Edith Dzieduszycka con questo suo libro di racconti poetici si comporta come un commissario che stia eseguendo un sopralluogo sul luogo di un delitto, solo che non si tratta di un delitto normale ma di un delitto che si è consumato nella notte dei tempi tra le pareti dell’Inconscio; la poetessa si muove come in presenza di un fumus criminis; mette dei numeri sul luogo dell’anima, misura le distanze tra il cadavere e le cose, riepiloga l’accadimento con lo sguardo, lo ricostruisce con gli occhi, procede mediante ricostruzioni fantasmatiche, immagina il come e il quando è avvenuto il delitto dell’esistenza e, soprattutto, il perché. Il suo procedimento vuole mettere a fuoco delle cose sfuggenti, che non sono determinabili in quanto abitano luoghi profondissimi della psiche, là dove non c’è luce che illumina o occhio che possa esaminare quei recessi in ombra. Definisco questa operazione crittografia dello sguardo, iconologia dell’occhio, logometria della visione binoculare, giacché la poesia si dipana sempre a seguito di un atto di visione indagatoria. Edith Dzieduszycka si muove con circospezione, in sordina, in punta di piedi, in punta di penna ma va sempre al dunque, al centro della questione, non si tira mai indietro, circoscrive i suoi fantasmi con una forza incredibile, analizza i dettagli insignificanti, i fantasmi dell’inconscio, i misteriosi personaggi che abitano la zona liminale dell’inconscio, quella zona che delimita l’inconscio dal preconscio. Certi giri frastici ricordano il nitore e la raffinata trasandatezza metrica e lessicale della poesia di una Amelia Rosselli più che di una Fernanda Romagnoli; c’è distacco dalle cose, un albeggiare della dimensione fantasmatica dalla quale tutti dipendiamo senza rendercene conto; lo sguardo della poetessa è spietato, acuminato, va a fondo nel fondo dove non è possibile scandagliare oltre i misteri dell’anima umana. Capolavoro assoluto di Edith Dzieduszycka questo libro di racconti poetici (perché in origine erano dei racconti che poi la poetessa ha riscritto come poesia in versi liberi) si presenta con una scrittura di inaudita forza d’impatto: niente fronzoli, niente orpellismi, uno sguardo dritto nelle latebre dell’Inconscio, là dove il buio è più fitto. Uno dei massimi lavori della poesia che si ispira alla «nuova ontologia estetica». Presentiamo qui il primo racconto.
Donatella Costantina Giancaspero
Il retro di copertina firmato da Giorgio Linguaglossa recita:
Questi tredici racconti poetici di Squarci sono fondati sulla catena metonimica, viaggiano sullo «spostamento» più che sulla «condensazione», vogliono andare al fondo della materia infiammabile che costituisce l’inconscio. Il linguaggio dell’inconscio è metonimico per eccellenza, ha una sua strategia per aggirare ed espungere le difese dell’io. Ma l’io reagisce, passa al contrattacco, inventa «una storia», «delle vite», afferra «frammenti». L’io vuole raggiungere la domanda ultima, quella definitiva, ma si trova in scacco, non sa chi ha scritto quella «domanda», ed è costretto a capitolare. Il primo racconto accenna a dei misteriosi «personaggi» che «si negavano con ostinazione», che «si mantenevano allo stato larvale… nascosti nella culla del possibile»; si dice chiaramente che sono dei «fantasmi», «ectoplasmi» che stanno «immobili fermi zitti/ invisibili senza voce/ senza forma né consistenza», che sperano «di passare inosservati», di sfuggire alla «trappola». In questi soliloqui illocutori di Edith Dzieduszycka la catastrofe annunciata non avviene mai, viene sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es. La scrittura dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare un discorso finalmente «libero» sia dal senso che dal significato, libero dal sistema articolatorio dell’io. Il motto di Lacan: «Penso dove non sono e sono dove non penso», indica la zona occupata dall’Es e dall’inconscio. Una poesia come questa di Edith Dzieduszycka e della «nuova ontologia estetica» non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico, un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica effrattiva.
BATTAGLIA
Inventare una storia
una vita
delle vite.
Afferrare frammenti
strappati rubati sfilati ad altri
altri inconsapevoli indifesi spogliati
privati della propria pelle
del guscio protettivo
aperti sventrati esposti agli elementi.
Tutte emanazioni macerazioni carcasse
sbranate dal becco degli avvoltoi
dal dente delle iene
dalla bocca degli sparlatori
dall’indifferenza dei saggi
dal giudizio degli stolti.
Scavare nel mucchio
affondarlo rovistarlo
estirpare ogni filamento
sciogliere ogni nodo
rovesciare ogni diritto
appropriarsi di ogni residuo
conservare ogni reperto
sapere dove guardare
cosa scegliere cos’ascoltare.
Puntare come un cane
seguire le tracce
spiare le impronte
annusare le folate
andare controcorrente risalire le foci
stare in agguato del minimo segnale
di ogni sintomo gesto più insignificante
parola trattenuta frase interrotta
passo insicuro sguardo negato.
Fare di ogni erba fasci
lisciarli contarli legarli farsene carico
trasportarli immagazzinarli
metterli al sicuro
sotto chiave sotto sorveglianza
in angoli segreti sicuri inviolabili.
Amarli.
Perché bottino
perché tesoro
prezioso labile fluttuante
pronto ad evadere
malgrado corda catena nastro
promesse lusinghe minacce.
Non essere mai sicuri
tornare e ritornare
di giorno
di notte
su luoghi pensieri parole dubbi
verificare correggere controllare
non fidarsi stare in allerta misurarsi.
Non accontentarsi.
***
Si negavano
i personaggi.
Si negavano con ostinazione.
E non era dato sapere
se ancora dovevano arrivare
o se arrivati
erano già scappati
da ogni interstizio
da ogni crepa.
Se si nascondevano dentro le buche
sotto la sabbia
negli anfratti delle rocce.
Non si riusciva a capire
se avevano deciso di rifiutarsi
di trattenersi di comun accordo
di non saperne di venire alla luce
all’evidenza alla ribalta.
Se si ribellavano allo strapotere
di chi avrebbe potuto decidere al loro posto
di chi li avrebbe trasformati
in marionette
in fantocci senza volontà
costretti a promiscuità indesiderate
matrimoni forzati separazioni dolorose
lavori inadeguati rinunce penose
vergognosi fallimenti
di chi li avrebbe incanalati
dentro comportamenti condannati
di chi li avrebbe fatti tiranni vili assassini
ignoranti emarginati affamati
o santi navigatori scopritori poeti.
I primi della terra come gli ultimi.
Di chi avrebbe avuto il potere di costringerli
al silenzio all’immobilità alla poltrona
al letto alla morte.
Perfino alla non morte.
***
Forse si ribellavano.
A chi si sarebbe appropriato
del loro cuore
della loro mente
del loro sesso per il proprio piacere.
A chi avrebbe prestato loro
odio invidia violenza
o amore e bontà.
Senza possibilità di decidere
rifiutare dissentire opporsi.
Senza opportunità di poter scegliere
altre strade altri percorsi
altre compagnie altri compiti.
Così si mantenevano allo stato
larvale ipotetico virtuale
nascosti nella culla del possibile
in una posizione defilata di attesa
di diffidenza di paura di assenza.
Se ne stavano immobili fermi zitti
invisibili senza voce
senza forma né consistenza.
Ectoplasmi soltanto
nella speranza di passare inosservati
di sfuggire alla comune trappola.
Nell’incertezza del loro destino
rimanevano fantasmi
prigionieri dentro bolle evanescenti
internati come ciste infiammate e dolorose
da incidere con bisturi crudeli
dentro ferite chiuse prima di cicatrizzare
quando mostrano lembi frastagliati raggrinziti
aderenti a carni tumefatte e violacei.
Edith Dzieduszycka
D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per dodici anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione. Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi a Roma dove vive attualmente. Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, prefazione di Giampiero Mughini, Editori Riuniti, 2004. Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007. L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia. Nodi sul filo, racconti, Manni Ed., 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013. Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni di Paola Mazzetti. A pennello, poesia, La Vita Felice, 2013, postfazione di Mario Lunetta. Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Stefano Gallo e François Sauteron, 2014. Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro. Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius. Trivella, Genesi, 2015, prefazione di Sandro Gros-Pietro. Come se niente fosse, Fermenti Ed., 2016, prefazione di Paolo Brogi. La parola alle parole, poesia e prosa, Progetto Cultura Ed., 2016, prefazione di Giorgio Linguaglossa. Intrecci, romanzo, prefazione di Eleonora Facco, Genesi Ed., 2016. Dieci sue poesie sono presenti nella antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura Ed., 2016.
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, de Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, préface de François-Georges Dreyfus. Le sol dérobé, souvenirs d’un Lorrain, 1885-1965, Ed. des Paraiges, préface de Jean-Noël Grandhomme, 2016.
La poesia di Edith Dzieduszycka si muove anch’essa all’interno di quella gigantesca problematica che nel novecento è stata denominata «esistenzialismo», con il che deve intendersi il problema del senso dell’essere dell’Esserci, ovvero, della «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura caratteristica dell’esserci».1] Ecco alcune frasi paradigmatiche della Dzieduszycka:
«Le previsioni del tempo sono buone»
«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano»
«Due settimane fa, esattamente»
Ecco gli incipit delle tre poesie che introducono direttamente all’interno di «una» temporalità indicandone i limiti del calendario e, ironicamente, le caratteristiche climatiche della stagione; ma c’è anche un accenno ai tratti sopra segmentali del linguaggio umano: «Gli sguardi, i gesti, i silenzi» i quali, al contrario delle parole, «non ingannano». Ecco delineata la cornice temporale dell’esistenza umana, tra rammemorazioni, amnesie, rimozioni, denegazioni, abreazioni e informazioni, e poi «il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi». Anche qui ci sono degli elementi del quotidiano insignificante, banale, da rottamare, anzi, già rottamato, che entra nella sua poesia con il suo statuto di rottame, di frammento: «L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè», insieme ad elementi delle intenzioni e delle preterintenzioni: «Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette». Il parlato è fuso insieme al pensato e al quasi pensato; pensieri quasi inconsci friggono e collidono a contatto con i pensieri dell’io e con le istanze perentorie del super-io che irroga sentenze e sensi di colpa.
Nella poesia della Dzieduszycka si assiste al dramma eroicomico e serissimo della rappresentazione dell’angoscia come su un palcoscenico; le sue poesie sono sempre teatralizzate, teatralizzazioni dell’inconscio e delle sue peripezie: il problema principe è la indistinzione della «verità» dalla ciarla e la impossibilità di darsi un orizzonte di autenticità. Una oscurità profondissima impedisce di discernere il vero dal falso, il subdolo dalla mistificazione, perché c’è qualcosa nel fondo limaccioso dell’inconscio che ci svia continuamente, qualcosa di inconoscibile che sovrasta l’io:
«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».
1] Martin Heidegger Sein un Zeit, Verlag, 1927. Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi Milano, Longanesi, 1976 p. 231