“Ritratti in controcanto” di Marisa Ferrario Denna letto da Silvio Aman

Marisa Ferrario Dnna cop
Marisa Ferrario Denna, Ritratti in controcanto Nomos Edizioni, Busto Arsizio, 2011, € 14
La struttura di Ritratti in controcanto, opera che Marisa Ferrario Denna dedica a poetesse e pittrici, ma anche a celebri figure di donne appartenenti al mito e alla letteratura dell’antichità, distribuite nelle sezioni Scrivere e Dipingere, l’ha ben definito Alida Airaghi nella sua interessante prefazione: alla poesia “introduttiva, che presenta nei tratti essenziali la persona dell’artista, ed è scritta a volte in prima persona (in una sorta di autobiografia sovrapposta, di elezione), ma per lo più è rivolta a un tu fraterno, corrisponde in controcanto una seconda poesia, più breve, spesso epigrammatica, in cui l’autrice offre il suo ammirato o impietosito, solidale o consapevolmente amareggiato, omaggio alla donna e all’artista raccontata”. Sotto quale profilo si sviluppi questo omaggio, ce lo suggeriscono alcune poesie dove l’Autrice, specialmente nella sezione dedicata alle pittrici, distingue l’immagine narcisistica e “altra” riflessa dallo specchio dalla ricerca della verità che comporta il “vedersi […] dentro”, come leggiamo nel controcanto di Angelica Kaufmann, dove “vedere” e “guardare” parrebbero introdurre una differenza nella loro presunta sinonimia: si può infatti guardare o essere guardati – dallo specchio – senza scorgere alcun elemento significativo. La messa in gioco dei due termini comporterebbe, in aggiunta, un’oscillazione fra l’interprete, in cerca del dettaglio rivelatore, e l’interpretato. Nel couplet di Anna Maria Ortese troviamo: “Non so se guardo io. / Non so se vedi tu.”). Ad assumere maggior specificità sono comunque le parole riferite a Sofonisba Anguissola, il suo desiderio di voler “capire le anime” attraverso il dettaglio epifanico – e con questo l’Autrice fa il passo decisivo, cogliendo anche lei “il bagliore del vero” cui non necessita l’analisi formale dell’insieme e neppure l’abusata ‘penetrazione’: “Dei grandi di Spagna / ho conosciuto la vita / […] / Ma io volevo capirne le anime, / sciogliere, liberare da quei volti segreti / l’epifania del dettaglio che accendesse – nel quadro – il bagliore del vero […].” Gli ultimi quattro versi del controcanto istituiscono, inoltre, una giustificata differenza fra l’icona racchiusa una volta per tutte negli invalicabili confini del campo visivo, dove scoprire l’unico tratto rivelatore di un’intera vita, e l’irrefrenabile dilatazione del linguaggio: “Poterla ritrarre / – a parole la vita – / sarebbe una nenia: / sterminata, infinita.” La lettura di Ritratti in controcanto lascia trasparire, sia pur da lontano, l’impronta della famosa Spoon River Anthology: identificazione dei soggetti storici, anziché inventati, tramite la ‘loro’ stessa voce, costante presenza del nome proprio, seguito da alcuni rilievi biografici espressi in modo icastico e succinto; presenza della memoria, con i tragici effetti perpetrati dal tempo… “Sopravvivo al mio tempo / dentro un corpo invecchiato” (Doroty Parker) e a tratti anche qualche prossimità nel tono: “Fu dai calcagni, sai, che lo conobbi, / là dove più stampo la cicatrice” (Giocasta). Maggiormente rimarcabili sono però le differenze, perché con la sua affascinante musica la Denna eleva il crudo discorso dell’Anthology (che Lee Masters definì meno della poesia e più della prosa) e intona la voce di queste anime dilacerate, spesso con le oscillazioni di un Gondellied, come si legge in Virginia Woolf, in Matilde Manzoni e in tante altre… “Ma gli occhi, Virginia, / che guardano gli occhi? // Un’onda che viene. / Un’onda che va. […] / e ho pianto molto, sai, quasi stremata / da una bellezza che mi strazia il cuore: / anche per la giovinezza passa. / Anche per me ogni speranza muore.”
Lo scarto, rispetto all’Anthology, si rende ancor più marcato ogni qual volta l’anima dell’Autrice vibra empaticamente con quella delle sue eroine, alle quali offre la generosa prova d’amore del riconoscimento. Scarto subito avvertibile per la scelta di rendere il dovuto omaggio solo “a figure femminili eccezionali della storia mondiale” (Airaghi) ma soprattutto per la cornice, avendo la Denna elevato il camposanto (dove Edgard Lee Masters immagina di ascoltare i tragici epitaffi narrati dagli stessi sepolti, eteroclita folla composta da presidenti di banca, cani fedeli, guardiani notturni, bottai, derise poetesse del villaggio, farmacisti, povere donne morte di parto…) al livello dei Campi Elisi. Questo perché la sua galleria, sebbene gravata da un doloroso senso di sconfitta e delusione, rappresenta pur sempre la sublime accolta di chi ha creato cose grandi e belle, e a cui sente di appartenere lei stessa – anzi, sotto questo profilo le loro creazioni, come la donna nera ritratta da Marie-Guillemine Benoist, continuano a produrre arte e pensiero in artisti, biografi e studiosi. Anche Lee Masters sentiva – e in modo molto efficace – quanta scontentezza, solitudine, pessimismo e speranze deluse si annidassero nel cuore dei suoi concittadini del Nord America, di cui si è reso portavoce, ma la sua pietà non valica l’articolata narrazione dei loro tragici tentativi di liberarsene: tutto, nella Spoon River Anthology, la cui enorme fortuna si è estesa presso scrittori e poeti fino ai nostri giorni, è fatalmente sepolto, se riferito ai suoi dialoganti soggetti: ai giudici spietati della deludente situazione in cui versava la società americana di quel periodo. La scelta della nostra poetessa, pur ispirandosi a un autore tanto diverso e lontano, appartiene insomma a un altro campo: quello dell’arte dove può rivivere lei stessa gli aneliti delle sue artiste e renderle, in fondo, quasi sempre positive. Marianne Moore possiede un “occhio rapace” e col “bisturi disseziona”, ma ecco scoperta la gentile compresenza dei “bestiari dettagliati e fantastici / veritieri e fiabeschi”. Ad animare Marisa Ferrario Denna – lo ha ben precisato l’Airaghi – non è la rivendicazione femminista, come si potrebbe credere, ma il desiderio di mettere in risalto la difficile situazione in cui versava la donna fino a ieri (a maggior ragione, se artista) che non godendo di autonomia economica né della possibilità di gestire la propria vita sessuale, veniva generalmente ridotta a ruoli subalterni, quando non privata d’ogni diritto, se di pelle nera – ma prontamente riscattata da Marie-Guillemine Benoist nell’omonima poesia: “Alla donna straniera / – nera la tua pelle nel ritratto – / hai voluto dare fierezza e dignità”… Donna straniera che pare muoversi ancora nella stanza in abbandono, sebbene l’esergo di Antonia Byatt in cima al libro reciti: “Il ritratto è un paradosso che rappresenta la vita, la morte, e la vita-in-morte; una specie di falsa eternità”… “E l’ombra della donna ancora avanza, / s’appoggia ancora forse alla poltrona. / Nell’abbandono triste della stanza, / odori e tracce della sua presenza.” Negli anni attorno al 1804 (un po’ più vantaggiosi per il gentil sesso?) la pittrice Marie-Guillemine de Laville-Leroux aprì un atelier riservato a sole donne, ma quando nel nuovo clima della Restaurazione il marito, conte Benoit d’Angers, entrò nel Consiglio di Stato la pittrice si vide costretta a rinunciare anche alla propria professione ritenuta sconveniente alla carica del consorte. I controcanti sono generalmente sigillati da un couplet dove verso e musica (di rara intensità e finezza) reggono e riassumono il senso di una lunga passione, come in Amelia Rosselli: “La casa era il libro da fare. / La vita il silenzio da dire.” In altre abbiamo invece l’espressione di un sogno o di un anelito. In Gaspara Stampa, ai versi “Oggi ho vestito il mio cuore. / Gli ho messo un abito blu” succedono quelli legati all’aspirazione: “Volevo potesse specchiare / i colori del cielo e del mare.” Couplet riformulato con suggestivo innalzamento in Fernanda Romagnoli: “Che nostalgia del cielo e delle stelle. / Che desiderio d’avere un’altra pelle.” Oppure può trattarsi di constatare perdita e smarrimento, come in Sylvia Plath: “Cambiando di ruolo mi sono smarrita. / La chiave di casa non l’ho più trovata” e in Virginia Woolf: “Sono la luna. La luna spaccata. / Sono la donna. La donna tagliata.” In queste poesie sarebbero poi da notare innumerevoli finezze, come il richiamo di “nera” dopo l’aggettivo “straniera” che lo raccoglie attraverso l’anagramma, dove i musicali sentimenti di dignità, disperazione e amore sorgono da un dettato sempre molto preciso, inteso a evidenziare il percorso di queste artiste della parola e del pennello. Così, di Elisabeth Vigée-Lebrun, ritrattista di Maria Antonietta, che dopo aver assaporato la tragedia della Rivoluzione francese lo fu anche dell’imperatrice di tutte le Russie, la Denna precisa: “Di tutto quel gran rococò / non resta che un nastro ai capelli, / lo scialle a mo’ di cintura: / per dire l’amore materno / niente più fronzoli nella pittura.” Giusto! Perché fra i quadri della Vigée-Lebrun (in uno dei quali si ritrasse scherzosamente col volto di gatta con tavolozza e i pennelli in mano) ci sono anche i privati e affettuosi di lei con la figlioletta – che una volta adulta, stando all’autobiografia della pittrice, le doveva causare continui dispiaceri. Anche a Robalba Carriera, pure lei esecutrice di tante signore e signori in parrucca, la Nostra le riconosce il coraggio di essersi ritratta com’era, almeno in effige: “Ti guardi e dici: che vecchia scipita, / ma è la mia faccia, è proprio così! / Nessuna paura: mi faccio un ritratto / di donna invecchiata: / capelli all’indietro, le labbra sottili /dagli anni increspate, / lo sguardo un po’ scialbo: / non serve nient’altro.” Il desiderio di mettere in risalto le cose minime, ma non per questo insignificanti, è poi ben presente in Josabeth Fredrika Sjöberg, la quale si è dedicata all’intima vita delle dimore: “Come fa una bambina all’asilo / hai dipinto i tuoi fogli-acquarelli”… “Da una mano infantile effigiate, / le vecchiette in interni svedesi / apparivano un po’ tutte uguali: / con i capelli bianchi e gli occhiali.” A cambiare può essere una “[…] cuffietta, / una gonna scozzese a riquadri, / un vestito a righe o a pois.” Ed ecco il controcanto: “ Mi rode e tarla di continuo il cuore / questa insignificanza delle cose: / questo cercare dentro le parole / profumi e odori di più antiche rose.” Tornando a ciò che accennavo sopra, le pittrici della poetica galleria nutrono quasi tutte lo stesso desiderio di Sofonisba Anguissola, riformulato in Angelica Kauffmann, dove nel terzo e quarto verso noto modi stilistici leopardiani: “Ci vuole uno specchio per farsi un ritratto, / per dire di sé la pura realtà. / Se sciolti i capelli o raccolti in turbante, / se bianca la veste e dorato lo scialle, / quello che conta non è l’ornamento: / cartella e matita ben salde alla mano / dicono quello che conta di te.” Versi precisati dal controcanto: “Potersi vedere. / Potersi guardare / non come riflesso / di un’altra soltanto, / ma senza alcun filtro / vedersi dentro.” Il libro, che si era aperto con Matita (“Come un’amante va questa matita” che annota spera e dispera, promette, afferma e nega lungo una linea spezzata, anfrattuosa, disordinata… per poi incagliarsi e morire) si chiude con la poesia Ordine, ma per rendere omaggio a un ben più vitale disordine: quello presente nel quadro del pittore fiammingo Samuel Dirksz Hoogstraten, che nei primi cinque versi della strofa di mezzo viene ecfrasticamente riassunto: “La scopa abbandonata accanto al muro, / lo straccio appeso al gancio – là – in cucina, / la porta del salone appena schiusa, / l’ombra che annera – a lato – il pavimento / e le ciabatte – vuote – ad aspettare, / diranno dell’inutile fatica / di volersi – dal disordine – salvare.” La vita non è ordinata, perché non lo è l’amore, quando la penetra e la sovverte.

Marisa Ferrario Denna ha pubblicato La Vita in un quadro, presentazione di Silvio Raffo (Forum 1986); Frammenti da una miopia, prefazione di Franco Buffoni (Edizioni del Leone 1987); Geometriche associazioni in cucina (Premio Internazionale “Eugenio Montale” per l’inedito, 1987) in 7 Poeti del Premio Montale (Scheiwiller 1988); Imprudenti viaggiatori, prefazione di Mario Ramous (Amadeus 1989); Il sole d’inverno, prefazione di Mario Ramous (Book Editore 1993); La lettera non spedita (Lietocolle 1995); Mal di luna (Book Editore 1996).

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