La narrativa italiana del Novecento ha una punta alta in Anna Maria Ortese, voce originalissima e lontana dalle correnti e dalle mode del tempo, anche se all’inizio della sua esperienza ci fu nei confronti della sua scrittura il malinteso del realismo che spinse Vittorini a pubblicare “Il mare non bagna Napoli” nella collana dei Gettoni nel 1953. Ma il realismo ha ben poco a che fare con la vena della Ortese, contraddistinta e dominata da una fantasia trasfiguratrice. È la stessa Ortese che parla del suo spaesamento di fronte al reale: “detestavo con tutte le mie forze la così detta realtà”. La realtà per la Ortese è incomprensibile e allucinante (“ogni cosa è intimamente inconoscibile”), già nel 1937 in “Angelici dolori”, prima ancora che nel già citato “Il mare non bagna Napoli”, dove Napoli appunto (il suo dolore, il suo male) diventa l’emblema stesso di questo spaesamento. Chi scrive, secondo la Ortese, deve perciò fare appello al suo istinto profondamente e misteriosamente creativo, perché “la vita è molto più ordinaria dei sogni e priva delle sorprese dell’immaginazione”, sorprese dell’immaginazione che sono quelle decisive a mettere in scacco l’abbaglio della realtà riuscendo ad entrarvi davvero dentro. Non per niente ripete la Ortese: solo “l’nconoscibile è il vero” della vita. Come è stato detto dalla critica, la Ortese nel tessuto del suo racconto riesce a innestare le invenzioni favolose in squarci documentari di estrema esattezza e lucidità. Già a partire da quella straordinaria dichiarazione di amore e odio per la città del cuore che è “Il mare non bagna Napoli”, attraverso i ricordi “scintillanti e mascherati” della giovinezza e delle sue emozioni in “Il porto di Toledo”, passando per la favola romantica piena di incanto e di ironia intitolata “L’iguana” e fino ai capolavori finali come “Il cardillo addolorato” e “Alonso e i visionari” che, nella mescolanza sempre più accentuata dei generi (romanzo, saggio, teatro, poesia), portano avanti la dimensione metafisica e l’interesse spirituale attraverso la presenza dei morti e folle di ombre che si muovono in mezzo ai vivi.
Autrice anche di poesie, Anna Maria Ortese ha intessuto spesso e volentieri i suoi versi alla narrazione e ne cito qui un esempio tratto da “Il porto di Toledo” nella sua stesura e grafia originali.
Paolo Ruffilli
NUVOLA
La nuvola ricordo che mi guardava a sera
rossa vanendo. Dissi: “Nuvola, così era
per me una volta. Rossa nuvola nella sera
guardavo e non sapevo, credevo quell’aurora
interminata. L’ora venne per me. Che fai,
che aspetti, o solitaria nuvola in cielo? Un attimo
trascorse, e più non sei di quell’intatto rosa
ch’io seppi, famosa felicità di un solo
attimo, non ricordo quando, in che cielo.
O nuvola, non piangi tu di spavento a entrare
nel vuoto lilla blu, nel nero cielo? Sei
tu così bella e passi. O nuvola, non piangere,
ti prego, non sciupare ribellandoti questa
necessità: passare.”
Anna Maria Ortese