
Alfonso Gatto, Salerno, 17 luglio 1909 – Orbetello, 8 marzo 1976
La biografia di Alfonso Gatto è quella del migrante di una città del Sud, dalla Salerno degli anni venti del secolo scorso alla Roma degli anni settanta, costretto, come tanti intellettuali del meridione, a convergere in città e luoghi del Nord, a Milano e Firenze innanzitutto, che offrivano maggiori opportunità di vita e sollecitazioni culturali. Un migrante poeta, con la valigia sempre pronta, soggetto a viaggiare e trasferirsi continuamente, esplicando, per vivere, molteplici attività, di cui di particolare impegno quelle di critico e di giornalista. Sarebbe opportuna una organica ricognizione critica della sua opera diffusa in tante riviste, essenziale contributo alla conoscenza della dialettica culturale del suo tempo. Praticò anche l’arte pittorica e un intreccio tra il segno pittorico e le poesie viene testimoniato dalle cento tempere che accompagnano le “Rime di Viaggio per la terra dipinta” momento in cui i due linguaggi si commentano ed integrano reciprocamente. Una rassegna della sua produzione pittorica sarebbe auspicabile anche come essenziale documentazione per la interpretazione delle sue opere. La percezione del colore, della forma delle cose, della luce e delle ombre costituiscono, infatti, la genesi e la specifica caratteristica della poesia di A. Gatto. Una esistenza difficile quella di Alfonso Gatto, irrequieta e conflittuale, anche con se stesso. Già nel 1926 si era trasferito a Napoli per frequentare la facoltà di lettere all’Università, (che disertò negli ultimi corsi), impegnandosi, per vivere, in diversi lavori, “intervallati da lunghi periodi di disoccupazione”: (da istitutore a correttore di bozze, commesso di libri, aspirante poeta). Aveva pubblicato (1932), con l’aiuto economico di Muscetta ed altri amici “Isola”. Nel 1934 si trova a Milano ove frequenta il gruppo degli architetti di Casabella, rivista in cui redige la rubrica “Cronaca dell’architettura”. Un clima culturale animato da Persico, Giolli, Pagano che esercitò quel ruolo fondamentale di rinnovamento, che “sul giovane critico e poeta Gatto sembra consistere nella rifrazione di una coscienza politica e di una lezione di stile, espressioni da cogliersi entrambe nella più dilatata globalità delle loro accezione semantiche e storiche, che permettessero il superamento di ogni diaframma ontologico tra l’uomo e le cose, tra l’uomo e la storia.” (Francesco D’Episcopio – Riscontro I , IV – Sabatia Editrice). Intesse amicizie con artisti e letterati fra cui Quasimodo, Sinisgalli, Zavattini Vigorelli, Sereni. A Milano disagi e vita difficile: lavori precari e difficoltà economiche. Nell’estate del 1936, con l’accusa di cospirazione comunista, fu arrestato e nel carcere di San Vittore vi rimase fino al Natale di quell’anno. Nel 1937 pubblica “Morto ai paesi”. Si trasferisce a Firenze (1938) ove ottiene un impiego presso “La Nazione”; l’incontro con Vasco Pratolini e collaborazione a “Campo di Marte”, “quindicinale di azione letteraria ed artistica” che in un solo anno di vita (1- agosto 1938-1 luglio 1939) svolse un’azione di rottura degli angusti schemi diffusi, di denuncia e di rinnovamento della letteratura, accogliendo fra le sue pagine le posizioni dell’ermetismo (Bo, Luzi, Montale, Sinisgalli, Sereni, Ferrata, Quasimodo) e aprendosi alla cultura europea (Mallarmé, Valéry, Rimbaud, Eliot Poe, Puskin). Fu “l’incontro del”mondo materiale” di Pratolini e del “mondo irrazionale dei sogni” di Gatto, le due facce del neorealismo e dello spiritualismo in un foglio tutt’altro che “concorde” o tipicamente letterario, che trovano, “dentro il quotidiano in forma alta, non provinciale, il discorso di Bo, che dai dati della crisi morale intende uscire sfruttando le possibilità della parola.” (Francesco S. Festa –Riscontri -1, – 4 ). Per “chiara fama” è nominato nel ’41-’42 professore di lettere italiane al liceo artistico di Bologna. Nel 1943 ritorna “all’amatissima Milano”, ove con l’attività di giornalista si assicura quel minimo di condizione economica indispensabile per dedicarsi alla poesia, alla letteratura, all’arte e all’impegno civile e politico, al dibattito culturale sulle maggiori riviste del tempo. Partecipa alla Resistenza e prende parte alle polemiche fra intellettuali e partito comunista. Incontra Graziana Pentich, una giovane pittrice, che “lo seguirà negli innumerevoli spostamenti e traslochi a tutto il decennio ’60”. Nel ’46 fu a Venezia come redattore capo del giornale “Il Mattino del popolo”. Nel ’47 “l’Unità” lo vuole a Torino. Nel ’49 nuovamente a Milano e qui, nel ’51, rompe con il PCI. Collabora con “Epoca” e viaggia attraverso l’Italia, scrive cronache ispirate dalla disastrosa alluvione del 1954 di Salerno, collabora a “Tempo Presente”, un periodico della sinistra democratica. Quando nel 57 rompe con “Epoca”, parte per Roma, ove si trasferì definitivamente nell’autunno del 1961, dopo l’ultimo periodo fiorentino (58-61) E’ il periodo di vicende dolorose (la morte della madre Erminia Arbirosa, del suo secondogenito Graziano), di inquietudini, di ritorni tra gli amici a Salerno e nei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza. Ed anche di ricca produzione artistica, di rifacimenti, di nuovi progetti e nuove pubblicazioni. Ultimo alloggio è in via Margutta, ultimo amore Paola Minucci. In seguito ad un incidente stradale, nei pressi di Capalbio, Alfonso Gatto muore nell’ospedale di Orbetello. Il 6 giugno del 76, a Roma, il figlio Leone Pentich Gatto si toglie la vita. Una vita difficile, dunque, quella di Alfonso Gatto. Una testimonianza di impegno civile, di umanità, di attaccamento alla sua Salerno e i luoghi della memoria, degli affetti e dell’amore, motivi persistenti della sua poesia, insieme a quelli dell’alienazione del “pover’uomo” e delle condizioni sociali, dello spettacolo meraviglioso della natura, della vita e della morte. Partecipò alla Resistenza e alla formazione di una nuova coscienza civile e politica. La sua attività poetica si caratterizza per una ricerca continua, tesa a raggiungere una sintesi armonica tra Poesia e Vita. Tensione persistente in ogni fase della creatività, nel linguaggio, nella struttura, nelle motivazioni. Le caratteristiche e i colori di ambienti, paesaggi, cose vengono colti e descritti con i colori e lo sguardo precipuo del pittore, l’armonia della parola poetica Scorre una vena di surrealismo ma con l’aggancio alla “realtà”, alla storia. Gatto stesso parlava del legame dialetticamente coerente tra “poesia” e “vita”. Le sue liriche presentano una salda struttura nella forma e una varietà di colori, di linee che richiamano la “smania del plasticare e del dipingere”. Egli scriveva: “Il mondo dobbiamo tutti toccarlo un’altra volta con le mani, coi piedi, con la testa, con tutto il corpo, annusarlo, guardarlo di scorcio e d’un balzo ferirlo.” Anche i numerosi rifacimenti da lui stesso operati nelle diverse edizioni delle sue opere dimostrano l’intimo suo carattere: la voglia continua di perfezionamento, di organizzare e mettere insieme nello stesso spazio tutto quello che possibilmente può intrecciarsi. Di qui i continui richiami, il gioco dei versi e delle risorse della rima, della ricerca delle parole e delle sperimentazioni formali dal decasillabo fino alla canzonetta. Il filo rosso che scorre è il profondo senso di umanità e di responsabilità morale. Il sigillo della fusione eccezionale fra esistenza e poesie è impresso da Montale sulla sua tomba, a Brignano, cimitero di Salerno, con la dedica: “Ad Alfonso Gatto / per cui vita e poesia / furono un’unica testimonianza / d’amore.”. Carlo Bo, nel Convegno di Studi dedicato dal comune di Salerno ad Alfonso Gatto (8 marzo 1986) così diede inizio alla sua prolusione “Uno dei poeti più vivi del nostro secolo, oggi non ricordato come sarebbe giusto, anzi trascurato, se non perduto nell’ambito delle ricognizioni e delle ricostruzioni della nostra poesia”. (Continua)
Si riportano due liriche: A mio padre da “Il capo sulla neve” de “La Storia delle Vittime”(1943-1947); Il Coprimulgo da “Osteria flegrea”(1954-1961).
A mio padre
Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranza di poveri di cielo,
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”. Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.
Alfonso Gatto
Caldi versi di filiale amore per la figura paterna, a distanza di anni, mitizzata e trasfigurata dal filtro della memoria. Una lirica carica di sentimenti di risonanza universale:dell’assenza,dell’amore, della speranza, della ineluttabilità della storia, che è soprattutto storia delle “vittime”.
Il Coprimulgo
Tornerà sempre l’ironia serena
del sortilegio sulle tue corolle,
fiore disfatto.
E tu che voli e piangi
stridendo con i tuoi grandi occhi oscuri,
o coprimulgo dalle piume molli’
il buio sempre ingoierà la notte
delle farfalle nere, le lucenti
blatte in cui l’uomo misero rattrae
le mani e gli occhi a rispettarle,
umane della pietà per sé.
Per la scala degli inferi discende
il consenso perenne, l’ordinata
congrega delle vittime plaudenti.
O misura dell’uomo in sé dipinto
costrutto oltre la morte, mummia salva
a schermo delle mani,
a non aver più limiti, distratta
è la forza latente, il bruco insonne
della materia che ci traccia e insegue.
Un fenomeno oscuro il divenire,
l’enfasi sorda che alle tue parole
non crede più, ma giura. Ancora scende
questa scala degli inferi e l’informe
che chiede un senso smania di figure.
Alfonso Gatto
La lirica, complessa ed elaborata nel contenuto e nella forma, evidenzia la capacità poetica del Gatto di tradurre in versi musicali visioni surreali e costruire immagini concrete, realistiche attraverso un linguaggio fortemente analogico. Il motivo è centrato sull’oscuro divenire (simbolo il Coprimulgo) di tutti gli esseri viventi (rappresentati dalle farfalle che vivono nell’aria e dalle blatte che strisciano nell’ombra). I fiori appassiti torneranno a rifiorire per la forza magica, incontenibile della natura, ironica e indifferente (l’ironia serena del sortilegio). Al perpetuo ciclo della morte e della vita è partecipe anche l’uomo che crede di vivere oltre la morte come mummia indistruttibile. E l’ordinata congrega delle vittime plaudenti, la massa informe consenziente degli esseri viventi, “che chiede un senso e smania di figure”, ancora e sempre scende nel mondo degli inferi.
Donato Antonio Barbarito
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.