Roberto Bertoldo è un poeta che fin dall’opera di esordio, Il calvario delle gru (2000), si è mosso in direzione della intensificazione del vestito fono simbolico della forma-poesia. A questo aspetto va aggiunta la drammatizzazione della struttura del testo poetico, ottenuta mediante la posizione dell’io poetico all’interno di un palcoscenico dove vengono esibiti i tristi personaggi icone del nostro piccolo mondo. Nella direzione della de-fondamentalizzazione dell’io intrapreso dalla poesia italiana più avveduta di questi ultimi lustri mi piace talvolta ricordare che ci sono stati dei precursori che hanno segnato il campo ed hanno indicato con chiarezza che la spinta propulsiva della poesia del quotidiano e della cronaca con annesse le adiacenze dell’io era da tempo in via di affievolimento.
Nell’ambito del genere della poesia-confessione, già dalla metà degli anni Ottanta emergono Sigillo (1985) di Giovanna Sicari e, all’inizio degli anni Novanta, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna, una delle maggiori poetesse del novecento della quale Progetto Cultura di Roma ha pubblicato nel 2018 Stige. Tutte le poesie (1990-2002) pp. 150 € 12; ricordo qui anche Altre storie per album di Giorgia Stecher (1996), opera riproposta con tutti gli inediti nel libro: Altre foto per album. Tutte le poesie (1972-1996), di prossima pubblicazione con Progetto Cultura di Roma.
Nella poesia di Roberto Bertoldo vi sono dei cunicoli sotterranei tra i diversi gradi di esperienza che l’oggetto linguistico rivela all’osservatore. V’è un continuum, topologico e metaforico, e salti semantici e metaforici. È rinvenibile una retorizzazione del soggetto di stampo modernista (né in posizione di punta né in posizione di retroguardia), una «lontananza» dall’oggetto da sedimentare e conglomerare nell’impianto stilistico. L’io percipiente osserva, reclama l’oggetto del suo desiderio. La riproposizione della centralità del soggetto percipiente è qui un passo obbligato. Bertoldo pronunzia la condanna del «mondo», la sua è una poesia di invettiva, ieratica e plebea svolta con un lessico basso e toni infiammati. La fine della «Storia» porta con sé questo corpo a corpo con gli interlocutori della poesia. Bertoldo individua una via di uscita dalla de-fondamentalizzazione dell’«oggetto» e dalla dissoluzione del «soggetto» attraverso la metafora. Direi due discontinuità che si sommano, anzi, si sovrappongono. E si elidono. La continuità della percezione si converte in interferenza, intermittenza, simbiosi tono simbolica, simbiosi stilistica che si risolve nella «cicatrice» della metafora. Poesia che tenta la costruzione di un argine al problema del «vedere», anzi, della «cecità» propria del minimalismo tutto inchiodato sulla riproposizione della centralità di un «io ingenuo», confessionale, acritico che economizza nell’atto del vedere e adotta il commentario agli eventi della propria biografia. Nient’altro che personalismi, esibizionismi, psicologismi, antropocentrismi.
Una direzione «in diagonale», dunque, e in contro tendenza. La poesia del piemontese Roberto Bertoldo si muove alla ricerca di una poesia che si situa fuori dal post-simbolismo, salvando del simbolismo il contenuto di verità stilistica, aspetto evidentissimo in opere come Il calvario delle gru (2000), L’archivio delle bestemmie (2006), Il popolo che sono (2015), da cui sono tratte queste poesie.
Giorgio Linguaglossa
La satira di Dio
Ho parlato con le note di una luna pipistrello
che sgocciola dalle nuvole
ho parlato di sporche assenze nella mia patria divelta
ma senza suoni e immagini
le parole sono l’autoaffezione dei vili
allora ho parlato con le bestemmie e le rivolte
ma si sono divelti anche gli occhi dei miei fratelli
i loro abbracci hanno perso la pelle
e così ho ricamato Dio sul dorso delle poesie
e Dio ha sputato la farsa delle mie dita
e mi ha cresimato
“agnello dalla gola profonda”.
Mio padre mi ha amato
Ho impaginato le mie metafore, ma erano lacrime
lo so. Triste è il suono che sento, è la vendetta,
pulsa con un tono che è soave, lurido e soave.
Eppure gli occhi, tra le palpebre, gli sputavano messaggi
e io non li capivo, addirittura non capivo
se mi guardava: erano nocciola
come i capelli che ancora mi stanno sul capo
una macchia nocciola tra le fessure
e non ho mai scordato che avrei voluto morire io
con i suoi occhi che mi guardavano,
dargli la pugnalata della mia morte avrei voluto,
che sapesse lui quanto l’ho amato,
perché non c’è parola più santa
dell’ultimo sguardo ferito.
Io parlo poesie
Io parlo poesie come i fabbri schegge
e festuche i falegnami,
amo per quel diluvio
che non potete dimenticare,
vivo come i veggenti,
scrivo da passatore.
Ho spade di legno
e l’arca di ferro,
una pagina di idee
e altri materiali sul ceppo.
Conosco la morte
perché è stata sulla penna
che ha scritto ‘bambini’,
conosco le mani disonorate
perché il vento vi ha inciso
le sue folate,
so dei rapaci che volano bassi
più della mia colpa
e aspettano che forgi il verso
di cui farmi sepolto.
Ma io ho, dentro di me,
il popolo che sono.
I distici della notte
Vi abbiamo addossato le nostre tomaie
per affrancarvi dalla parola venduta,
la poesia ha decretato l’offesa:
non morirete con il canto alla gola,
le nostre mani che hanno terra
tra le fessure delle falangi
gridano con gli ultimi tendini,
fino a troncare il colore pingue
dei vostri aggettivi.
La notte opprime i distici,
vuole un’ampia dichiarazione,
impoetica per di più.
Sulla grata del confessionale
i versi si frantumano,
la tonaca si macchia di rime
e accessori annessi,
il rosario che sproloquia
sulle gambe del messia
sputa i semi delle metafore.
Qualcuno ha gridato la verità
più fortemente delle vostre lamentele,
nababbi di apollo,
gentilizi dell’anima.
Oh poeti, poeti, quale emblema
il mio osso di popolo vi estorce
quando la bocca avete sulla platea
per la tenia degli applausi?
Poema delle folate (il popolo tradisce)
Si sono riaperte, dentro, le note della malinconia
per il perdersi dei giorni
forse qualcuno capirà questa spesa di emozioni
e avrà carezze per i marmi
ma le notti di solitudine nascondono la pelle
come fosse mille volte dietro i ceri
e file di pellegrini dalle mani bacate
non riempiranno d’amore la cesta dove crolla il mio capo.
Chi mi ha ucciso conosce i rantoli
li porta sul sorriso della sua lama
e chi ha assistito alle folate dei secoli
tra i miei capelli sepolti
sa che gli inverni portano ancora
i fiocchi freddi dei deserti.
Roberto Bertoldo
Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia stranieraHebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofiaAsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.
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