Scrive Francesco Di Giorgio in una nota al volume: «Nello spazio intermedio tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti si protende un margine di terra impercettibile, sottile, all’infinito, tra due mari tumultuosi. È la terra di mezzo dove s’incontrano le assenze, ma affacciarvisi porta allo slittamento della conoscenza in forme asustanziate in ideogrammi indecifrabili dove la percezione dell’essere si precisa nella privazione spazio-temporale e la comprensione del non-essere si attualizza nella certezza della sua assenza. La necessità di immergersi nei due mari per risalire al margine dal luogo delle forme e dal non-luogo delle assenze mi ha spinto a scegliere due distinte forme di scrittura, una poetica di stampo tradizionale, con la sua costruzione principalmente in endecasillabi, adatta a rappresentare il tentativo di portare a conoscenza assenze inconoscibili, e una in prosa poetica svincolata da qualsiasi forma metrica, in un contesto integralmente metaforico, adatta a rappresentare le assenze come presenze ineludibili alla comprensione dell’essere». In questa dualità stilistica risiede a mio avviso il pregio e l’originalità di questo libro la cui matrice lucreziana è evidente. Di Giorgio intende la poesia come discorso sull’essere e come domanda fondamentale della metafisica già heideggeriana sul senso dell’essere: perché l’essere e non il nulla? È evidente che data questa impostazione, lo stile richieda una dissertazione para filosofica, una terminologia di origine filosofica e uno stile parametrato sull’astratto, come scrive Francesco Muzzioli nella prefazione «la poesia filosofica, se vuole vederci chiaro su quei presupposti che sono il tempo e lo spazio, deve andare oltre i margini del quotidiano, abbandonare l’io e il suo preteso vissuto» e scavare nella «condizione ontologica» dell’uomo contemporaneo. «Una poesia dalla forte connotazione orfica», scrive Letizia Leone nella nota in calce al volume: «l’autore rivaluta pienamente la peculiarità “poietica” della poesia, il suo “fare”, il dare una forma all’informe cristallizzando l’incerto caleidoscopio dei sensi in immagine, tensione all’indicibilità che poi è il rovello di ogni poeta come ribadisce anche Valèry in parole che risuonano dense di significazione: “Credi di lottare con Euridice. Ti batti solo con te stesso. Sii vincitore di te. Lei sarà domata”. Le citazioni in esergo ai testi accompagnano il lettore come segnali luminosi che indicano il percorso, le parole dei grandi Dichter, poeti e filosofi, spiriti-guida in possesso della qualità della veggenza entrano in un dialogo lontano e virtuoso con l’autore: Rilke, Parmenide, Wittgenstein, Baudelaire, Empedocle, Heidegger e altri invocati come coloro che non hanno avuto alcun timore di confrontarsi con il numinoso. Questa poesia, nutrita della grande lezione dei classici, attinge al patrimonio mitico evidenziandone l’attualità extratemporale e metastorica soprattutto là dove il dettato tende a concentrarsi intorno alla valenza misterica. Per Ortega y Gasset la realtà “è un enigma proposto al nostro esistere. Ritrovarsi a vivere è trovarsi irrevocabilmente immerso nell’enigmatico. L’uomo reagisce a questo enigma primario e pre-intellettuale facendo funzionare il suo apparato intellettuale, che è soprattutto immaginazione”. E non mancano nella raccolta gli esempi di forti ed articolate costruzioni immaginifiche come nel testo “Enigma della Kore”»:
Quando la luna regalò in fragore
gli ultimi bagliori, fluidi nel vortice
dentro l’imbuto, lampi in filamenti
d’argento catastrofici piombavano.
Scalava l’ultimo sciamano il palo
degli dei, ma anche Apollo, facitore
del sole e della morte, raggelato
fissava Ecate e il senso del suo regno.
Giorgio Linguaglossa
La figlia della luna in bilico sull’ombra del vuoto
scivola sull’arco della cruna
e gioca con il compagno che
non riconosce come morto.
La madre della figlia della luna si fa
riconoscere dalla figlia come madre.
Si oscura per chiarire la visione.
La figlia della luna guarda il compagno
e interroga la madre.
Vorrebbe piangere.
L’ultimo perduto e il diseredato cercano
di guardare la madre della figlia della
luna ma l’intrico della foresta lo
impedisce.
Soffrono di solitudine.
Piangono.
Gli uccisi si muovono a fatica in quella
che riconoscono come foresta e
cercano l’uscita.
Il boato proveniente dal vulcano li
spaventa.
Gli uccisi piangono.
L’ermafrodito scisso in due crede di
vedere tra le figure degli scivolati che
risalgono dal vulcano l’altro sé.
Vuole lanciarsi per abbracciarlo.
Il detto-folle con un piede sul sesto
scalino agita violentemente il bastone.
L’ermafrodito scisso in due si distrae e
smarrisce la visione.
Invoca la madre della figlia della luna
ma questa non risponde.
L’ermafrodito scisso in due piange
Il detto-folle con un piede sul settimo scalino
guarda in basso.
Ride.
*
L’ermafrodito scisso in due decide di
scendere lungo le pareti esterne del
cratere.
Sceglie il crinale illuminato e questo lo
confonde.
Gli uccisi attraversano la foresta che
non riconoscono come labirinto.
Gli scivolati raggiungono l’ingresso
opposto del labirinto che riconoscono
come foresta.
L’ermafrodito scisso in due continua a
cercare l’altro sé. Si pone al confine
dell’ombra del vuoto.
Con un occhio non perde di vista la
madre della figlia della luna.
Gli uccisi incontrano il diseredato sulla
prima porta del labirinto.
Decidono di riconoscerlo come capo.
Gli scivolati entrano nel labirinto
dall’ultima porta dove incontrano
l’ultimo perduto.
Decidono di riconoscerlo come capo.
Il detto-folle con un piede sul decimo
scalino guarda la stella nera.
Con il bastone produce un lampo di
luce che abbaglia anche il padre della
figlia della luna.
Scompaiono le ombre.
La figlia della luna nella totale assenza
di buio perde la visione del compagno
morto.
Cerca invano la madre.
I diseredati e i perduti corrono in
quella che riconoscono come foresta.
Qualche punto di non-luce favorisce la
vista.
L’ermafrodito scisso in due smarrisce
la meta e scivola sull’ombra del vuoto.
Alle sue orecchie arriva flebile il pianto
della figlia della luna.
Il detto-folle dal dodicesimo scalino guarda
in basso.
Ride.
Francesco Di Giorgio
Francesco Di Giorgio, nato a S. Agata di Puglia (Fg..) il 03/ 07/1952, risiede a Roma dal 1956. Docente di Lettere negli Istituti Superiori di 2° grado, durante gli anni Ottanta ha operato attivamente nel panorama poetico romano, con il gruppo degli Iniustilisti (poesia detta) e con il gruppo Fosfenesi (poesia multimediale). Ha pubblicato le raccolte: Il sogno e il risveglio (1981), La morte del gallo dipinto (1983); Infinitesimale (1989, più volte rappresentato) e il poemetto Allucinazioni in penombra (1999). Dal 1990 al 1998 è stato responsabile e regista del laboratorio Teatrale dell’ I. T. C. “ S. Pertini “ di Roma, con il quale ha conseguito il primo premio nella rassegna “ Teatro-Scuola 95 “ a cura del Provveditorato di Roma e dell’Agiscuola. Nel 1998 ha dovuto forzatamente interrompere la propria attività, che ha ripreso solo ultimamente.