Per una rilettura di Dante: Purgatorio, Canto IX, di Domenico Alvino

Dante_Alighieri_2

Una lettura operazionale1 del nono canto del Purgatorio di Dante, che dia il giusto rilievo a certi tecnemi che non pare siano stati granché considerati dalla critica, le nominazioni soprattutto, che in quel canto paiono numerose, è in grado di trarre ad evidenza operazioni di poesia che scoprono in quel canto la luce che pare gli sia propria.

E, prima, c’è la nominazione dell’Aurora disfatta di sesso e ancora disfacentesi nella guisa dello sbiancamento in atto, una volta fuori delle braccia dolci-amorose dell’amante:

La concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’orïente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;

Ché ‘amico’ infatti è dalla radice am come ‘amo’ ed ‘amplector’ (cingere, intrecciare le braccia intorno), onde anche in ‘amplesso’, ove ha prevalso, come ciò in cui quel senso più s’invera, il sema sessuale. E appunto questo am, con ‘amo’ ed ‘amplesso’ al suo seguito, viene su a fiore nella parola ‘amico’. Perciò ‘Concubina’, che per l’innanzi era solo chi cum aliquo vel aliqua cumbebat, acquista ora il suo moderno senso di fornicatrice viziosa. Non solo, ma la parola, con quel rientro nella notte dell’u in sillaba interna, tramite il lucido riflesso lampeggiante nell’i tonica, di là si spalanca nell’a finale a sfolgoro trionfale di giornata infine luminosa. È un tragitto da buio a luce, e il tramite è il congiungimento sessuale. Ma insieme è anche sfolgoro di anima luminosa in cui va a concludersi quel tragitto, come una maturazione entitaria amorosamente attuata, perché quelle braccia, con la dolcezza amorosa, ad Aurora davano, e da sempre danno ogni volta, nutrimento ontologico. Ciò la poesia trae dalla nominazione di “Titone antico”, in quanto anche lui disfatto, ma di vecchiaia decrepita, a cui lo ha indotto la vita viziosa. Dante però dice solo “d’innanzi”, con quell’ante che resta di ‘antico’ tolto il suffisso aggettivale ico, un ‘ante’ indefinito, che non precisa il tempo, ma lascia alla poesia di dire un ‘prima in generale’, prima del tempo stesso, che poi è quello che istituisce l’essere e se lo distende entro e lungo sé come sua storia, che è perciò anche storia d’essere, dell’assoluto Essere. E teniamo ferma questa avvertenza, che si è fatta innanzi da sé stessa nel discorso: il tempo, concesso che sia d’intenderlo come ente in sé che trascorra a prescindere da moti e successioni di fatti e pensieri, è fondamento dell’Essere, e se Titone è da prima del tempo, col suo lussurioso tempo, e questo gli si allunga e diviene il Tempo (e non si chieda come ciò possa essere, potendo benissimo non coincidere il tempo di Titone con il tempo in assoluto che si è qui supposto), ciò vuol dire che la poesia fa operazioni che il raziocinio non conosce. Posta l’uguaglianza fra il tempo di Titone e il Tempo in assoluto, anche questo come l’altro sarà lussurioso, e così l’Essere assoluto che vi si fonda. Non volendo, Dante ci dà questa nuova: l’Essere è in sé ammalato di lussuria, o almeno carico di peccato, il che lo condanna a finire, proprio come finisce il tempo che Titone tanto a lungo non potrà distendere, come dice il suo nome, fatto sul greco teìno, ‘io tendo’.

Ma non basta. In tutta questa terzina è implicita l’idea di un Titone2, sì disfatto di vecchiaia, ma anche d’amore, perché certamente è con lui che Aurora si è disfatta d’amore, da sempre e ogni volta, cosicché tale storia si presenta come storia dell’amore, ma dell’amore continuamente alterato in vizio purulento di materialità corporale. È questo il fine cui si tende in quel mito dei due, come storia di sesso e violenza, fine che è perseguito irresistibilmente fino a disfarsi. Ma è anche un disfacimento per fatica amorosa ecc. Poi c’è la mostruosità, per una donna, del color bianco («già s’imbiancava al balco d’oriente», e s’immagini il ribrezzo che susciterebbe una donna di carnagione bianca anziché rosea), colore che a torto, di qui pare, è stato abbinato come suo segno alla purezza di costume, per esempio, nelle spose, nelle vergini comparenti nei riti, nell’abbigliamento sacralizzante delle vittime offerte in sacrificio alla divinità, come del resto possono considerarsi le suore; è mostruosa anche la «figura del freddo animale

di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;

violenza e ribrezzo anche qui, con tutto quel che comporta la simbologia dello scorpione e il senso del “percuotere la gente”; e il volgere in giù le ali da parte dell’ora, che è gesto di angelo nero e minaccioso o di caduta e fine:

e la notte, de’ passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov’eravamo,
e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;

C’è poi ancora l’esser vinto dal sonno, e l’inchinarsi sull’erba da parte di Dante, e il sedersi susseguente di tutti e cinque:

quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ’ve già tutti e cinque sedavamo.

C’è poi la storia di turpe violenza sessuale subita da Filomela (la rondinella) e conclusasi in orrendo ammazzamento e mostruosa antropofagia:

Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai...3

Ancora, la sostanziale violenza del sogno di Dante, confermata dal richiamo del mito di Ganimede, rapito con violenza dall’aquila di Giove:

……
in sogno mi parea veder sospesa
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa;

ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro4.

Notare come alla violenza sessuale si accompagni il contatto tra divino e umano, come a dire che da Eros siam tratti fuori di noi, strappati a noi come per una perdizione e rovina, ma come pure nel colmo del godimento sessuale si apra la via di una spiritualità così intensa e pura che vi può scoccare la scintilla del divino.

Achille tolto dormiente alla madre e portato a Chirone centauro, forse fa dire alla poesia che la saggezza, pur sembrando mostruosa tra cavallo che vince le distanze ed uomo che si prefigura le mete, serve a mettere al riparo dalle passioni.

Svanito il sogno, Dante si sveglia e…

Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,

quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro

che mi scoss’io, sì come da la faccia
mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.

Il diventare smorto di Dante, nel ritrovarsi solo con Virgilio come dalla faccia gli fuggì il sonno, si assimila allo sconcerto di Achille al risveglio nella corte di Schiro, tra gente sconosciuta. Il sole era già alto da due ore, ma Dante volgeva il viso verso le acque generatrici (’l viso m’era a la marina torto), all’indietro cioè, perché la natura opera più nei sensi che nella ragione.

Più in là il poeta ammonisce il lettore a stare attento a come egli innalzi la materia e la rincalzi con più arte. Sicché ci sono sensi nuovi, che non si colgono se non con un di più di attenzione, e forse si tratta di un motivo che già fu intravisto e indicato dalla critica: l’amore era stato da lui concepito, alla maniera stilnovistica, come apertura spirituale verso la virtù e verso Dio; ai tempi di Paolo e Francesca egli si rende conto della natura sostanzialmente sensuale dell’amore per donna, e ne raccapriccia perché vi scopre il passo della perdizione eterna; ora gli è chiaro come, per la creatura umana, sia difficile non cadervi, e nel canto successivo la poesia lo rappresenta tramite la difficile salita attraverso la “cruna”, con la parete rocciosa che ora si allontana ed ora si avvicina, con il continuo pericolo di andarvi a sbattere, a meno che non si usi più attenzione, come fa Virgilio «in accostarsi/ or quindi or quinci al lato che si parte». E tuttavia, nel canto in esame, pur così fosco di tinte e richiami orrorosi, pare che il poeta recuperi alla totalità entitaria della creatura umana la dimensione sensuale e quella spirituale insieme. E guarda caso, ciò la poesia rende manifesto soprattutto nel varcare la soglia del Purgatorio, regno nel quale si mescola il nobile e l’ignobile, come – nel suono che sostituisce lo stridore dei cardini – si mescolano musica e parole (divine), che l’uomo non può che intendere or sì or no.

Domenico Alvino

1 Per la critica operazionale, vedere il mio, benché invecchiato, Poesia e riscrittura di poesia, apparso su “Aufidus”, Roma, Kepos Edizioni, 1999, anno XIII, n. 39, pp. 67-90.

2 Per quel che valga, annotiamo qui che questo nome richiama quello di un’antica dea dell’aurora, Titè, (Call. fr. 21, 3 Lyc., Hsch.), ed è di un figlio di Priamo rapito dall’Aurora. È inoltre imparentato, presso lessicologi, con quello dei Titani, tit£nej, per taluni ‘i vendicatori’, per altri ‘i rispettati’, per altri ancora ‘i tesi’ (te…nw). Richiama anche ttanoj, calce, gesso, pietra da gesso, onde qualcuno (Merlingen, Gedenkschift Kretchmer, 2, 57) l’ha accostato a skr. švitna, ‘biancastro’, che si accorda in qualche modo con Dante.

3 Allude alla favola di Filomela e Progne. Il marito di Progne, Tereo, violentò Filomela, troncandole poi la lingua. Le due sorelle gli diedero in pasto le carni del figlioletto Iti. Poi gliene mostrarono la testa: lui le inseguì di spada, ma la furia mise loro ali e si cangiarono Filomela in rondine, Progne in usignolo, mentre lui si mutò in upupa. (Ovidio, Metam., VI, 412-674).

4 Ganimede era un bellissimo figlio del re Troo. Giove invaghitosene lo trasse in cielo a far da coppiere agli dèi, togliendolo alla famiglia.

5 Due versioni. 1°: Teti, madre di Achille, volendolo rendere immortale, lo immerse nel fiume Stige o, come pure si narra, nelle fiamme, tenendolo per il tallone, il solo rimasto vulnerabile. Ne la impedì, inorridito, il marito Peleo. Lei, sdegnata, lo abbandonò, e lui portò il piccolo al centauro Chirone, che lo accolse e lo educò. 2°: Teti stessa lo portò dormiente a Schiro, dove visse vestito da femmina tra le figlie del re Licomede, perché non morisse, come vaticinato, in una guerra presso Troia. Fu Ulisse poi che lo smascherò e lo indusse ad andarvi.

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