Ripropongo questa “Prosa poetica” da “L’Età della luna” di Leonardo Sinisgalli per me assolutamente importante e veritiera.
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I critici chiedono alla poesia concetti e sistemi.
Leggo alcune analisi, m’informo di tutte le operazioni chirurgiche,
alcune assai delicate ch’essi conducono con la benda davanti
alla bocca per arrivare al midollo spinale del povero poeta smidollato.
Gli attribuiscono capacità nervose, capacità intellettuali, capacità dialettiche.
Cercano la logica nei poeti. E pensare che la filosofia dei poeti
è una così povera cosa al confronto della loro poesia!
La loro scienza non giova alla poesia quanto giova la loro innocenza.
Il mio sforzo per scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza.
Sono cresciuto negli anni senza guadagnare nessuna certezza che potesse
servire da struttura alla mia poesia. Credo di non sapere ancora quale sia
precisamente il mestiere del poeta. Non conosco una sola regola
valida in ogni caso. I risultati buoni o cattivi non saranno mai prevedibili.
Non ho mai chiesto alla poesia di aiutarmi a risolvere i problemi.
La poesia, l’ispirazione, non ho avuto la possibilità e la pazienza
di conformare il mio disordine ai loro capricci. Ho aspettato a ore fisse.
Il poeta non predispone ma raccoglie. Le sue predilezioni possono
sembrare sconcertanti, egli fabbrica le gerarchie sul momento.
Non cerca la lepre, ma cerca l’unità. I versi hanno una concatenazione
che non si rivela in superficie. Convergono verso un punto che le
stratificazioni possono nascondere a qualunque scandaglio, un cuore introvabile.
Spesso il critico è quel piccolo animale che strisciando sulla sfera
non saprà mai giungere al centro perchè non ne conosce la formula, la forma.
Lascerei per un attimo da parte gambe, falli e processioni, per tornare alla figura del critico il quale, a mio modo di vedere, deve, in una prima fase (che possiamo dire estetica) calarsi nel testo con fiducia, curiosità e desiderio di bellezza per un approccio esplorativo, cognitivo ed esegetico. Solo in un secondo momento è lecita la fase critica vera e propria, dove è necessaria l’oggettività ( non la freddezza) che non può essere disgiunta dalla necessaria onestà e competenza. Ma quanti critici o presunti tali sono in possesso di siffatte doti?
Troppo livore verso i critici, che – tra l’altro – non sono che la figura esterna del poeta, quando riflette su quello che scrive. E lo può fare bene o male. Proprio come i critici. Altrimenti il poeta chi è? Un invasato? E lo fosse pure, lo può essere 24 ore su 24? Dopo l’ubriacatura si dovrà pur risvegliare – mettiamo per dieci minuti – ,guardarsi allo specchio e diventare, gicoforza, critico.
Un saluto.
Platone, nel celebre dialogo “Ione” fa dire a Socrate:
“Così è la Musa stessa a rendere ispirati e attraverso questi ispirati si riunisce una catena di altri ispirati. Infatti tutti i bravi poeti epici non per capacità artistica ma in quanto ispirati e posseduti compongono tutti questi bei poemi, e la cosa vale anche per i bravi poeti melici; come i coribanti [14] danzano solo quando sono fuori di senno, così anche i poeti melici compongono queste belle poesie solo quando sono fuori di senno. Ma una volta che siano entrati nella sfera dell’armonia e del ritmo, cadono in preda a furore bacchico e a invasamento, così come le baccanti [15] che attingono miele e latte dai fiumi quando sono possedute, ma quando sono in sé non lo fanno; e l’anima dei poeti melici si comporta allo stesso modo, come appunto essi dicono. Infatti i poeti certo ci raccontano che, attingendo i loro versi da fontane di miele, da giardini e dalle valli boscose delle Muse, li portano a noi come le api, volando anche loro come esse, e dicono la verità, poiché il poeta è un essere etereo, alato e sacro e non è capace di comporre prima di essere ispirato e fuori di sé e prima che non vi sia più in lui il senno. Finché lo possiede, ogni uomo è incapace di poetare e di vaticinare. Perciò dunque, componendo molti bei versi per cantare vari argomenti come tu reciti Omero, non per una virtù artistica ma per dono divino ciascuno è capace di comporre bene solo nel genere a cui la Musa lo ha indirizzato: uno compone ditirambi, [16] un altro encomi, un altro iporchemi, [17] un altro poi compone poemi epici, un altro ancora giambi, ma negli altri generi ciascuno di essi non vale nulla. Infatti non compongono i loro versi per capacità artistica ma per una forza divina poiché, se sapessero parlare bene per arte di un argomento, saprebbero parlare bene anche di tutti gli altri. Per questi motivi il dio, facendoli uscire di senno, si serve di questi vati e dei profeti divini come ministri, perché noi ascoltatori possiamo comprendere che non sono costoro nei quali non c’è senno coloro che compongono versi tanto pregevoli, ma è proprio il dio che parla e per mezzo di questi poeti ci fa sentire la sua voce. La prova più evidente per il nostro ragionamento è Tinnico di Calcide [18] che non compose mai nessun’altra poesia degna di essere ricordata tranne il peana [19] che tutti cantano, forse la più bella opera poetica in assoluto, che egli stesso definisce «un’opera delle Muse». Infatti in questo soprattutto mi sembra che il dio ci si manifesti, perché non abbiamo dubbi sul fatto che queste belle poesie non siano opere umane né di semplici uomini, ma divine e di dèi e che i poeti nient’altro siano che interpreti degli dèi, quando sono invasati, qualunque sia il dio da cui ciascuno è posseduto. Per dimostrare questo il dio di proposito ha cantato il carme in assoluto più bello attraverso un poeta assolutamente mediocre; o non ti pare che io dica il vero, Ione?”
Secondo lui, dunque, “il poeta è un essere etereo, alato e sacro e non è capace di comporre prima di essere ispirato e fuori di sé e prima che non vi sia più in lui il senno.”
Oggi nessuno è obbligato a seguire la teoria platonica, però non si può non tenerne conto.
Il poeta diviene critico della sua stessa opera quando esegue il “labor limae” e soprattutto quando organizza le singole poesie per creare un libro.
Questa teoria è di Cesare Pavese che, come lasciò scritto lui stesso e come possiamo leggere nelle sue numerose “carte” fitte di appunti, spostava l’ordine delle poesie e le raggruppava in modi sempre diversi nell’opera ancora “in fieri” “Lavorare stanca”. Sosteneva che in questo lavorìo egli esercitava un’azione critica sui propri componimenti,
C’è molta differenza tra questo tipo di critica del poeta su di sé e la critica dello studioso che legge, valuta, giudica, loda o stronca le opere scritte da altri.
Giorgina Busca Gernetti
“C’è molta differenza tra questo tipo di critica del poeta su di sé e la critica dello studioso che legge, valuta, giudica, loda o stronca le opere scritte da altri.” (Busca Gernetti)
E’ però differenza all’interno di una medesima funzione. E non è che il critico sia del tutto privo di “invasamento”.
Gentile Ennio Abate,
mi auguro che il critico, nel momento in cui esamina e giudica un’opera altrui, non sia “invasato” nel modo descritto da Platone!
Inoltre la critica, benché etimologicamente sia sempre la stessa cosa, dal verbo greco “krìnein”, se è operata da Pavese sulle proprie poesie, giudicando se inserirle nell’una o nell’altra sezione del suo libro “Lavorare stanca”, oppure se espungerne alcune e inserirne delle altre, è ben diversa dall’azione del critico che apprezza la novità della sua “poesia-narrazione” o che la giudica “non-poesia”.
GBG