
Angelo Maria Ripellino, Palermo, 4 dicembre1923 – Roma, 21 aprile 1978
Illustre slavista, critico teatrale dell’ Espresso, autore di prose tra il romanzo e il saggio, Angelo Maria Ripellino poeta esige una considerazione che, pur non potendo prescindere da questa sua varia attività, penetri in profondità le caratteristiche peculiari della sua originale elaborazione di significanti e significati. Del resto se, come appare ovvio, non possono mancare punti di contatto tra il saggista e il poeta, è poi anche vero che può esserci una sorta di antagonismo: ” Per anni e anni ho scritto e stracciato poesie, vergognandomi di scrivere. Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegarono sempre in una precisa dimensione, in un ranch, da cui m’era rigorosamente vietato di evadere“. La citazione ci avvia anche a comprendere la ragione della maturità della non precoce raccolta d’esordio, Non un giorno ma adesso (1960), dove – a parte una minore densità di linguaggio, una musicalità più facile e piana – sono già reperibili le linee portanti del discorso poetico di Ripellino: la riflessione sulla fragilità della vita intaccata dalla malattia e il potere salvifico della poesia, a cui è affidato il compito di esorcizzare la morte, continuamente revocato in dubbio e sempre risorgente. Ma è con le tre raccolte successive che si entra nel nucleo più compatto (anche da un punto di vista cronologico non c’è quasi soluzione di continuità) della poesia di Ripellino: La fortezza d’Alvernia (1967), Notizie dal diluvio (1969) e Sinfonietta (1972). Non ci sono sensibili spostamenti dell’oggetto dell’indagine poetica, ma l’aggressione linguistica si fa violenta, e lo stratificarsi espressivo di aree semantiche diversissime dà origine ad una straordinaria complessità. Elementi entrano in relazione con termini di provenienza slava, con altri desunti dall’attualità, dando luogo ad un impasto linguistico irripetibile. Versi come: Truncioli truci di tralci intrecciano croci” sono forse un caso limite, ma non un’eccezione. Per il titolo, Notizie dal diluvio può essere avvicinato alle poesie Il diluvio e Il segnale del diluvio del ceco Halas, che Ripellino ha fatto conoscere in Italia; ma è comunque certo il riferimento all’invasione della Cecoslovacchia nel ’68: il dolore individuale diviene dolore collettivo di una nazione che per il poeta è una seconda patria. In Notizie dal diluvio e Sinfonietta (il titolo rimanda ancora a Janàcek), che formano corpo unico, continua il gioco dei bisticci sillabici, e ormai non ci stupiamo di trovare versi che sembrano un concentrato di retorica, come ” folli ofelie feline ofelie folli“, o che il violino della poesia d’apertura sia prima violaceo e poi svilito, o ancora che gli alibi della seconda siano abili. L’ultimo tempo della poesia di Ripellino è costituito da due raccolte: Lo splendido violino verde (1976) e Autunnale barocco (1977). I titoli sono molto significativi ed evidenziano, nella prima, lo strumento virtuosistico e funambolico per eccellenza, che sebbene tarlato e tartassato continua a far sentire la sua voce; nella seconda, la disposizione barocca della scrittura di Ripellino, ma – appunto – di un barocco autunnale, in cui concetti e metafore convergono verso l’inesorabile avvicinarsi della fine e del silenzio, o all’opposto tentano disperatamente di travestirlo e di dimenticarlo.
Davide Puccini
Vorrei che tu fossi felice, cipollina, vorrei
che tu non conoscessi il cane nero della sventura,
quando sarai uscito dal blu dell’infanzia.
Vorrei che tu non debba portare bazooka,
che non debba tremare nel folto di un bombardamento
che tu non debba pagare per le mie colpe
né vergognarti di me, del mio cicaleccio
e dei miei vani versi e della mia professura.
Vorrei che tu non fossi mai gramo o malato
o maldestro come Scardanelli,
vorrei vivere nella tua voce, nei tuoi gesti, nei tuoi occhi
anche quando mi avrai dimenticato.
(da Notizie dal Diluvio)
Un giorno sarai abbandonato,
come un riccio sull’orlo di una strada campestre.
Andrai qualche volta in cucina,
a chieder molliche
alla loro arroganza, umiliato.
Sei zavorra, sei molesto,
con quelle spine spuntate inutili,
sei cosa da regalare alle ortiche,
da mettere in un vecchio cesto,
da coprire di sputi.
*
Questo oleandro già pronto a sfiorire mi svela
che il mondo si sbriciola a guardarlo troppo.
Meglio ignorare l’indifferente natura, la gelida,
che puntarvi addosso lo sguardo come il malocchio.
Ogni cosa è imbrattata di ciglia di estranei,
e le nostre pupille curiose ne affrettano
la muffa, lo sfarinìo di farfalla, il dissesto,
il mesto giallore da Presto Giovanni
insomma l’ingresso nel Buio Pesto.
Lo sguardo denuda lo sfarzo mendace del creato,
straccia gli involucri bagattellieri, e l’immagine
non resiste alla nostra inquisizione oculare,
ma il giuoco è reciproco, tu pure sei fragile
e polvere, se ti osserva un oleandro.
(da Sinfonietta)
Verdi trecce di capelli piovosi si spandono
Su questa lunga domenica vegetaliforme,
su questo celtico intreccio di rovesci e spruzzaglie.
Si rammarica il gatto Merlino, il batuffolo
impigliato in una camicia di latte e di nebbia.
Yellow sferruzza, assopita dal tedio insulare.
Sono strisciate di allume e metallo le strade corvine:
i solchi spinosi delle auto si allacciano
in molli entrelacs, in fasce ondeggianti.
Tutti gli amici riposano, stanchi, colmando
il mio universo di comici ronfi che spaurano
la gracile luce dei verdi capelli, la maliziosa
femmina pioggia, baldracca delle domeniche.
(da Lo splendido violino verde)
Volare via da me stesso
come un uccello migratore,
da questo roveto, da questo malessere,
da questo perenne dolore.
(da Autunnale barocco)