Pierluigi Cappello, “Azzurro elementare”, Rizzoli, letto da Luca Cenisi

Cover CappelloPierluigi Cappello, Azzurro elementare. Poesie 1992-2010, Rizzoli, Milano, 2013  

Azzurro elementare non è solo apice lirico, ma narrazione – vivida e appassionata – di un’esperienza aspra ed essenziale. Una cronistoria che oscilla tra l’“autobiografismo” delle origini (“Uno soltanto tu mi sei poeta/marino, che con l’iride d’azzurro/brevi ansietà d’imbarco mi riveli”) ed immedesimazione poetica (“stai ogni giorno dentro le parole/nella forma delle cose mentre le si osserva”), tra la consapevolezza amara, eppure autentica, di un dolore che ci “è dato” (“Aprii il libro di Odisseo/e il libro cominciò con la sconfitta”), e la levità del sentimento per le cose, che pure sostanziano un ideale di “riscatto”, onnipresente tanto nella storia quanto nella letteratura. Così, il verbo di Pierluigi Cappello è declinato in una prima persona mai chiusa al singolare, ma alla costante ricerca dell’”altro”, del senso criptico della natura che cambia eppure resta essenza viva e costante, come il pendolo che oscilla e ad ogni apice ritorna al suo centro. L’ombra è ombra, ma anche rivelazione e segno tangibile di salvezza (“[…]l’ombra versata la sera sulla soglia/il minuto posato nell’attesa/ci libera dalla morte ereditata”), inno ad una poetica “della resistenza” in senso stretto, di un linguaggio che non si arrende alla corrente degli eventi, ma trova, ad ogni pagina, nuovi emissari, nuove diramazioni (“qui resistere significa esistere”). Parentesi di un mondo intimo e rassicurante si alternano a scenari della terra natia dell’autore (il Friuli), seguendo un lessico sorprendentemente spontaneo ma invariabilmente legato alla polisemia dei propri elementi. Così, per Cappello, scrivere è allo stesso tempo esercizio di memoria e allontanamento dall’io storico; è un po’ come dimenticare, come “tenere un mondo intero sul palmo/e dopo soffiare”.

Luca Cenisi

 

NAMAZIANO

Non le barche, le scapole dei servi
amare al peso del trasloco, o l’alba
marina di Roma; lui magister
alzò su di sé lo sguardo, divenne
zona viva tra il suo respiro e l’altro
il filo e la sostanza del poeta;
allora non fu partenza il congedo:
nero, in mezzo, lo scalpito del mare
oltre l’indice teso del pontile.

 

VOCI

Dopo il lavoro i bisbigli scoloravano nel grigio della sera
la fatica è stata questo vostro parlare, dalla fatica
il fare con le mani, il fare con i tendini
e le vene gonfie del collo
un tremare di poca acqua tra i sassi;
ho riunito le vostre voci nel ricordarvi
e sono dove vi penso, tutti, nei vostri giorni di freddo
saliti dalla neve pestata, nella memoria mia,
nella dedizione al vivere passata per ore
di mese in mese più veloci e trascurate
come indirizzi scritti in fretta, nomi subito dimenticati;
per non scolorare nel grigio della sera, sono dove vi penso
al graffio del tempo, ruvido,
in ginocchio, nell’erba alta.

 

MI SPECCHIO

Con te prendo la sinistra per destra
e la carezza, dio, com’è leggera,
come l’estro dei cirri di stasera
o il verso di un arcade alla finestra.

Pierluigi Cappello

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