Antonia Pozzi nasce a Milano nel 1912, la condizione agiata della sua famiglia le consente di avere molte possibilità: un palco riservato alla Scala, la possibilità di dipingere, suonare il pianoforte, fare sport, equitazione, sciare nelle migliori stazioni alpine e viaggiare molto. Inoltre la sua grande passione per la fotografia la farà approdare a risultati artistici degni di nota. Dopo gli studi liceali, dove conosce Antonio Maria Cervi, suo docente di latino e greco, e grande amore della sua vita e tenacemente osteggiato dalla famiglia, ha il privilegio di far parte della prima generazione di donne che abbia frequentato l’Università in Italia. Si laurea in Lettere con Antonio Banfi nel 1935, stilando una splendida tesi su Flaubert che ottiene il massimo dei voti e la medaglia d’oro della Fondazione Donati per la filologia straniera nel giugno 1938. Banfi invita la Pozzi a rivedere la tesi in vista di una pubblicazione che purtroppo avverrà postuma con prefazione dello stesso Banfi nel 1940. L’importanza della sua famiglia le avrebbe consentito facilmente di accedere a salotti e ai cenacoli tra i più altolocati di Milano ma la sua sensibilità trova nell’ambito universitario milanese un ambiente ben più adatto. Qui conosce Enzo Paci, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Mario Monicelli e, soprattutto Dino Formaggio e Vittorio Sereni, la cui amicizia fraterna avrà in lei un notevole influsso. La sua raccolta di poesie, dal titolo Parole, esce nel 1939 in edizione privata, dopo il suo suicidio, avvenuto a ventisei anni, il 3 dicembre 1938, e riscuote un immediato consenso tanto che anche Montale afferma che «questo è un libro che va incluso in una collezione di opere veramente significative del nostro tempo», è una voce «leggera, pochissimo bisognosa di appoggi densa di possibili sviluppi, purtroppo troncati dalla morte precoce».
Da tutta la sua produzione poetica traspaiono spesso i segni di una profonda inquietudine dell’anima, della fragilità, del dolore, della fatica di vivere e della forte nostalgia della morte. Anche nelle ultime lettere traspare l’ indicibile dolore e riecheggia la volontà del suicidio come speranza contro ogni speranza, in particolare nell’ultima a Dino Formaggio scritta il 2 dicembre 1938, il giorno del suicidio leggiamo: «Dino caro sono venuta a morire in un luogo che mi ricorda la nostra gioia di un’ora. Giugno, mezzogiorno, Abbazia di Chiaravalle e papaveri in fiore. Chiudo gli occhi con quell’immagine stretta al cuore — Anche tu ricordami solo col volto di allora. Addio». Alcune analoghe considerazioni sulla speranza sono quelle che Giacomo Leopardi ha fatto nello Zibaldone dove arriva a dire che la speranza non muore nemmeno quando si sceglie di morire: «Chi si uccide da sé, non è veramente senza speranza, non più che egli odi veramente se stesso, o che egli sia senz’animo di se stesso. Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è in certo senso un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza…» ed ancora: «L’animo umano è sempre ingannato dalle sue speranze, e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace di esserlo: aperto non solo, ma posseduto dalla speranza nell’atto stesso del suicidio. La speranza è come l’amor proprio, dal quale immediatamente deriva». Antonia Pozzi ci lascia così le sue poesie dove spesso l’esperienza di un vuoto interiore si nutre di nostalgia della morte, una morte volontaria, come della più forte delle speranze.
Fabrizio Milanese
PRATI
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l’abbaglio estremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
GRIDO
Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono –
essere senza ieri
essere senza domani
ed acciecarsi nel nulla –
– aiuto –
per la miseria
che non ha fine –
CONVEGNO
Nell’aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti –
sul mio volto.
MESSAGGIO
E tu, stella acuta notturna
splendi ancora
se per il solco delle strade
grida la triste anima dei cani.
Sorgeranno colline d’erba magra
a coprirti:
ma nel mio buio conquistato
brillerai, fuoco bianco,
parlando ai vivi della mia morte.
*
Abbandonati in braccio al buio
monti
m’insegnate l’attesa:
all’alba – chiese
diverranno i miei boschi.
Arderò – cero sui fiori d’autunno
tramortita nel sole.
Antonia Pozzi
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