Sette poesie di Cesare Pavese, nota di Lorenzo Mondo

CesarePavese

Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950

Cesare Pavese nasce poeta con la raccolta di Lavorare Stanca (1936). Subito colpisce la sua posizione eccentrica in un panorama segnato dalla elusività e ineffabilità del simbolismo, da una ricerca che batte sull’intensità metaforica e sulla purezza verbale. Pavese invece sceglie la strada di una poesia semplice e oggettiva che nomina le persone e le cose appartenenti al quotidiano, esalta le ruvidezze dialettali, si concede a lunghe e adagiate cadenze discorsive: le lasse di tredici sillabe de I mari del Sud. I punti di riferimento Pavese li trova nella sua stessa regione, nell’esperienza crepuscolare e segnatamente gozzaniana; ma questa propensione casalinga ai versi lunghi e quasi prosastici è rinforzata in lui dalla conoscenza della letteratura americana e in particolare di Whitman (al quale aveva dedicato la sua tesi di laurea): di lui potevano sedurlo il piglio realistico, la libertà lessicale, il discorso paratattico, la sentenziosità predicatoria fatta apposta per incontrarsi con certo moralismo pedemontano. La poesia di Pavese è solcata da appariscenti dicotomie, che sono anche continue oscillazioni. Il contrasto tra città e campagna (alla fine si tratterà di storia e mito) e la ricerca di una loro possibile integrazione là dove si confondono prati e suburbio. La solitudine come tara o virtù, ora esaltata quale segno di preziosa alterità, ora esorcizzata nella solidarietà con i “compagni”, nell’amore di una donna, che si evoca, con accesa sensualità, con trepida malinconia. Il silenzio che intercorre tra Lavorare stanca e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (uscita postuma nel 1951, ma la sezione La terra e la morte era già apparsa su rivista nel 1947) libera Pavese dalle residue preoccupazioni di poetica. E’ una continua variazione sul tema della donna innalzata a termine di paragone e di scambio con le voci, i sapori, i colori della terra e del mare. Il lungo verso prosastico si spezza per assumere il tono estatico e litaniante di una continua identificazione, di una incessante preghiera. Dominano le cadenze musicali, le declinazioni alcyonie, che travolgono la pur resistente diffidenza per le parole arcane, la fedeltà ai dati di fisica concretezza.

Lorenzo Mondo

 

LAVORARE STANCA

Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.

Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.

Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

 

LA VECCHIA UBRIACA

Piace pure alla vecchia distendersi al sole
e allargare le braccia. La vampa pesante
schiaccia il piccolo volto come schiaccia la terra.

Delle cose che bruciano non rimane che il sole.
L’uomo e il vino han tradito e consunto quelle ossa
stese brune nell’abito, ma la terra spaccata
ronza come una fiamma. Non occorre parola
non occorre rimpianto. Torna il giorno vibrante
che anche il corpo era giovane, più rovente del sole.

Nel ricordo compaiono le grandi colline
vive. e giovani come quel corpo, e lo sguardo dell’uomo
e l’asprezza del vino ritornano ansioso
desiderio: una vampa guizzava nel sangue
come il verde nell’erba. Per vigne e sentieri
si fa carne il ricordo. La vecchia, occhi chiusi,
gode immobile il cielo col suo corpo d’allora.

Nella terra spaccata batte un cuore più sano
come il petto robusto di un padre o di un uomo:
vi si stringe la guancia aggrinzita. Anche il padre,
anche l’uomo, son morti traditi. La carne
si è consunta anche in quelli. Né il calore dei fianchi
né l’asprezza del vino non li sveglia mai più.

Per le vigne distese la voce del sole
aspra e dolce susurra nel diafano incendio,
come l’aria tremasse. Trema l’erba d’intorno.
L’erba è giovane come la vampa del sole.
Sono giovani i morti nel vivace ricordo.

 

LA PUTTANA CONTADINA

La muraglia di fronte che acceca il cortile
ha sovente un riflesso di sole bambino
che ricorda la stalla. E la camera sfatta
e deserta al mattino quando il corpo si sveglia,
sa l’odore del primo profumo inesperto.
Fino il corpo, intrecciato al lenzuolo, è lo stesso
dei primi anni, che il cuore balzava scoprendo.

Ci si sveglia deserte al richiamo inoltrato
del mattino e riemerge nella greve penombra
l’abbandono di un altro risveglio: la stalla
dell’infanzia e la greve stanchezza del sole
caloroso sugli usci indolenti. Un profumo
impregnava leggero il sudore consueto
dei capelli, e le bestie annusavano. Il corpo
si godeva furtivo la carezza del sole
insinuante e pacata come fosse un contatto.

L’abbandono del letto attutisce le membra
stese giovani e tozze, come ancora bambine.
La bambina inesperta annusava il sentore
del tabacco e del fieno e tremava al contatto
fuggitivo dell’uomo: le piaceva giocare.
Qualche volta giocava distesa con l’uomo
dentro il fieno, ma l’uomo non fiutava i capelli:
le cercava nel fieno le membra contratte,
le fiaccava, schiacciandole come fosse suo padre.
Il profumo eran fiori pestati sui sassi.

Molte volte ritorna nel lento risveglio
quel disfatto sapore di fiori lontani
e di stalla e di sole. Non c’è uomo che sappia
la sottile carezza di quell’acre ricordo.
Non c’è uomo che veda oltre il corpo disteso
quell’infanzia trascorsa nell’ansia inesperta.

(da Lavorare stanca, 1936)

 

TU SEI COME UNA TERRA

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.

29 ottobre 1945

 

TU NON SAI LE COLLINE

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

9 novembre 1945

 

E ALLORA NOI VILI

E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto ‒
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu piú dolcezza,
non fu piú abbandonarsi
al sentiero sul fiume ‒
‒ non piú servi, sapemmo
di essere soli e vivi.

23 novembre 1945

 

VERRA’ LA MORTE E AVRA’ I TUOI OCCHI

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

22 marzo 1950

Cesare Pavese (da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1951)

11 commenti
  1. Gentile Mondo, il suo articolo denota la sensibile capacità di sondare un registro lessicale connotato realistico all’accentuata semantica americana che, purtroppo, esula dalla poetica europea e in particolare dalla nobile letteratura italiana; riferendosi a Pavese, lei cita Gozzano (ben altro destino avrà il su correlato oggetto nel discorso ermetico) e Alcyone ( asimmetrico negli armonici in preludio con la dodecafonia). Gentile Lorenzo, suppongo che il dramma di Cesare sia sinteticamente d’origine esistenziale: egli è prosatore eccelso con l’inconscio desiderio d’essere poeta – La spiaggia è scrittura iconica in volumi cubisti – ma, alieno al sostrato estetico che da Baudelaire tocca la purezza di Mallarmé raggiungendo antinomico lo stile Ungaretti/Montale (la poesia è crudele), egli rimane un mediocre lirico didascalico legato ai buoni sentimenti. Il linguaggio poietico coevo ha ben altra forma gnoseologica e: Luzi, Sereni, Caproni, Cattafi, Calogero, Sinisgalli, Zanzotto, Bigongiari, ecc. ecc.; lo colgono nella lacerazione negativa del secolo breve, tramato intimo al dipanarsi dei testi. Grazie.
    g, de g.

  2. “egli rimane un mediocre lirico didascalico legato ai buoni sentimenti”.
    La sua opinione vale tanto quella di altri che non han capito nulla di “Lavorare stanca”. Non dico del resto della sua produzione ma in quella, la differenza tra poesia e prosa è troppo sottile – e per quei tempi innovativa – perché la si possa afferrare con metodi di giudizio che san di naftalina. Scusi il tono, non sono un critico, rispetto la sua opinione ma accade talvolta che alcuni poeti giungano con troppo anticipo e bisogna saper aspettare, che l’orecchio sia disposto a diverse armonie. Cordialmente.

    • Gentile nel mio commento accennavo alla crudeltà della parola poetica che, se estranea alla naftalina come lei con disappunto la definisce, rimane soltanto aleatoria e priva di connotazione stilistica: in Rimbaud i topoi retorici appartengono alla codificazione occitana… Lei suppone una prosodia che nel Nostro, purtroppo, non è affatto innovativa ma conformista al disagio di una civiltà che, nei poeti mediocri, si rifugia in un esotismo pop (T.S. Eliot lo schiva inorridito) mentre in quelli eccelsi sonda una serrata dialettica col Dio che si nasconde – nel Magma di Luzi – . La naftalina, gentile, è il linguaggio della tradizione (per ossimoro innovativo) come casa dell’Essere: i lirici europei lo posseggono endogeno nel respiro contrappuntistico del senso che si esplica, armonico in forma di parola. Ad maiora, gentile Mayoor.

    • Grazie, gentile Paolo: da ragazzo ho avuto il mito di Pavese (e tuttora lo reputo un grande narratore) sino all’idolatria, poi, improvvisamente i poeti… Campana orfico, gli Ermetici con la conseguente letteratura come vita; Roland Barthes ecc. ecc. insomma la via di Damasco. Ad maiora, gentile.

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