Corrado Calabrò ha dedicato tutta la sua attività creativa alla poesia, sostanziata in oltre venti raccolte nell’arco di circa cinquant’anni. Per meglio intendere la sua poesia, giunge in libreria un documentatissimo saggio di Carlo Di Lieto che ne esplora l’opera adottando l’originale metro della psico-critica. Calabrò è stato oggetto di qualificate analisi; di lui si sono occupati Piero Cimatti, Carlo Bo, Mario Luzi, Elio Pecora, Domenico Rea, tutti hanno descritto il suo mondo “intenzionale”. Di Lieto ci fornisce una chiave di lettura al tempo stesso insolita e definitiva in quanto riporta il testo ad una matrice ispirativa inequivocabile. Secondo il critico, infatti, la chiave per intendere la poesia di Calabrò è da rintracciare nella dicotomia tra la donna e il mare. Una suggestione fondata evincente. Scrive Di Lieto: “La voce del poeta è nell’anima delle cose naturali, la particolare sintonia è nella voce del mare“. E poi ancora: “La personificazione del mare è la doppia anima del poeta, il suo subcosciente viene alla luce senza infingimenti. Un amplesso voluttuoso, vissuto fino all’estasi dello sfinimento“. Ma come avviene anche nella poesia di Eugenio Montale, il mare rappresenta necessariamente il luogo in cui si abilita l’esperienza, si misura cioè la capacità della “equorea creatura” di assolvere il proprio destino in un agone tempestoso ma nel quale si inverano sogni e passioni. Il lucidissimo studio di Di Lieto ci consente una riflessione più ampia che attiene proprio alla peculiarità della poesia e al suo significato e che anche Calabrò può accogliere nel proprio humus creativo, vale a dire l’indispensabile funzione del poeta nella società di tutti i tempi in quanto tramite ed interprete di quello che Richards definì “una musica d’idee“, vale adire la lunga, difficile, armoniosa meditazione sull’esistenza.
Antonio Filippetti
da La Repubblica, sabato 29 ottobre 2016