultura, secondo quel che per cultura normalmente s’intende. Né c’era il sostegno di una scuola o di una organizzazione o di un movimento culturale che la raccogliessero e la convogliassero verso un rapporto costruttivo con la società e con il mondo in genere. Di qui una sorta di iato fra un mondo prepotente e urgente da una parte, e una sorta di ansia espressiva dall’altra, che afferrava alla gola e dava un senso di soffocamento e, quindi, di angoscia. Così, mentre il cuore le dettava altissimi versi, la Merini era costretta a svolgere l’umile attività di dattilografa in casa, a disposizione di liberi professionisti e studenti alle prese con tesi di laurea, da battere a macchina…

            Ne derivava una tensione continua, al confine con il delirio, di cui parla la stessa Merini e che qualcuno già chiamava follia. Invece era soltanto incapacità o impossibilità di seguire i moti del proprio cuore, di rapportarsi agli altri, di amare ed essere amata. Poteva diventare anche incapacità di dare ordine alle cose e di capire l’ordine delle cose. Né ciò era ed è un fatto eccezionale nella spiritualità del nostro secolo.

4) Il vento, il cielo, la luce, il verde

             Questo può spiegare, per altro verso, l’ansia della luce, del cielo e del vento, così spesso circolante o generalmente sottesa alla poesia della Merini: “Ogni mattina il mio stelo vorrebbe levarsi nel vento / soffiata ebrietudine di vita, / ma qualcosa lo tiene a terra, / una lunga pesante catena d’angoscia / che non si dissolve”. Oppure: “Se solo potessi / toccar con dita tremule la luce / quella gagliarda che ci sboccia in seno / corpo astrale del nostro viver solo / pur rimanendo pietra, inizio, sponda / tangibile agli dèi…”. O ancora: “I miei versi sono polvere chiusa / di un mio tormento d’amore, / ma fuori l’aria è corretta, mutevole e dolce ed il sole / ti parla di care promesse, / così quando scrivo / chino il capo nella polvere / e anelo il vento, il sole, / e la mia pelle di donna / contro la pelle di un uomo”.

            Un giorno – racconta la stessa Merini -, stanca di una vita frantumata tra versi, lezioni private e sofferenze di madre e di moglie, ci fu il crollo. Poteva essere ed era qualcosa di momentaneo e di accidentale; ma il ricovero in una casa di cura, cioè in un manicomio, fu l’inizio di una lunga e tragica esperienza di reclusa e di “pazza”, che si protrasse per dieci anni, dal 1962 al 1972. Nel manicomio, tuttavia, Alda Merini continuava a mantenere la sua incantata e divina lucidità intellettuale. L’esperienza della reclusione, tutt’al più, fu la conferma del distacco e della distanza che c’era tra lei e gli altri. Fu, in altre parole, la materializzazione del suo dramma di esclusa rispetto alla vita, e di “diversa” rispetto ai “normali”. Era una situazione decisamente kafkiana, che fa rimbalzare alla mente un altro poeta del Novecento. Si vuol dire di Dino Campana.

            E non c’è niente di più tormentoso che il sentirsi uguali ed essere guardati e giudicati come diversi. Lo testimoniano le lucide e poetiche pagine del Diario di una reclusa. Unica soluzione e salvezza è, allora, il rifugio in sé stessi e la ricerca della propria autenticità e identità. C’è l’autoanalisi. “Così come nel Processo di Kafka – scrive la Merini -, ogni giorno noi facevamo il processo a noi stessi, e tanto più urgente e invadente diventava la nostra requisitoria quanto più dentro ci avevano insegnato ad essere spietati. Ma io avevo alle spalle la psicanalisi con le sue dolcezze, i suoi segreti infantili. E quella mi servì nei momenti di ozio, per analizzarmi, salvarmi”.

 

 

1 commento
  1. Il dramma di Alda Merini trascina con totale immedesimazione nell’intimo stesso di questa bella creatura imprigionata a lungo dietro le sbarre di una gabbia e da tale immedesimazione si ricava un proverbio simbolico: Alda Merini è la capinera che funge da richiamo per il dolore umano, che spesso, non per sua scelta, si accorge di essere barricato nella prigione dell’esistere e vi sbatte dentro le ali con rassegnata insicurezza. Non sono le sbarre che passano bensì lei, che aggrappandosi ad esse, le vede come se scorressero l’una dietro all’altra sul ritmo di un volo monco dove il suo destino di prigioniera però non potrà mai cancellare del tutto la voce immortale della sofferenza e ricordarci il suo potere salvifico messo in versi.

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