“In Italia” di Charles Tomlinson, a cura di Roberto Taioli

NINTCHDBPICT000184324644

Charles Tomlinson, Stoke-on-Trent, 8 gennaio 1927 – Gloucestershire, 22 agosto 2015

Charles Tomlinson è stato un poeta e traduttore inglese che ha avuto anche una consuetudine di frequentazione e di ispirazione poetica verso l’Italia, nelle cui liriche traspare una netta vena mediterranea. Il suo primo libro di poesie è stato pubblicato nel 1951 seguito poi da Selected Poems (1955-1997). Nel 2000 vedono la luce due raccolte, Skywriting (2004) e Cracks in the Universe (2006). Come traduttore la sua attività fu laboriosissima e si cimentò con le esperienza poetiche più disparate con versioni dal russo, dallo spagnolo e dall’italiano, compresi i lavori di Antonio Machado, Fedor Ivanovic Tjutcev, César Vellejo e Attilio Bertolucci e collaborò con lo scrittore messicano Ocatvio Paz. In questa sede vorremo però occuparci del suo libro dedicato all’Italia, un itinerario poetico che riecheggiando il Viaggio in Italia di Goethe, porta il poeta ad incontrare i siti e le città dell’Italia rapito dalla loro bellezza. Il libro si apre con una dichiarazione di poetica:

Non nel cemento si cerchi la realtà,
me nello spazio, reso articolato;
che tra muro e muro s’allarga,
La voce del mare
Che dal silenzio il silenzio infrange

L’autore ci svela di cercare nei paesaggi che incontra non la fissità della pietra ma la mobilità dell’aria, l’eco profonda delle cose da portar con sé come lascito imperituro del tempo e dello spazio. In uno spazio allargato e smisurato che è la memoria, custode fedele delle immagine che abbiamo incontrato e che ci hanno trafitto. E’ questo una sorta di secondo viaggio, accanto a quello fisico, come il poeta scrive, mutuando un verso di Guido Cavalacanti “Dove sta memoria” in Donna me prega, citato anche da Ezra Pound nel Canto LXXVI dei Canti Pisani. Nel viaggio italiano Tomlinson ebbe occasione di incontrare autori e poeti italiani tra i quali il più volte citato Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, come emerge nella sua postfazione al libro Dove sta memoria. Seguiamo quindi questo viaggio mediterraneo assumendo la stessa disposizione d’animo del poeta pellegrino:

Roberto Taioli

 

Lago di Como

Qui il sole prima attraversa una foschia
che inghiotte intere montagne. Come sarebbero solitarie,
quelle montagne, senza la nostra presenza.
Perché noi possiamo restituire con parole
le loro superfici, i loro bianchi che assorbono tante
sfumature, superfici che accolgono tanta ombra
nei loro crepacci e fenditure, e tuttavia marezzano
di luce sottostante, cosicchè le montagne
poggiano su colonne che attraversano le acque,
su colonne ondulate in scaglie d’oro e di bianco.
Questo è il racconto rinviato alle montagne
e, come inizia la sera, va ridetto
a queste vette in preda al bianco fuoco d’un sole
che è già al tramonto, e non è ancora
andato giù dietro la riva più lontana le cui balze
si stanno sollevando in una nera silhouette.

 

Venezia

Frastagliato da porte
Il mattino assume il peso della notte,
si radunano le case in netti cubi.

Nel palazzo affacciato sulla sponda,
lei, pronta ad imbarcarsi, attende.
Il suo vestito è un velo di suoni
disteso sul silenzio.

Sotto il ponte,
contenuto, da un arco riflesso,
un tunnel di luce
eclissa muri, acqua, orizzonte.

Galleggiando sulla propria immagine
Un corteo di barche ozia nello spazio,

 

Fiascherino

Sopra il cinereo grigio d’una spiaggia che il mare affronta
mobile e irrequieto, quando con sé solleva
le verdi alghe dagli scogli sommersi
che poi muovendosi
vanti e indietro, la luce

si sperpera, un mattino croceo
avanza tra schiume e pietre, legni
densi di nera nafta
e levigati poi sino al fresco
biancore tranciato d’un petto di pollo.

Ci si sporge dal vertice. L’altezza
slontana, come un cannocchiale capovolto;
la spiaggia pare più piccola, ma messa a fuoco, ingioiellata
dalla chiarità di caldi colori
che, visti poi da vicino, svanirebbero

i masse. Questo intreccio geografico
di luce marina su ombra,
questo variegati primi piani di scogli umidi
che s’asciugano nel calore dell’aria,
sono persi per noi. Felici di ciò che c’è toccato
dove sarà, ci chiediamo, la fine di tutta questa
varietà che c’insegue? Un bagliore
fa capolino fra la mussola; i suoi raggi spezzati
che indugiano fra tremuli filamenti
splendono sul soffitto più leggeri

d’una ala d’ape. Addensandosi,
pendono sui muri rosa
in verdi strisce e, tra loro tremando,
mobile ventaglio bicolore,
il mare va e viene nella bassa stanza.

 

Il Mediterraneo
I
In questo pese di vigneti
dove l’architettura
esegue intermezzi musicali, mette a nudo
emozioni di un primitivo consenso
o, confondendosi il fatto con l’osservatore,
in questo paese esiste pure
il mare.

II
Il mare se è increspato o appena mosso,
o batte, distrugge, rotolando su se stesso
in fragorose onde, come
una schiumosa e mugghiante cortina frantumata
che si infrange sulle rocce, reso furibondo
dalle sue stesse informi pene… il mare
laggiù si accendo in una striscia di luce.

III
Questo paese di vigne
È anche un paese di treni, aerei, gasdotti.
Tram e palazzo stride. E’ un’idea
inammissibile dalle guide turistiche
e dall’immaginazione. La guida è un mezzo imbroglio:
“Venti minuti di confortevole autobus”, oppure
“File di cipressi, ininterrotta serie
di inimitabili volute”.
L’immaginazione non può ingannare. Morde il mattone,
dice “questo è acciaio… lo voglio assaporare.
Cresciuta nell’inganno, io sono semplicemente
Guida turistica, pubblicità, politica”.

Il mare lappa la massicciata della ferrovia.
Anche aver ammesso questo definisce il mare.

 

Tramontana a Lerici

Oggi, lasciasti tu cadere un bicchiere,
svanirebbe giocato con tale intensità
contro la risonanza del freddo (svaniscono,
duri, divisi, distinti, i suoni in cadenza
diminuendo) sì da farti giurare
fosse solo l’imitazione d’un bicchiere caduto.

S’affila il maculato delle foglie. Ardire per questo chiarore
le menti degli artefici diventerebbero sfaccettate
Scorrendo su un merletto traforato di wafers
Croccanti taglienti come acciaio. Costituzioni
redatte sotto tale feconda frescura sarebbero annullate
per il rigore della loro equità, la moderazione della loro pietà.

La sera, ci si spaventa per una tale definizione
tra venti perduti, numerosi come le occhiate date
per ritrovarli, tanti, ancora, che il paesaggio
assorto nell’uguale oscurità, si condensa
passando dall’acquamarina, a quel debole indaco-pece
ove luce e tramonto s’ abbandonano.

E il freddo cresce. In quest’aria
inadatta a politici e romantici
l’oscurità si tempra di blu, cancellando le finestre:
ostacolo tangibile, non si farà complice
di ciò che non lo riguarda. Si è ignorati
da tanto freddo sospeso in tanta notte.

 

Il poema del mare

Un osso calcinato
la voce del mare
in composita monodia
tumultua verso quello scopo.
E’ come se
le trasparenze del suono
componendo un simile candore
deponessero vari strati
con un solo movimento
della superficie variegata;
la profondità verde bottiglia,
il bacino dondolante
come un errore dell’atmosfera, e ciascun
movimento si muta
in sospiri separati, e ogni sospiro
è un respiro di quella singolarità
che “insieme muove
se pur si muove”,
e il suo è un moto invariato
teso a un solo scopo
polverizzar
l’osso calcinato.

 

Tarquinia

Vince Viet Cong! Testimonia il muro.
Che vorrà mai dire? “Che vinca”
O “sta vincendo?”´ Tarquinia anticamente
dominava dieci province, adesso
È questo museo di tombe, questa necropoli.
muri su muri, la decaduta
capitale etruscaè una città di bar di macellerie
fra palazzi in rovina.
La tomba dei guerrieri. Raffigurati a un banchetto
brindanti alla vittoria. Forster disse:
“Lasciatevi annientare”. Essi combatterono e lo furono.
Passa una donna curva sotto il peso
del gallo che trasporta. Per accompagnamento
una piccola croce oscilla sul suo collo.
Gli occhi dei cavalli alati
che cavalcano nella cittadella
brillano ancora dell’intelligenza
di un’arte ormai perduta.
Vince Viet Cong. Che vorrà mai dire?

 

La piazza

Una fusione
di voci nella strada
Sottostante, un’onda
che non raggiunge alcuna destinazione: quelle di bimbi
più acute
Le sovrastano e le rauche
monomaniache bici
cacciano la loro ombra
nella luce della piazza
al rullo del tamburo
dei metalli scorrevolmente
abbassati; su tutto ciò
Il riflesso sospeso
sopra il vetro
aperto (si apre
verso l’interno) della campana
di Santa Maria delle Nevi
che non dondolava
nemmeno leggermente
nella calda aria
della sera.

 

Morte a Venezia

Vetri gingillo di Murano.
Dormicchia l’orchestrina del Florian
soffocata da sciroppose rapsodie.
un’altra ciminiera
emettendo veleni da Mestre
incombe come un faro sopra l’acqua
dove s’incurvano scie i di fuoribordo
distruggendo le immagini di marmo,
nuziali unioni di pietra e mare,
senza riposo per dovere
questa ammassata longevità
fare e disfare.

 

Gli scafari

Roccia che riproduce roccia
in miniatura
su roccia;
e dove la peculiarità viene meno
affiora la perpendicolarità:
strati di lamine,
scisto ammonticchiato
o minute ardesie,
– non impilate- ma pigiate e infossate
contro ciascun
barbaro elemento,
tutti e quattro infatti
ascendono con questo mare
tranne il fuoco ( il fuoco
tormenta da più in alto)
per riuscire
con silenziosa decisione
nella corrosione
di fortezza giocattolo
che possono resistere.

 

Casarola
Per Attilio Bertolucci

Rocce qui penetrano a picco nel bosco
sprofonda la distesa di castagni
sino ad uno scorrere d’acque invisibile
perso tra foglie: puoi udirne
lo sperpero di strada verso il mulino, là dove
attraversando un declivio ed un ponte,
infine giunge un sentiero: inutili accanto
giacciono le pietre, un tempo tagliate dalla roccia,
e la stessa pietra si erge in muro e spioventi,
non del mulino soltanto, ma di sparse capanne,
le cui ardesie coperte di muschio – quasi città dei morti-
crescono verdi nel bosco. Non ci sono morti qui
né vengono ormai i viventi
a spogliare in ottobre gli alberi: le castagne,
cadendo, nutrono le radici da cui nacquero;
un rustico altare consacra gli intenti
per cui queste porte si aprivano, desolazione
di un lavoro murario ancora perfetto. C’è bellezza
in tale abbandono: di più ce ne sarebbe
nell’opera lenta del fumo
esalante al tetto e alle travi, spirante
dai pertugi delle stanze basse, a riempire
denso d’aromi il bosco invernale,
stando i frutti distesi a steccare. Spreco
è il nostro sistema. Un vecchio
è andato per funghi, si ferma
a mostrare il bottino, ingrassato da un suolo
dolce di una farina che nessuno macina.
Rapido e incomprensibile, pensa che ci intendiamo
perché azzardiamo i sì e i no cui invita
forse dei funghi racconta,
forse di questo luogo che ne plasmò il dialetto, e dove la natura
prende definizione ogni giorno da quell’impronta
dagli uomini lasciata in pietra e legno
tra villaggi in declino, alti sulle città della pianura.

 

San Fruttuoso: i subacquei

Nell’unico caffè la salsedine ha roso
i graticci di ferro. Oggi
i bagnanti fanno bagni al sole
e i loro corpo ben allineati,
coprono la piccola spiaggia:
il mare è burrascoso e il sole
irraggia forando appena
un cielo male illuminato. Ignorati
i venditori di merletti e cartoline
restano disoccupati, e i Doria,
nelle gelide tombe sotto i chiostri
dormono scheletriti fuori dalla storia.
Oggi pesce spada
dice il menù, ma noi
non mangeremo oggi pescespada;
prenderemo il traghetto
da cui stan scendendo i subacquei.
Attendiamo sotto un arancio
che dà soltanto fiori e niente frutti.
Quelli, coi loro attrezzi ingombrano gli scogli
e, iniziando ad assumere
corpi alternativi, scivolano
dentro gommose e nere pelli, con Cautela
scritto sopra. Sono di entrambi i sessi. Alle cinture
legano dei pesi, piedi di rana,
bombole di ossigeno, poi si appoggiano all’indietro sulla roccia
col gravame che l’acqua allieverà,
e si riposano come grosse foche.
Provano le bombole,
l’ossigeno fischia.
Si armano di coltelli
e sono ben equipaggiati per battersi
con qualunque cosa li attiri sotto
in quelle loro carni lucide e nere.
Le cartoline mostrano Cristo
Cristo del mare.
inabissato e issato sul suo piedistallo
Con due sub volteggianti
quasi aerei, quasi uccelli abissali,
in barocca, estatica adorazione
attorno al brutta statua.
Troveranno laggiù la loro calma
ci domandiamo, mentre a fatica superiamo
lo spazio vuoto a lato della barca
Avvertendo di già l’ubriacante
attrazione del mare.
Superiamo la roccia granulosa
solcata da lunghe cicatrici.
Il mare le si erge contro.
Mentre prendiamo il largo
la linea dritta dell’orizzonte
appena dissimula
il beccheggio e il rollio, lo scintillio pungente.
sarebbe forse meglio che la barca
sgroppasse. Quello che non mi va
quando il mare ci attacca,
è il timore di perdere il cervello,
come se, scivolati di lato, si fosse gettati contro
la sponda, come se
si fosse senza peso, il “come se”
dissolvendosi all’impatto
in ossa e sangue.
Una mamo materna tien saldo un passeggino
Che il movimento tenta di strapparle:
il piccolino, legato stretto, dorme.
forse , quegli invisibili subacquei
più fortunati
e senza più peso stanno levitando
attorno alla statua:
il loro è un corpo di ballo
con gli angeli notanti nel cielo
del Correggio … frotte
di zampe di batraci…
tenuti su dalla devozione,
l’acqua non è che un supporto accidentale
per lenti movimenti barcollanti
e piroette dimentiche del corpo
e della gravità.
L’impetuoso vento marino
Adesso agguanta e mette in moto
Il passeggino,
e il bimbo percorre l’improvvida pendenza,
quindi afferrato da altre mami
e bloccato a metà della sua fuga,
viene rispedito da sua madre: una villeggiante
dal placido aspetto vagamente
bovino
di madonna del nord
appena spaventata; lui
pure, ora giace perfettamente certo
e consapevole di quanto, dormendo,
aveva dimenticato, e seguita
a masticare qualcosa che
prende da un sacchetto.
E’ ritornato ancora al proprio corpo.
E come vive bene nella propria pelle
signorilmente e con indifferenza
è, come quei subacquei, ben
equipaggiato; supera la tempesta
masticando e guardando
del tutto inconsapevole
che potremmo anche andare a fondo.
Ma non ci andiamo. Già la città appare davanti a noi
col suo moto tranquilli.
Forse, da sopra i tetti,
si potrebbero vedere anche i subacquei
che emergono, si immergono;
qualunque cosa facciano, noi,
ponte all’attracco
scivoliamo lenti verso terra
con le labbra salate.
Lo stesso mare
che ha inghiottito Shelley
ora sta rollando dietro
e dentro noi, nascondendo
Cristo e il pescespada,
mentre la costa ci dà
un benvenuto umano
con muro strada stanza
ombra di architrave e porta
che invita a entrare.

 

Sopra Carrara
A Paolo e Francesco

Salivamo alla Colonnata, superando le forre
squadrate dai cavatori, i geometrici golfi
che scalavano a balzi la scarpata, il filo e gli attrezzi
usati dagli uomini per tagliare la montagna.
Risalendo con gli occhi dove dovrebbe esserci il verde,
la ghiaia distruttrice, la sporca neve
di marmo, giungemmo infine a una certa altezza
e bevemmo a una fontana il cui getto
era fresco come da sotterranea roccia.
Il luogo- piano dopo piano, blocco su blocco-
ci invitava a salire più in alto, e
ristorati, noi ancora salimmo fra la chiesa
e le case, su per la gradinata ombrosa
per sbucare dove il villaggio finiva. Quando
ci voltammo, l’intero luogo ci sembrò
una cava dove poter vivere e che,
fra le azione dello scavare e del costruire,
ponesse un confine nominale, trascurabile; mentre
laggiù, l’acqua che placò la nostra sete,
adesso farinosa come segatura, a scrosci
spioveva per raffreddare le lame
che a blocchi regolari tagliavano
sopra Carrara…

 

Santa Maria delle Nevi

Santa Maria è aperta
al caldo estivo, una grotta
di fiamme votive
che guidano lo sguardo
verso l’oscurità
che le circonda. Smarriti
si cerca per prima cosa
il pavimento
di quel fresco recesso
e l’abside profonda
scavata tra i suoi muri,
infine
si comprende che il bianco
della neve dipinta
illumina l’altare.
Straripa
da vasi e vassoi
in palle di neve come frutti
offerti alla
Madonna delle Nevi
e al Bambino
che le sue mani salde
reggono fermamente;
curiose le piccole dita
tese all’incomprensibile
intimazione del gelo.
Un sogno d’agosto
s’adegua perfettamente
al giorno
che, per forza di cose,
pare combaciare
col suo opposto:
dove Santa Maria
serba gelosamente un bagliore
del rammentato inverno
l’estate intarsia le strade
in un candore di neve.

 

Palermo

La strada per Palermo scorre in un tunnel
D’alberi, un’asfaltata via d’acqua,
che le luci delle auto scoprono allungandosi
davanti a sé. Recingendo alle spalle
montagne piana e mare, questa densa
illusione di foresta sempre più reale
della successiva vista: una prospettiva
che sfuma in giù le strade e che si arresta
al limite dell’acqua sotto le imparziali gru,
che stan confabulando di là dai tetti.

Charles Tomilnson (traduzione dall’inglese di Bruna dell’Agnese, Ariodante Mariani, Cesare Rusconi, Silvano Sabbadini)

1 commento

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...