Con questo volume complessivo, Si fa per dire. Tutte le poesie, 1964-2016, pubblicato meritoriamente dalle Edizioni Marco Saya nel 2019, siamo in grado ora di prendere in considerazione nella sua interezza e complessità l’opera poetica di Leopoldo Attolico, per così dire alla A alla Z, compresa una sezione di inediti e una significativa rassegna della critica. E così, grazie a questa rilettura globale, possiamo scorgere tutte le sfaccettature di questa poesia, non solo l’evoluzione nel corso del tempo, ma anche l’attitudine dell’autore a non prendersi mai troppo sul serio e quindi il suo sfuggire alle definizioni troppo rigide e poco flessibili. Spiluzzicando di qua e di là nel volume, vorrei appunto mettere in luce questi diversi profili, questo sottile gioco di diffrazioni, condotto, sì, soprattutto per via ironica, ma non soltanto.
Per cominciare, una prima citazione la prendo da Laboratorio in giardino, quel testo che comincia giocando (e rimando) con la “dentiera”: «Ho la mia tastiera / la mia maniera / la mia dentiera» ‒ e da questo incipit già vediamo la propensione all’autoderisione. E poi, più avanti: «Ilare o inPavesato (un bivio senza scelta, da cui si vede la volontà di non essere mai del tutto qualcosa: e si apre il rapporto con gli altri autori che riprenderò più avanti, cfr. anche altrove: «quando sarò vecchio / inzanzottito e querulo»); subito dopo: «adamantino o ctonio» (altro bivio senza scelta), «angelo senza ali» (immagine decisiva della condizione poetica, stretta parente della “perdita d’aureola” di Baudelaire, a riportare sulla terra tutta la pretesa elevazione poetica); e ancora, alla fine: «se basta pronunciare un’incertezza, un “forse” / per metterla in crisi / e revocarla in dubbio» (una poesia del “forse”, quindi, del “dubbio” e “dell’“incertezza”, senza trionfalismi e senza garanzie).
In Autobiografica troveremo una affermazione di pluralità («Mille mestieri ho fatto nei miei sogni / mi sono scisso in mille allegorie»), mentre nel testo dedicato a I critici, l’alternativa tra «tono alto» e «tono basso» viene risolta con una poetica del «sarchiapone celeste», che dribbla le divisioni, un po’ a sinistra e un po’ passatista, per finire nei rimbalzi sonori della paronomasia: «capintesta dell’amore ambidestro / e suo apripista». Insomma, uscendo dagli schemi da una parte e dall’altra per non farsi mai bloccare in una sola casella: frequente sarà lo spunto dell’occasione del vissuto, ma altrettanto utilizzanta saranno la metafora e la trasposizione immaginaria, o ancora il tono dalla discorsività riflessiva, sempre però attraversata con ironia e autoironia, con quelle strategie di abbassamento ereditate dai grandi crepuscolari, Gozzano e Palazzeschi. Abbassamento di sé e al contempo della poesia, come quando si definisce «poetastro» o qualifica la sua poesia «senza cravatta» o riconosce che «la poesia non decolla».
Il primo testo che ho citato, Laboratorio in giardino, diceva: «mettendo la sordina ai sentimenti». Ecco, tra i possibili pedali, pur tenuto su un registro non enfatico e non patetico, vi è pure quello sentimentale, soprattutto nella raccolta I colori dell’oro, ma intravedibile un po’ ovunque. Un sentimento che si presenta sempre in punta di piedi e, in un certo senso, “a mani vuote” ‒ come deve essere, per altro, scevro da interessi allotri ‒ più o meno così: «Non ho una poesia per te / non ho nulla / (…) / Sono un mucchietto scarso / di parole senza rima». A proposito di rima: la poesia di Attolico non presenta forme chiuse regolari e quindi le rime non hanno una sequenza predisposta (mancano di quella che è stata chiamata la loro “funzione strutturante”); e però sono frequenti, come già abbiamo visto all’inizio di Laboratorio in giardino. Le rime provengono da una istanza sonora associativa che spesso sembra trascinare la discorsività poetica di Attolico. Così anche rispetto alla metrica: queste poesie appaiono costitutivamente libere da qualsiasi costrizione (verso libero, dunque, senza dubbio), ma non senza che qualche eco, qualche memoria ritmica non le abiti spesso e volentieri. Non tanto il canonico, canonicissimo endecasillabo: mi pare di avere individuate, più o meno mascherate, le misure care alla poesia giocosa dell’ottonario e del quinario (anche doppio).
I metri giocosi sono perfetti per introdurci sul versante ludico della poesia di Attolico, quella sua straordinaria disposizione al gioco di parole e al doppio senso che ci offre motti di livello davvero buono: «Ho quasi quarant’anni. / Se fossi maturo sarei già caduto / mi sarei staccato dal famoso ramo / qualcuno forse mi avrebbe raccolto»; «Ma per fortuna la vita è una cosa serial / che non si ferma alla trecentesima / puntata»; «Ah la posta / la posta è alta / la posta ce la giochiamo tutti / (…) // Ma la posta non arriva mai. / E presto sarà affidata ai privati»; «Da più parti ci si chiede / come mai / la tromba delle scale non suona mai»; o anche in forma di insistita paronomasia a parodia degli slogan pubblicitari: «Non è scepsi, né sepsi / né stipsi! / È PEPSI!».
Ma il lato ludico non è poi fine a se stesso: il passo è breve per arrivare al lato satirico, che è particolarmente incentivato nella fase centrale dell’autore. Ai danni della televisione e dei miti di massa, come in Solstizi di sogno:
Ma punta nel vivo
‒ tra l’Uomo del monte che dice di sì
e l’indice Mib all’ora di pranzo
la blanca paloma di un verso minchione
riagguanta la verve del maître à penser
e intriga il sospetto
che il brivido caldo
di un sogno in pigiama
è sempre soltanto
un bambino viziato
un falso colore
un prêt-à-porter
In questo caso con onda ritmica che prende l’andamento del senario e senario doppio. Satira, però, specialmente rivolta contro i cattivi poeti infestanti. Quelli che «Maceriano / lugubrano / angoscizzano / sconfortizzano / sclerotizzano / itterizzano // Dolorano / dilacerano / rimuginano / ambasciano / cachettizzano / obitoriano». Ai poeti doloristi & affini, Attolico riserva, metaforicamente benisnteso, l’avvertimento del western-spaghetti, «Al cuore Ramon, al cuore» (ma senza la corazza del buon Clint…). Punture gentili ma ben dirette sono disseminate lungo tutto il percorso non solo ai poeti ma anche ai critici. E qui si aprirebbe il capitolo delle citazioni e delle menzioni. Una lista molto ampia che va dagli antecedenti, da Ungaretti a Saba, da Palazzeschi a Montale, passando per un reiterato confronto con Caproni per poi giungere ai contemporanei e consuonanti come Lunetta e Riviello. E le citazioni vanno dal rifacimento ‒ ad esempio del Natale di Ungaretti in Occhi lucidi ‒ alla parodia che trasferisce il lirico nel prosaico, come nel d’Annunzio convertito in Ex montanaro (dis)integrato: «Azotemia / glicemia /pessimi umori… / Aaah! Perché non son io / co’ miei pastori?». Le citazioni potrebbero continuare a lungo, a mostrare tutti i lati, tutti i risvolti di un autore che, come dicevo, non è facile restringere in un solo profilo. Un poeta che, malgrado il suo libro sia abbastanza pesante con le sue quasi 600 pagine, è un poeta della leggerezza, portato dalla sua congenita ironia a non atteggiarsi a voce vaticinante, a non alzarsi sui trampoli e a non indossare vesti sacerdotali, consapevole com’è della precarietà della vita e della imperfezione dell’arte, perciò convinto che la migliore poesia è quella senza maiuscola.
Francesco Muzzioli
Dispaccio Ansa
Siamo giunti finalmente all’anno zero
di quest’era catalettico/esplosiva.
La trebisonda impazza.
Ai cronisti son saltati i diverticoli:
la lavanda gastrica perde la faccia
e non è più energica ma blanda;
gira in zona Cesarini senza il pathos dell’energico
tipo sturalavandino manovrato da un bambino;
fa miracoli lo stesso.
I problemi sul tappeto si ribellano e si fanno siderei
svolazzano giulivi su plaid da quattro soldi
inseguiti dai telegiornali. Zatterin, depistatissimo
si è già perso nel galattico…
Il tunnel della crisi ha metabolizzato così bene
la sua tenebra di tunnel che adesso è diventato incandescente
come la tenebra di Caproni quando lasciò Genova:
ci si sta magnificamente, tutti ci vogliono entrare
ha un gadget per ogni bisogna; schiarisce le idee
senza scomodare le panacee di Ferrarotti e i mass media
si sono accorti (!) che è esistito Giorgio Caproni.
La Poesia -buon ultima
comincia proprio ora a dare i numeri migliori
dopo che Ceronetti ne ha sentenziata la fine:
isolata, disattivata, sciroccata al punto giusto,
restituita ad un altrove che si svuota
nell’assenza di contatto, di comunicazione,
ridotta ad un essenziale che è vicino al nulla
GODE DI OTTIMA SALUTE!
E’ la bocca di Riviello che saetta una linguaccia
quando il dentista dice
apra bene che vediamo cosa c’è da fare.
Black out
Ma come caspita fa
-si chiedeva allarmatissimo Asor Rosa
in mancanza di corrente
a funzionare lo sciacquone?
PROFANATO dal dubbio
-e non poco risentito
nel bel mezzo della Lezione
agguantò il telefono e EX CATHEDRA
formò il numero dell’uscita di sicurezza
dei suoi quiz aristotelici:
Giulio Ferroni.
Ferroni
rabdomante dell’ordito letterario
nonché allevatore di formiche da corsa
compulsò testi
interpellò Cape Kennedy
buttò giù dal letto Paola Borboni
-il tutto in un quarto d’ora frenetico
poi emise il seguente (guarda caso)
ILLUMINATO responso:
lo sciacquone è omologo alla poesia
perché entrambi dirompono.
La poesia ha una precisa valenza
consentanea alla scarica elettrica.
L’unica cosa che può incepparla
sono le elucubrazioni dei poeti “mentali”
che si arrampicano sugli specchi per scriverla.
Chiaro che in mancanza d’ispirazione
manca anche la scarica elettrica
che la fa giungere a destinazione.
Laondeovepercui:
lo sciacquone funziona comunque
perché ispirato a sufficienza
dalla nobile incombenza;
la poesia gorgoglia, si arrabatta
ma non quaglia.
Rimane una scommessa inconcludente;
un transito di stelle sciroccate;
un corto circuito reticente
nell’orizzonte d’attesa del poeta.
Leopoldo Attolico