La scrittura di Corrado Calabrò merita un’analisi concentrica, attraverso l’esegesi psicoanalitica; discussa e analizzata dalla critica militante, nell’arco di oltre un cinquantennio (1960-2014), è stata esaminata nei suoi valori formali ed espressivi, ma non è stata sufficientemente valorizzata nelle sue forti peculiarità psicologiche. Ed è ciò che si tenterà di fare, in quanto lo si ritiene un completamento assolutamente necessario, e forse imprescindibile, per comprendere appieno questo complesso ed originale poeta. Un’attenta lettura psicoanalitica s’impone, senz’altro, per monitorare “stati d’animo”, immagini e un vasto scenario fantasmatico, visto con la lente rifrangente dell’introspezione. Il poeta, per non assistere al triste spettacolo della realtà, declina il fantasma della sua ispirazione ad una surrealtà emozionale, affidata all’arte combinatoria della scrittura, che, talvolta, si desemantizza con uno smontaggio simbologico di rinvii e di connessioni analogiche. La tessitura delle immagini transita dal voluttuoso al seducente, dal melanconico all’elegiaco, dall’ironico al grottesco; questo attraversamento non risparmia neppure il sapiente connubio tra poesia e scienza, che rinvia alla scena onirica e catalizza l’alta tensione dell’altro da sé. Con l’analisi dell’inconscio si cerca di cogliere le esperienze reali con l’epifania dei ricordi, correlati alle immagini e al peso delle tracce mnestiche, contrassegnate dall’anestetico oblìo. La denuncia del poeta veicola convesse specularità di un universo immaginario di una surrealtà, che si delinea lungo il magico asse della poesia. Il poeta è assediato dai propri fantasmi, nella risacca di un tempo acronico e nel disincanto della caducità. La vis dirompente della parola, dei sintagmi e delle metafore viola lo spazio della coscienza e la macerazione interiore, che viene potenziata da un pensiero che è interdetto dal dis/ordine della realtà e dal fomite dell’ispirazione. Il trasalimento amoroso rompe la rete analogica del visibile, contenendo la realtà cosciente, in uno spazio completamente lontano dall’universo fenomenico, nell’indecifrabile mondo dell’inconscio. Nel turbine dei pensieri concentrici, la dissonanza isola il verso alato, che è sempre alla ricerca del significato profondo: la realtà viene sospesa sul piano inclinato dell’illusione e viene raccontata mediante la vieta liturgia della parola, che riesce a trasmettere, con una resa incondizionata, le dissolvenze trasversali del sentimento amoroso. La coscienza del poeta è affidata alla decantazione del non-detto e al “pensiero dominante”, che compensa l’eclissi della ragione, prima di sprofondare nell’abisso dell’essere.
Quando viene colpita la pietra focaia dell’ispirazione, una densa trama di slittamenti e di metafore liberano, per via associativa, lo “stream of consciousness” del poeta. Da queste intense emozioni, traspare l’autoritratto, che si dissolve nel “fantasma” della poesia. Questo attraversamento trasmigra verso un inconoscibile altrove, che, con un flusso incalzante di immagini, compone un variegato regesto compositivo. L’illimite, per Calabrò, vortica, in uno scenario inconscio; egli elabora un’ipotesi liberatoria che oblitera “il principio di realtà” in un “principio di piacere”, associandolo, con il travestimento del ricordo, all’imago della donna e all’archetipo del mare. Nel suo inconscio, i contrari tendono a confluire nella scena primaria con pensieri che traspaiono dal lavoro onirico. «Uno strappo nel cielo di carta» ci consentirà di cogliere i rapporti tra inconscio e coscienza e la compensazione del desiderio avverrà attraverso il risarcimento sublimativo. L’appagamento, a fronte della sotterranea malinconia esistenziale, trasforma il processo secondario in quello primario. Il sovrapporsi dei segmenti psichici raccorda le linee asintotiche dell’universo fantasmatico e, sotto il segno del disincanto, il fantasma guida le “azioni mentali”, determinando un’osmosi tra memoria ed emozione. Il pensiero onirico rompe gli argini e pervade la mente del poeta. Per Calabrò, “il pensiero poetante” diventa una “categoria dello spirito”, la cui matrice introspettiva conserva le tracce mnestiche e il dono della creatività. “L’eccedenza dell’indicibile” è, per il poeta, l’eco interiore della parola: «È dal non detto che scaturisce l’evocazione: solo che – è questa la peculiarità – si tratta del non detto indotto da quella particolare espressione. È essa e essa soltanto a produrre quella vibrazione interiore che trasforma la ricezione in consonanza. Sta qui la differenza (parziale) con l’ipertesto, ancorché l’annuncio che ci suggestiona non sia (per la poesia come per l’ipertesto) quello che il nostro autore voleva trasmetterci bensì quello, seminconscio, preterintenzionale, che si rivela a lui stesso solo nell’atto in cui lo decifra per noi», così Calabrò, ne Il poeta alla griglia (2003). Il furor è centrato sulla spoliazione del sé e l’attesa e il desiderio erodono l’onnipotenza narcisistica e la poesia ruota attorno al milieu della composizione dei contrari, alla ricerca dell’illimite. Sulla scena psichica agisce un prevalente sintomo ossessivo, rivolto all’io ideale e all’inutile fatica di rimanere nel perimetro della coscienza. L’attento scandaglio è rivolto alla scena primaria e il doppio è fagocitato dall’altro da sé; la tessitura onirico-fantastica cattura, attraverso il deragliamento e gli slittamenti di senso, scatti memorabili, che si addensano con connessioni analogiche a rapidi mutamenti di registro stilistico.
Lungo il versante diadico del dentro/fuori, la logica di questo scenario inconscio trova una sua plausibile spiegazione nell’ermeneutica della bi-logica di Ignacio Matte Blanco. In questa direzione interpretativa si possono svelare i paradossi dei vari retroscena: un crocevia di confluenze che vanificano la logica formale. Il ripiegamento introspettivo del poeta amplia la coscienza del sé, attraverso la realtà fantasmatica; l’io può esser letto secondo il principio di piacere e non più secondo il principio di realtà: «Io sono convinto, rileva Freud, che il vero godimento dell’opera poetica provenga dalla liberazione delle tensioni della nostra psiche. Forse contribuisce non poco a tale esito il fatto che il poeta ci mette in condizione di gustare le nostre fantasie senza alcun rimprovero e senza vergogna». «Egli crea un mondo di fantasia, che prende molto sul serio; […] pur distinguendolo nettamente dalla realtà»1. L’attività fantastica del poeta surroga la non-vita e il piacere preliminare libera le tensioni della psiche nell’appagamento dell’immaginario, che sostituisce il principio di realtà, conciliando i due principi dell’accadere psichico. Dal mondo fantastico (principio di piacere), il poeta perviene alla realtà (principio di realtà), trasfigurando le immagini in soddisfacimento pulsionale: la coscienza dell’io interagisce con l’altro da sé. Anche «le intermittenze del cuore» (eunoé/leté) vanno intese come ri/cerca dell’identità e del modo di essere indivisibile, secondo l’epistemologia della bi-logica. Questa logica “irregolare” rafforza “la potenza formativa del fantasma” e “l’antinomia fondamentale” dissolve la categoria spazio-tempo e la distinzione soggetto/oggetto. Cristallizzata dall’implosione, la condizione psicologica del poeta ha una risonanza pirandelliana: «Alienato dai sensi, ne serba più che gli avvertimenti il ricordo, com’erano; non ancora lontani ma già staccati: là l’udito, dov’è un rumore anche minimo nella notte; qua la vista, dov’è appena un barlume; e le pareti, il soffitto (come di qua pare polveroso) e giù il pavimento col tappeto, e quell’uscio, e lo smemorato spavento di quel letto col piumino verde e le coperte giallognole, sotto le quali s’indovina un corpo che giace inerte». André Gide dirà di Marcel Proust: «Lo si è detto spesso: i giudizi che diamo sui nostri contemporanei sono contraffatti. Oltre a essere vincolati dalle nostre amicizie, non abbiamo il distacco necessario e, a seconda dell’umore, denigriamo o esaltiamo fino all’eccesso coloro che operano troppo vicino a noi. […] Mi ero ripromesso di non parlare più che dei morti; ma tuttavia mi affliggerebbe non lasciare nei miei scritti alcuna traccia di una delle ammirazioni più vive che abbia mai provato per un autore contemporaneo…»3. La capacità di resilienza di Calabrò è nel suo dettato amoroso, perché racconta se stesso con la forza d’urto della sua ispirazione. Oliver Sacks, da scienziato, così scrive, parlando della sua passione letteraria: «L’atto di scrivere, quando va bene, mi dà piacere, una gioia, che non somiglia a nessun’altra. Mi porta in un altrove che mi assorbe interamente facendomi dimenticare tutto, ansie, preoccupazioni e persino il passare del tempo. In quel raro, paradisiaco stato della mente arrivo a scrivere senza sosta fino a che non riesco più a vedere il foglio. E solo allora scopro che è scesa la sera…».
Carlo Di Lieto ( Introduzione de “La donna e il mare: gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò”, Roberto Vallardi Editore).
HO GLI ORECCHI PIENI DI MARE
Così, librata su un pallone d’acqua,
galleggia la mia zattera sull’ombra
come un pianeta, sullo spazio oscuro,
sostenuto a distanza da una stella.
Ho gli orecchi pieni di mare.
Ho l’anima che come una medusa
biancheggia, nottambula, in cresta
al fluttuare violento dell’acqua.
Dell’acqua, rigonfia d’ignoto;
dell’ombra, ch’è tiepida di te.
Corrado Calabrò (Una vita per il suo verso – Poesie 1960-2002, Oscar Mondadori)
Meriterebbe forse una riflessione più ampia e formalizzata, l’argomento, ma scorrendo l’incipit del saggio su Calabrò mi è venuto spontaneo annotare una cosa almeno, riflesso condizionato dal mestiere di docente: e la voglio esternare con malagrazia tuttavia impari all’insoddisfazione che covo al riguardo.
Quanto diavolo intendiamo ancora aspettare, prima di portare la poesia del Novecento a piene mani, e quella della sua seconda metà soprattutto, nei programmi di italiano dei nostri licei? Ogni anno vedo i miei studenti marciare e marcire inutilmente sui cascami romantici, sulla pochezza di tanto secondo Ottocento, trascinati da docenti senza coraggio, lasciati alla deriva da ministeri senza intellettuali al servizio della causa dell’istruzione e dell’educazione. Il seghificio della scuola italiana (l’espressione è di Sebastiano Vassalli, i cui capolavori narrativi sono vergognosamente e indecentemente tenuti lontano dalle scuole) continua nel suo sterile tributo ai totem rassicuranti e infertili ormai di un passato la cui distanza ed estraneità generano la noia utile a far divergere le menti dei giovani dalla sostanza del presente – disegno politico di raffinata imbecillità.
Così continuano le overdosi del vecchio (che è altro dall’antico), risuonano nelle aule gli Inni Sacri del Manzoni con la celebrazione del virgineo pallore (e si omettono, magari, pel solito pruriginoso ipocrita pudore, il Praga, il Guerrini, il Camerana, padri della musicalità venuta di poi); s’indugia su D’Annunzio (del quale andrebbe una volta per sempre detto che è buono giusto per la tecnica poetica e per 5-6 componimenti al massimo) per non turbare le menti con la ferocia del Carducci o del Guerrini-Stecchetti suoi contemporanei; si perpetua la liturgia minimalista del Pascoli fanciullino e da tamerici (ignorandone, magari, il poderoso Ulisse). Spariti sono – dopo i contrastati decenni nei quali Salvatore Guglielmino, pur con tutte le sue censure marxiane, portò in un manuale i simbolisti (ma non l’immenso Kavafis), e li accostò a Rebora e Sbarbaro, a Cardarelli e persino a quel coglione di Papini, per preparare il terreno a Montale giù giù fino a Sanguineti, Pasolini, Fortini – spariti e cancellati i protagonisti del Novecento. Servirebbero Giudici e Cavalli, De Libero e Govoni, forse qualcosa di Raboni, un pizzico di Gruppo ’63, vado alla rinfusa; e poi pescare nel vasto laboratorio che fra i ’70 e questi ultimi anni ha prodotto poesia altissima.
Siamo dunque destinati a vivere il nostro tempo senza averlo conosciuto? Vi esorto alla rivolta.