Edith Dzieduszycka, “d’orod’argentod’ombra”, Genesi Editrice – 2019, letto da Gino Rago

9788874147243Nelle tre sezioni che compongono questa sua recentissima raccolta poetica , d’orod’argentod’ombra, Edith Dzieduszycka compie un lungo viaggio nel tempo interno delle parole per approdare a una riflessione sulla nostra presenza nel mondo, e sulla mortalità, avvalendosi di metafore sulla frammentazione, fantasmatizzazione, perdita d’identità dell’uomo contemporaneo. Si avvale di una lingua essenziale, senza arabeschi e senza fronzoli, eleggendo il sostantivo a protagonista dei suoi versi, forte come appare di quella che chiamo la «poetica dell’istante decisivo». Edith Dzieduszycka parte dalle immagini a forza di memoria e usa le parole non per amplificare il significato della immagine estratta dalla sua mitologia personale ma per conferire alle parole stesse una sorta di nuova, inattesa interpretazione con la complicità emotiva del lettore che Edith attira nel suo tessuto poetico. Perciò, parlerei di poesia come luogo di incontro e di poesia della meditazione attiva in cui il lettore non è meno creatore del poeta, come nella poetica di Tomas Tranströmer, secondo cui

« il poeta si ritira/ quando cresce la poesia».

Come in questi versi, tratti dalla sezione d’oro: “Prima/ non il silenzio/ e nemmeno il buio/il nulla/ quello soltanto/ All’improvviso/ cieco/ il germogliare/ il galleggiare/ dentro mari segreti/ E poi lo spalancarsi/ della porta scarlatta/ lo stupore/ il pianto/ lo smarrirsi/ in altri oceani/ più vasti/più lontani”, componimento breve nel quale i sostantivi silenzio-buio-nulla-mari-porta-stupore-pianto-oceani si fanno parole-chiave nella estetica dell’istante o dell’attimo eterno di Edith Dzieduszycka e diventano il perimetro del suo stesso interrogarsi sulla sua posizione o sulla sua collocazione consapevole nel mondo.

O anche come si verifica in quest’altro componimento della sezione d’argento: “Finalmente arriva/ quello che/ trepidante/ aspettavi da tempo/ ma non ti batte/ il sangue/ più forte nelle vene/ Esaurita l’attesa/ ha perso ogni colore/ del sogno/la sostanza/ e cosi te ne vai/ a caccia d’altra meta/ che di nuovo/ regali/ splendore al desiderio”, questa volta però tutto poggiato sull’asse nuovo-regali-splendori-al-desiderio da cui si evince la Weltanshauung dell’autrice fondata sullo “splendore-del-desiderio” come forza insostituibile del vivere perché il desiderio, anche se non ancora del tutto spento, non aiuta a vivere senza splendore. E qui la poetica della Dzieduszycka stabilisce, nelle chiare coordinate psicologiche dell’autrice, il suo irrinunciabile asse della pienezza del vivere nel desiderio, desiderio sì, ma desiderio nello splendore.

Mentre una sorta di tono elegiaco-crepuscolare si fa strada e pian piano si impone in quest’altra lirica breve della sezione d’ombra: “Al di là della vita/che pulsa/ freme/ scalpita/ al di là del baccano/ del chiasso/ del fracasso/ vibrante/ più intensa/ dentro le stanze vuote/ scenderà/ il silenzio”, dove le parole chiave vita-baccano-chiasso-fracasso sembrano affievolirsi sul piano della loro energia vitale man mano che nel componimento si scende fino alle stanze vuote dove cade il silenzio. E qui la morte appare, si impone, toglie dalla vita il desiderio e il suo splendore.

Una cifra si impone con chiarezza, fra le tante che scandaglia ed elenca Sandro Gros-Pietro nella sua Prefazione, in questa recentissima prova poetica di Edith: la forza semantica ed emotiva che viene conferita ai sostantivi, pronunciati dall’autrice in un bisbiglio denso di meraviglia, di stupore, come se si trovasse ogni volta di fronte all’alba del mondo.

Come già feci a suo tempo per il poemetto Loro, anche questa volta per Edith Dzieduszycka parlerei di «adamismo poetico» per segnalarne la capacità di pronunciare limpidamente le sue parole-chiave come se nessuno prima di lei le avesse mai pronunciate, come fu per Adamo alla prima aurora del mondo, e stabilendo per ogni parola con l’occhio del fotografo quasi una foto, estraendo la parola-immagine dal flusso spazio-temporale volto verso l’abisso dell’oblio, raggelandola nel tempo privato della memoria e nel tempo pubblico della storia per consegnarla alla eternità.

D’origine francese, Edith Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione. Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli, André Verdet e Federico Zeri), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano.

Proprio queste sue notizie bio-bibliografiche ci spingono a considerare l’esperienza poetica di Edith Dzieduszycka nell’alveo del translinguismo in virtù del suo transitare da adulta dalla madrelingua francese alla lingua italiana, la lingua del suo approdo. Forse anche per questo la sua poesia sul piano stilistico-metrico-formale si è sottratta a ogni influenza petrarchesca scansando la visionarietà notturna del marioluzismo e mantenendosi a distanza da certo umbertosabismo, da certo serenismo e dal minimalismo romano-milanese.

Gino Rago

 

d’oro

Prima
non il silenzio
e nemmeno il buio
il nulla
quello soltanto
All’improvviso
cieco
il germogliare
il galleggiare
dentro mari segreti
E poi lo spalancarsi
della porta scarlatta
lo stupore
il pianto
lo smarrirsi
in altri oceani
più vasti
più lontani

—————————-

E’ nato un viaggiatore
dalla cruna dell’onda
un viaggiatore
nudo
che nulla
ancora sa
di quel che accadrà
lungo la sua strada
Giacché di quell’ignoto
nulla
gli confida
muto
l’orizzonte

 

d’argento

Finalmente arriva
quello che
trepidante
aspettavi da tempo
ma non ti batte
il sangue
più forte nelle vene
Esaurita l’attesa
ha perso ogni colore
del sogno
la sostanza
e cosi te ne vai
a caccia d’altra meta
che di nuovo
regali
splendore al desiderio

————–

In questa vita
che torva
si consuma
e tracima
dall’urna delle ore
alcune
tratteniamo
di qualche peso
o gusto
per compensare
il vuoto
di troppe altre

 

d’ombra

A poco a poco
si riduce
lo spazio intorno a noi
spazio mentale
corrispondenze
orizzonti velati
sbarrati da cancelli
in un silenzio astratto
sconfitto dal clamore
che imperioso
sale
e non più ci riguarda

—————–

Tutto quello che prima
fu
lo sa
anzi lo sapeva
chi d’un lungo cammino
alla fine arriva
e l’ha dimenticato
Di quel che prima
fu
nella mente annebbiata
cosa rimane?
Qualche grumo
pochi lampi
bruma sgretolata
spenta la cornice
dentro cui si è giocata
unica
quella partita ultima

Edith Dzieduszycka

 

 

3 commenti
  1. Una brevissima meditazione sulla ormai vasta opera poetica di Edith Dzieduszycka deve necessariamente riguardare, accanto a una solida coscienza linguistica, la fine sensibilità verso i colori al punto di poter parlare in tanta sua poesia di una vera e propria «poetica coloristica», (tema che mi riservo di affrontare e sviluppare opportunamente in altri momenti e in altre sedi), la quale coscienza verso i colori non può che giungere dagli anni ‘40 del vecchio secolo, dagli anni nei quali le crudeltà della storia europea fecero irruzione nelle vite delle famiglie, sconvolgendone i corsi, i sentieri, gli affetti, le coesioni, i progetti di vita; più precisamente, la sensibilità di Edith Dzieduszycka verso i colori, il blu, il giallo, il verde, e altri, entra nei suoi versi dalla sua traduzione del racconto “Ricordi di prigionia” scritto da sua madre, Geneviève de Hody, dopo la liberazione dalla prigione 92 di Clermont-Ferrand – Auvergne;
    scriveva difatti così Geneviève de Hody:

    «[…]In altri momenti della mia vita avevo letto e sostenuto l’influenza dei colori sul morale dell’essere umano….»

    Ora due miei “grazie”, uno a Luciano Nota per l’ospitalità e la cura del mio lavoro critico sul libro poetico di Edith
    Dzieduszycka e l’altro a Milaure Colasson per sua intensa e sincera testimonianza.

    Gino Rago

  2. Gino Rago
    I colori di Geneviève

    Una coperta-arlecchino da viaggio.
    Colore bruno da un lato,

    Grigio-verde-viola dall’altro.
    I colori. La vita.

    Dal fondo di un pozzo
    Le sfumature di un crepuscolo,

    I toni del giardino in tarda fioritura,
    I campi di grano, i monti cobaltosmeraldo.

    L’oblio delle parole, l’assenza dei colori,
    La tortura, la paura, la pelle d’oca a ogni rumore,

    La prima conoscenza con le pulci
    Nel pozzo a molte miglia sotto il mare.

    «Darei tanto per la vista di una forma,
    Mi salverebbero sulla mia strada

    i riflessi di un rosso, di un verde, di un giallo.
    Mi uccide questa assenza di colori…»

    «Dove sei, dove ti trovi?»
    «A Clermont-Ferrand-Auvergne…»

    «E’ una casa, una villa, un palazzo…?»
    «E’ la mia prigione».

    «Avrai un nome…»
    «Quando ancora avevo i miei colori

    mi chiamavano Geneviève,
    Geneviève de Hody. Sono la mamma di Edith.

    Di Edith Dzieduszycka.
    Da qui la vedo.

    La mia Edith…
    Nell’oro, nell’argento, nell’ombra».

    (gino rago)

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