“Prose poetiche”(3), Leonardo Sinisgalli, L’ETA’ DELLA LUNA, Mondadori – 1962 –

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Chi ama troppo la natura rischia di perdere il resto del mondo. Il poeta deve respingere le moine del creato. La natura sembra fabbricata per gli innocenti, per gli infermi, forse per gli idioti. Ma già il bambino nelle sue creazioni non fa che dileggiarla. il bambino, come il poeta, è nemico dell’evidenza.

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Sulle rive della Mosa, sulle sponde del nilo o del tevere, dove mi capita di trovare una fila di vecchi alberi e potermi appoggiare coi gomiti ad antichi parapetti, mi viene di pensare alla fatalità, alla precarietà della vocazione poetica. Perchè scrivono i poeti? Per capirne qualcosa bisognerebbe indagare sulle circostanze in cui si svolse la loro fanciullezza. Non c’è dubbio che all’origine, nel cuore del poeta giovinetto, c’è l’illusione di caratterizzare in modo unico la propria storia. C’è come un’istintiva superbia del novizio entrato in una setta a partecipare alla celebrazione di un rito occulto. Naturalmente questa fede, questa disposizione al miracolo, questa tensione fisiologica non si possono nutrire di artifici, nè possono diventare una regola. Il poeta muore nel giro di qualche stagione ed è costretto a cambiare vita e abitudini. Può diventare uno storico o un retore, può cavare sproloqui e profitti della propria miseria. La verità è nociva alla poesia. Non c’è altro latte per i poeti fuori della poesia. Il latte piatto, opaco, tumido, più del gaio veleno, più del fervido vino. Il poeta si attacca alle mammelle dei poeti, grandi mamme della poesia.

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Cresce ogni anno con la nostra coscienza la difficoltà di esprimerci. Probabilmente perchè non ci riserva più sorprese il ritmo della natura o della vita o della storia. Ogni nostro intervento diviene problematico, ci manca non solo il coraggio ma la grazia. Allora noi pensiamo che la scienza, quella più profonda, viene data per istinto. Perchè i ragazzi sono così abili nell’apprendere e noi non riusciamo più a ritrovare neppure il ritmo della nostra voce perduta?

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Il frammento non vuole essere un esercizio di stile, disinteressato, un capolavoro di bravura, un monstrum artigianale, la fortezza costruita con gli stuzzicadenti. Non può essere l’exploit di un carcerato. Non vuol descrivere il sogno, il miraggio, il nulla. Noi appuntiamo semplicemente i nostri pensieri che non gioveranno a nessuno ma chiariranno forse ai nostri nipoti le parti scure del nostro ritratto.

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Il tedio sgonfia il vero, disarma la realtà. Distrugge i nessi, cancella i confini.

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Si può far precipitare una montagna con una piccola breccia di mica che rotola su un’altra breccia di mica quasi eguale. I grandi spostamenti possono essere causati da forze minime. Non c’è bisogno di far chiasso per trovare la verità. La verità come le streghe fugge via a colpi di scopa. Per trovarla bisogna stare quasi immobili.

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La natura entra placidamente nelle nostre capsule, nelle parole e nei simboli, nelle lettere e nelle cifre. Ci entrano anche i pensieri. entrano le formule semplicissime che regolano il mondo. Le equazioni di Einstein sono brevi come le formule dell’acqua e del sale. dio è laconico.

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Un amico, un costruttore di uccelli di carta, mi ha portato in dono un dischetto di lamiera sottile che avrebbe divertito Cartesio. Chiamo questo soldino malleabile l’ombelico occidentale. La rondella leggera ha una piccolagobba. La strofino tra le dita per riscaldarla fino a rovesciarne la gibbosità;poi appoggio la monetina sul tavolo. La guardo intensamente. Dopo qualche secondo, se la camera è fredda, il dischetto scatta in aria con sorprendente vivacità. I giuochi mettono i filosofi in imbarazzo.

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L’uomo del Sud non matura. Stenta a uscire dall’infanzia.
Quando non è più bambino è già vecchio.

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Il castigo è un riposo per le anime gentili.

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La bella stagione ci fa sentire più pungente l’inutilità di vivere. La natura si raccoglie, si ritira nei suoi reami magnifici e ci spranga la porta in faccia. I cieli si allontanano trascinandosi sulle piume gli ultimi acini di luce.

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