Il poeta futurista Luciano Folgore, di Roberto Taioli

Luciano_Folgore

Luciano Folgore (Roma 1888- Roma 1966) amava gli pseudonimi a partire dal suo stesso nome che al secolo era Omero Vecchi. Ma tal vezzo di mimetizzarsi (come fece il ben più noto Pessoa con l’eteronomia di non poche sue opere) lo mantenne a lungo pubblicando con un ventaglio di nomi diversi alcune sue raccolte (Albano Albani, Esopino, Fiore di Loto, Er Moro de li Monti ed altri). Scomparso ingiustamente dal circuito editoriale, non manca ancor oggi di interessare non per mera acribia filologica, ma per la parabola poetica compiuta nel corso della sua vita di poeta ed artista. L’epoca in cui maggiormente ebbe successo fu quella dell’amicizia con Marinetti e del futurismo cui aderì nel 1909, producendo negli anni successivi raccolte che si ispiravano ai dettami dell’avanguardia; probabilmente a questo periodo si deve l’adozione del suo nome d’arte “Folgore”, a simboleggiare l’irruenza, il rumore, il fragore, elementi di rottura e di espansione che provenivano dal brulicante mondo industriale che si faceva strada nella sonnolenta Italia degli inizi del ‘900. Ma anche il nome “Luciano” viene adottato, si è fatto notare, in sintonia con la sensibilità del tempo, nel significato di “lucente”, contro tutto ciò che è opaco, oscuro, superato. Nasceva così la coppia “Luciano Folgore” che può essere letta come iniziazione al credo futurista. Aderiva così Folgore ad uno dei dettami della poetica futurista che proponeva di espellere l’elemento introspettivo dell’Io dalla letteratura, rovesciando l’attenzione del poeta verso l’esterno, la materia, la sensibilità, il concreto, visibile, tangibile, udibile. Si deve peraltro notare, per onestà filologica, che tra il tredicesimo e quattordicesimo secolo è vissuto un poeta dal nome di Folgòre di San Gimignano, autore di sonetti, probabilmente conosciuto da Luciano Folgore, segno di una traditio non del tutto rinnegata dal poeta romano. Egli stesso elaborò sull’onda futurista un suo manifesto nel 1913 Lirismo sintetico e sensazione fisica, riguardo al quale va notato che Folgore reintroduce la parola lirismo, ostracizzata dai vertici del movimento e qui usata ovviamente con una degradazione rispetto all’accezione classica. Il Folgore futurista è sostanzialmente un moderato all’interno del movimento e mitiga alcune delle più ardite provocazioni marinettiane. Il titolo che ben raccoglie questa nervosa sensibilità è la raccolta Il canto dei motori (1916) ed in essa la poesia La cellula che qui riproduciamo, ove compaiono parole di un lessico nuovo ed allora assolutamente provocatorio rispetto alla tradizione, anche se va detto che Folgore non raggiunse mai gli eccessi di altri autori futuristi a lui coevi. La cellula è qui tematizzata come adesione alla vita nel suo sorgere primigenio, come scaturigine primaria di vitalità e di energia, centro di irradiazione di movimento e di azione. In certi passaggi non è difficile individuare uno dei temi più cari dei futuristi, la dinamicità, velocità, cromaticità dell’automobile che modifica la stessa percezione del paesaggio:

Vita, erculeo sforzo
dell’infinito,
contro il silenzio, contro le tenebre..

Vita, schiena gigante
che come Atlante
reggi il macigno duro e perverso
dell’universo.

Cellula, raggio d’oro
che fori il cielo e squarci il mare,
che apri la terra,
guerra anelante, eterna,
contro la quiete che avvolge d’ombre
i moti e le speranze.
Odo il tuo rombo che si propaga
in ogni strada,
giallo,
violaceo,
come un igneo metallo che svampa
e stampa
linee d’amore
e zone di sogni nuovi

……………………………………
Cellula, giunge a te un canto
sul vento indomabile?
Giunge onda leggera
un’ala tersa di preghiera?
Sono gli uomini vestiti
di nuova tenacia,
d’originale volere,
sono le schiere acute
che rompon le storie e le glorie
delle ere passate.
E Te pregan con tumulto infinito:
“Nel rito di generazione
fa, o cellula, che tutto sia puro,
e rombi solo nel sangue
e balzi solo nell’Idea,
l’unico delirio che crea,
l’adorazione immensa del Futuro”.

folgore_luciano-parolibere-OM76b300-11343_20130430_Asta90_59La preghiera conclusiva al Futuro, mitico sole del progresso, segnala sì l’adesione del giovane poeta al futurismo, ma con una compostezza stilistica ed un ordine che troveremo in altre stagioni del suo impegno culturale. Ma un’altra lirica appartenente alla raccolta Città veloce (1919), fa emergere una sensibilità ed un esprit de finesse che smorza il realismo crudo tratteggiando una sensualità elegante e raffinata.

Tutta nuda
Te, nuda dinanzi la lampada rosa,
e gli avori, gli argenti, le madreperle,
pieni di riflessi
della tua carne dolcemente luminosa.

Un brivido nello spogliatoio di seta,
un mormorio sulla finestra socchiusa,
un filo d’odore, venuto
dalla notte delle acacie aperte,
e una grande farfalla che ignora
che intorno a te
non si bruciano le ali,
ma l’anima.

Questa lirica appartiene all’ultimo volume della stagione futurista di Folgore e prelude ad altri approdi. E si vero che nel componimento sono presenti ancora tracce sbiadite della tecnica futurista, ma che si intrecciano con forme della tradizione lirica nuova che provengono dall’ermetismo e più dal lontano dal simbolo francese e da Pascoli. L’uso dell’analogia è si raccomandato nei manifesti del futurismo, ma compare anche in altre poetiche coeve. La donna è posta in analogia alla lampada mediante le caratteristiche di quest’ultima (avori, argenti, madreperle) e richiama il topos della descriptio mulieris incastonato nella tradizione lirica italiana e medievale. Odori e colori configurano il gioco chiasmatico delle sinestesie , ma la materialità è trascesa e velata in un sottile timbro di delicatezza ove l’ardore non si decompone e non deborda, non tracima da un ordine. Nella raccolta Liriche Folgore, pur mantenendo lo pseudonimo giovanile, si allontana nettamente dai temi futuristi recuperando una visione lirica della poesia come servizio all’uomo, alla sua fragilità, alla sua piccola identità. Non più i temi roboanti, ma la parola che si piega e plasticamente si modella sul sentire più intino e raccolto:

Roberto Taioli

Arrivano tutti
i miei più lontani pensieri
come le ondate alla riva
che rasserena le acque
e maternamente le culla.
Arrivano all’orlo del sonno
e tremano i miei ricordi
poi scendono in fondo a quel nero
ch’è buio e mistero
del nostro riposo.
L’uomo che dorme
abbandona tutto il suo peso
alla terra che glielo ha dato
E che lo riprende ogni notte
perché l’anima possa salire
verso l’altezza del sogno,
ch’è un fiore d’aria e di luce
a sommo dei sensi mortali.
Più oltre saliremo domani;
ma occorre che dopo un giorno di pena
e di lavoro terrestre
lo spirito nostro s’affacci
sull’infinito e intraveda
l’immagine dell’eternità.
Se no nell’ora in cui la carne
Non è più che una vuota
prigione d’argilla
nessun’anima potrebbe
sostenere per sempre
la luminosa visione
e la solare presenza di Dio.

Luciano Folgore

2 commenti
  1. Interessante questo ricordo del protofuturista Luciano Folgore, ormai dimenticato, che dopo un inizio nel Futurismo e nell’amicizia con Marinetti, che gli servì per nutrire di iconoclastia la sua vena di umorista, come antidoto alle pose troppo intellettualistiche e artefatte seriose dell’arte italiana, quasi in un omaggio alla sua stessa giovinezza, come il capolavoro – Tutta nuda- riportato, dedicò la sua scrittura ad altro, con un grado di graffiante comicità . Le sue parodie pubblicate nel 1922 e nel 1926 (Poeti controluce e Poeti allo specchio) sono una ricerca del gusto popolare, contaminazione tra livello alto e livello basso, tra poesia e cabaret, che riflettevano ancora la lezione dell’avanguardia. Notevolissime la parodia della dannunziana Pioggia nel pineto : Folgore giocava sul contenuto, deformandone serietà e profondità, con la sovrapposizione di un fatto visivo, quotidiano, banale:
    E piove soprattutto
    sul tuo cappello distrutto
    mutato in setaccio
    che ieri ho pagato
    che adesso è uno straccio,
    o Ermiöne
    che scordi a casa l’ombrello
    nei giorni di mezza stagione.

    O quella pascoliana Alba in cui prendeva di mira i versi leggeri e dubbiosi di Giovanni Pascoli, trasformati in incertezze, esitazioni un po’ stolte, quasi ebeti:
    Gli orti di Barga stavano, pervasi
    da un lieve freddo, lieve, così lieve
    che a dirlo non faceva freddo, quasi.
    Brina? Sì, no. V’era un biancor di neve,
    un presso a poco, un nulla, una chimera
    e qualche schiocco nella strada breve.
    A un tratto parve che dal ciel piovesse
    un po’ di guazza, ma non piovve affatto,
    com’uno che dicesse e non dicesse.

    Certamente, per la ricchezza del suo lavoro, un autore da leggere, da non dimenticare.

  2. Preziosa sintesi, Roberto, su un poeta da te perfettamente inquadrato. La medietas da lui perseguita nel contesto futurista conteneva già come una fatale benché inauspicata necessità il grigiore dai toni dimessi o EVASIVI dei “ritorni all’ordine”. E il suo lirismo antagonista riafferma la natura musicale (sia pur rumoristica russoliana diaghilieviana deperiana) della poesia, che resta arte del fare cantando e del cantare il fare/farsi.
    Trovo prezioso altresì l’averne ricordato nel commento che precede lo spirito sulfureo parodistico che, in pieno tedio dei Twenties e della violenza ordinatrice in doppiopetto e manganelli, sfotteva quei pilastri della didattica di regime ammannita nelle scuole come grande poesia.
    La sua ultima fase, a mio modesto avviso, rispecchia invece ammodino l’adagio milanese che una mia zia, donna brillante, assai libera e spregiudicata, mi citò quando – rimproverandola io per essersi andata a buscare un’influenza per assistere in Duomo alla cerimonia iniziale dell’Avvento Ambrosiano alla veneranda età di 83 anni (sarebbe morta a 91, lucidissima e spiritosa) – disse: “Quand el corp el se früsta, l’anima la se giüsta!”. Ma perdoneremo al buon Omero Vecchi questo peccato.

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