In questa mirabile opera critica mi ha colpito l’originale approfondimento in relazione al fondamento “mitico” della poesia di Leopardi, come strumento ermeneutico e medium (nell’accezione arcana del termine) filosofico. Infatti, Alberto Folin illumina un nodo esegetico imprescindibile per una comprensione più completa del poeta. Nella tensione verso l’”invisibile”, l’”irrappresentabile”, Leopardi ritiene, come focalizza Folin” che il “pensare per immagini” sia il modo “imprescindibile” per restituire l’anima delle cose, pur ad uno stadio ombroso e indeterminato. Potrebbe sembrare un paradosso, ma soccorre il lettore la messa a fuoco dello strumento di tale operazione: il canto, secondo cui “la voce inarticolata dell’inno, […]dice lo stupore dell’ente, divenuto consapevole di essere, di fronte all’apparire delle cose”. La voce quindi ci porta verso il cuore delle cose e la sua valorizzazione si impone alla stregua di “elemento ontologico fondamentale del phainomenon prima che esso si costituisca nella parola significante”, del suo essere, per Leopardi, “espressione di immagine a prescindere dal senso logico delle parole”.
Ma vi è di più e qui Folin chiama in causa anche gli inarrivabili interrogativi leopardiani, vere e proprie domande “musicali” di altissimo lirismo, condensati di pensiero poetante e di vibrante partecipazione affettiva. Dice infatti il critico: “Questo risuonare è in quanto tale provvisto di un senso esclusivamente indicativo e non dichiarativo, proprio perché, più che risposta è interrogazione, domanda passionale, mitica, e non logica, sul senso di tutto ciò che è”.
Pertanto canto e mito si configurano come dispositivi ontologici archetipici e al contempo del tutto calati nella individualità del poeta, con il risultato di generare una creazione artistica in cui “il mito è immagine della cosa e la poesia ne è la fedele rappresentazione (non della cosa, appunto, come ho già avuto modo di sottolineare, ma della sua immagine)”. Non si tratta di un gioco di rimandi ma della realizzazione di una vera epifania noumenica, “di una tensione ben più profonda e decisiva: quella che non si accontenta della mera presenza dell’oggetto, ma mira a fare della cosa e del suo apparire un segnale dell’essere in quanto tale”, in ciò ponendo Leopardi “sulla strada di quella moltiplicazione degli assoluti che Leopardi indicherà come carattere tipico del suo «sistema».”
La poesia viene quindi investita del taumaturgico potere di giungere, ben oltre l’erudizione filologica, verso il “significato originario” della parola: “poesia come fare”. Tale aurorale visione giunge a compimento, secondo Folin, grazie a un processo di “interiorizzazione dell’antico” che si sviluppa dentro una “poesia moderna” in grado, sola, di esprimere l’”irrappresentabile” “perché si fa sentire nel languore dell’io e non nella pienezza di un’immagine vera capace di unire in sé il visibile e l’invisibile”.
In ciò, ad ausilio e a fondamento si pone la paradossale questione della lingua greca che si respira in ogni verso leopardiano, infatti Leopardi stesso, secondo Folin, aveva compreso questa sua incredibile quiddità : “la lingua greca era precisa proprio perché capace di cogliere l’oggetto nell’imprecisione del contorno”, quella lingua però che contiene un dire primigenio, ricchissimo di potenzialità, polisemico e quindi libero dalle gabbie costrittive delle classificazioni semantiche proprie della filosofia .
Quindi, nel saggio di Folin, ermeneuticamente necessario, si giunge a quel “celeste confine” che non ne costituisce solamente il titolo. L’assolutezza del naufragio leopardiano contiene un eroismo filosofico e, al contempo, un dolcissimo afflato mistico e sensoriale. L’infinito si palesa come un nulla che non appare tuttavia un azzeramento della vita ma ne rappresenta una sorta di supremo compimento ontologico. È la meta del “desiderio” che suscita un’istanza insopprimibile di fusione per mimesi, “un avvicinamento infinito a un oggetto che non riuscirà mai a essere “veramente” imitato”, è un pro-getto emotivo ed intellettuale nel mondo.
Davvero fondamentali appaiono le considerazioni intorno alla natura composita dell’assoluto leopardiano, suprema sintesi di materia e immagine, viaggio verso l’Oltre condotto con un corpo pensante che non si rinnega anche nel momento della più estrema tensione alla trascendenza. Pertanto Folin parla acutamente di un’unità “non […] affatto idillica e consolatoria.”. “Si tratta di un’unità drammatica, non statica: un’unità dolorosa. La poesia è per lui il luogo dove si celebra il ritorno dell’unità della cosa nella dimensione originaria della perfezione assoluta.” Origine edenica che diventa anagnorisis, luogo del riconoscimento memoriale in cui l’uomo “moderno” si aggira, malato di nostalgia, nell’insopprimibile istanza di “restauro del passato” e l’infinito si moltiplica caleidoscopicamente in un gioco di specchi, in quanto ogni e-vento può suscitarlo e generare una interminata catena di “infiniti”, in modo analogo alla pluralità granulare degli insiemi nella fisica delle particelle.
Ancora una volta Folin riesce a moltiplicare, lui stesso, le prospettive ermeneutiche della poesia leopardiana, aprendoci nuove ed inedite prospettive nella rete complessa e originalissima dei suoi “sensi” poetici e antropologici, nell’intreccio di motivi anche contrastanti, perché è proprio di questi fervidi paradossi che si nutre la sua unicità, la costruzione sfolgorante di un pensiero che è canto, suono, materia, voce, anima, spirito, vento abissale e metafisica terrestre.
Gabriella Cinti