I Canti leopardiani: Alla sua donna

b19Il canto Alla sua donna fu scritto da Leopardi in sei giorni come risulta  dall’autografo del settembre 1823. Nelle Annotazioni  alle dieci Canzoni dell’edizione bolognese del 1824, il poeta ritenne opportuno far procedere loro in forma di comunicazione bibliografica: La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste  e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli. É la donna che non si trova. Il poeta non sa se la sua donna sia mai nata finora, o debba mai nascere: sa che ora non vive la terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare. La donna per cui prova amore il poeta gli si mostra di lontano, o nascondendosi il viso, sicché lei non può scorgerne le fattezze; e solo un po’ più gli si rivela durante il sonno o nell’aperta campagna. Lei visse sulla terra nella bella età dell’oro; o, forse, il destino la riserva agli uomini dell’avvenire. Il poeta non incontrerà mai questa donna o, in ogni caso, la incontrerà solo dopo la morte quando la sua anima andrà per vie ignote. Dopo il suo abbandono ad illusioni, a desideri e speranze (magari l’avesse fissa nell’animo, nella contemplazione), innalza un inno: Lei è una delle idee eterne che Dio non volle, nel creare l’universo, darle una forma sensibile e abbia, dunque, dimora nella mente divina; o che viva in un astro disseminato, in una terra diversa da questa nostra illuminata da una stella molto più superba del sole.

 

ALLA SUA DONNA

Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?

Viva mirarti omai
Nulla speme m’avanza;
S’allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrà lo spirto mio. Già sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non è cosa in terra
Che ti somigli; e s’anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore
Quanto all’umana età propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg’io siccome ancora
Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni
L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.

Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m’abbandona;
E per li poggi, ov’io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de’ giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess’io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L’alta specie serbar; che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.

Giacomo Leopardi

2 commenti
  1. Una beltà che può irraggiare l’universo intero, e dunque la bellezza universale. Ne viene altresì che da essa discende la vita, visto che non è possibile concepire la felicità se non generata dalla bellezza, e chi non ha questa o l’ha solo a tratti è sulla povertà della sua vita che piange. Tutto ciò considerato che figura si determina di questa deità di nome donna? Quella di generatrice della vita universale, e dunque dell’essere.

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