Dal risvolto di copertina di Arringheide
Na vota quandu tutti sti hfjumari… “Una volta, quando tutte queste fiumare…” ecco l’inizio del poema, come una favola, dove cielo e terra, formano un unico paesaggio, quello della commedia umana, che è l’eterno panorama della Calabria, nei limiti di una storia indefinita perché sempre uguale a se stessa. Siamo oltre il Settecento. Alle nuove urgenze del mondo borghese e contadino si oppone il mondo baronale che tenta un vigoroso ritorno alle angherie e agli antichi privilegi feudali. Ciò che accade in tutto il Sud si verifica anche nella Contea di Maida. Uno dei suoi casali, però, quello di San Pietro, reagisce. Nasce, così,… na guerra, chiddha dell’Arringa tra Santu Pietru, Majìda e Curinga.
Dalla lotta di popolo emerge un microcosmo di uomini: il Conte Malaspina, Totu lu Rizzu, don Luciu Fabiani, l’abate Mancusu, donna Tresina, tutti con la loro dose di affaticata quotidianità che il poeta raccoglie come testimonianza di vita. Allora “Supra lu Ponte”, “Avanti Grassu” Corda e Campuluongu diventano il teatro di lotte fratricide, di eroismi e comicità. Da questa sarabanda non si salva nessuno, né San Francesco di Paola né San Nicola da Bari, nemmeno la Madonna del Carmine. Qui non c’è frattura tra paradiso e inferno. Qui, ciò che non è storia per la cultura dominante, è storia concreta per uomini di carne. Emblematica la figura di Cheli, il muto,”lu gghjegghju”, “lu scilinguatu” del paese, che attraverso una serie di peripezie riacquista la parola.
Nota di lettura di Gino Rago
Per accostarsi consapevolmente alle similitudini omeriche delle quali è ricco questo poema di Giuseppe Gallo [un esempio struggente “Cuomu li passarieddhi, la matina,../ accussì, vannu allu Hfjume…], almeno sul piano tematico di questo libro titolato Arringheide, assai utile sarebbe percorrere, anche per semplice lettura o rilettura d’uno stralcio, quella che è stata indicata come «La lunga marcia degli scrittori calabresi» a partire da Vincenzo Padula, e toccare o ritoccare almeno l’atmosfera d’un Alvaro, di un Seminara, di un Perri, di un La Cava, di uno Strati, di un Repaci, di un Asprea, anche se, benché quasi semisconosciute, più che arricchente sarebbe ritornare alle scritture più possenti che sono state scritte: di Saverio Montalto e di Virginia Tursi, senza volere trascurare l’esperienza narrativa di un Roaul Maria De Angelis da Terranova da Sibari, al quale non perdonarono lo spostamento del baricentro letterario-narrativo della Calabria da Reggio Calabria all’Alto Jonio Cosentino.
Ma una grande familiarità, di atmosfera e di tessuto poetico, il poema epico di Giuseppe Gallo l’ha stabilita con Duonnu Pantu di Aprigliano se non altro per due motivi non trascurabili ai fini della economia estetica generale delle loro rispettive opere: il dialetto, come lingua madre e lingua delle madri; il tempo, ricondotto alla gloria e al trionfo del tempo pre-moderno, il tempo scandito dal ritmo delle stagioni e ancora legato strettamente allo spazio, con la conseguente adozione dei ‘luoghi’ da contrapporre ai ‘non luoghi’ di Marc Augé, con l’uomo che i due poeti Duonnu Pantu e Giuseppe Gallo riportano al centro del legame spazio-tempo.
I 32 Canti del poema sono peraltro ben sostenuti dal saggio introduttivo di Brigida Gullo cui non sfuggono i valori antropologici della esperienza poetica di Giuseppe Gallo, poeta ben sorretto sia da una seria e colta sensibilità linguistica, sia da una nitida educazione coloristica. Ne consegue che il poeta parte non di rado dalle immagini per giungere alla parola di poesia, in una struttura linguistica nella quale Giuseppe Gallo è in grado di fare coincidere in ogni strofa, in ogni verso il suo “sole” con il “sole” del lettore, anche perché l’Autore, forte della lectio magistralis degli adamisti dell’acmeismo russo, Osip Mandel’stam su tutti, nomina le ‘cose’( persone, animali, alberi, luoghi, fiori, piante) in modo che alla parola corrispondano le ‘cose’ stesse, senza raggiri né trucchi retorici da usare come toppe o come cortina fumogena, e con Walt Whitman ci ricorda che il poeta, come Adamo, è sempre all’alba del mondo.
Tornando a volo rapido d’uccello sull’opera poematica di Giuseppe Gallo, il cui respiro ampio e avvolgente trova buona parte delle sue affinità elettive sul piano linguistico in Salvatore Scervini e ne la Divina Commedia tradotta in dialetto calabrese, in particolare U ‘Nfiernu, credo che giovi il ricordare che la Calabria mostra una scarsa unità sul piano dialettologico tant’è che gli studi più rigorosi ne individuano almeno 6 aree principali:
1- Calabria Meridionale; 2- Calabria Centrale; 3 – Calabria Settentrionale; 4- Calabria Greco-ellenofona; 5- Calabria Albanese; 6- Calabria Provenzale.
Al di là di queste precisazioni dialettologico-linguistiche, ciò che mi piace davvero segnalare è che anche nel caso di Giuseppe Gallo si parli di ‘poesia in dialetto’ e non più con disprezzo di ‘poesia dialettale’.
Ogni grande opera di poesia come questa Arringheide ha degli antefatti, taciuti o dichiarati, non di rado espressi in forma di dichiarazione di poetica o di intenzioni d’arte.
“Vorisse pe’ mmu tiegnu nu panaru
cupu e cchjù fuondu de na menzalora
ed intra mu vi jiettu ogni palora
chi cca sucai de quandu m’addhattaru.
Vorrei possedere un paniere
cavo e più profondo di mezzo tomolo
ed entro buttarvi tutte le parole
che qui ho succhiato da quando mi hanno allattato.
Da una nota dello stesso autore Peppino Gallo sulle donne che agiscono nel suo poema epico apprendiamo:
«A proposito della capacità delle donne di Arringheide di parlare un linguaggio nuovo, dopo secoli di soffocamento, ecco il dialogo serale tra Vitu Serratore, il banditore del paese, e Peppina Germonda, la moglie. Il marito, dopo aver gridato con la tromba e con la voce e dopo aver attraversato in lungo e in largo le salite e le discese del paese, consumando le suole delle scarpe, torna a casa, mette i piedi massacrati in una bacinella d’acqua e si lamenta della propria condizione, rievocando il tempo di quando sesso e fame andavano di pari passo».
Non è difficile riconoscervi la trasfigurazione di fatti storicamente accertati nel simbolo stesso della coscienza umana, sul sentiero esemplare di Carlo Levi e di Francesca Serio, la madre del sindacalista siciliano ucciso sulle terre delle lotte contadine, che mai smise di piangere il figlio:«…per questa donna le lacrime non sono più lacrime, ma parole. E le parole sono pietre».
Gino Rago
Canto XXI
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2. Soltanto nella casupola di Germonda
splende, ancora acceso, il lume ad olio
perché il marito, appoggiato alla sponda del letto,
tentava di eliminare il cattivo odore
dei piedi e si detergeva con l’acqua
e ripuliva le unghie ad una ad una.
3. “Ah, la fortuna mia! Tutto il giorno
attraverso e mi lancio per le vie e le strade di pietra,
suono la tromba, perdo il fiato, urlo e torno indietro,
e corro per le salite e le discese!
Quanta suola consumo e quanta pelle lascio
andando dall’Ospedale alla Scalella!”
4. “E perché ti lamenti? Ma non ricordi
quando la sera noi inghiottivamo amaro?/….
5. Perché non pensi, invece, agli altri
che hanno vuoti le casse e i recipienti di terracotta,
che mancano di pane, fichi e legna da ardere/…?
6. “Hai ragiune! Però, ricordatilu…
ca quandu pe’ lla hfame spachijava
io mi gurdava de cunnu e de pilu
e cu lli minni tue mi sazzijava.
Mo, stancu muortu, sempe m’addormientu
e, cuomu tandu, cchjù no ti lu mientu!”
6. “Hai ragione! Però, ricordatelo…
che quando morivo di fame
io mi rimpinzavo facendo l’amore
e mi saziavo con i tuoi seni.
Ora, stanco morto, mi addormento continuamente
e non te lo metto più dentro, come allora!”
7. Peppina nta lu scuru arrussicau,
ma pue si para avanzi allu maritu
e, ‘mbilenata, cuntra si votau:
“Pecchì no parri, armenu, cchjù pulitu?
Mienti, ti gurdi… Caru Vitu mio,
si ssempre hfissa! Quant’è bberu Ddio!
7. Giuseppina nel buio diventò rossa,
ma poi si pone di fronte al marito
e, avvelenata, si rivoltò contro:
“Perché non parli, almeno, più educato?
Infili, ti sazi… Caro il mio Vito,
rimani sempre un fesso! Per quant’è vero Dio!
8. Tu sai mu suoni sulu sa trumbetta
duve basta mu hfjuffhji e mu vaviji,
ma mugghjerta de tia atru s’aspetta
quandu accunzente pe’ mmu la maniji.
Chi dicu… dui carizzi, na vasata,
na paloreddha duce e delicata…
8. Tu sai suonare solo questa trombetta
dove è sufficiente soffiare e poggiare le labbra con la bava,
ma tua moglie da te altro si aspetta
quando acconsente che tu la palpeggi.
Che dico… due carezze, un bacio,
una parola dolce e delicata…
9. Tu, mbece, lestu lestu, ti divachi
e grupi e pierci cu lla fantasia.
Mi dassi fridda e, pue, puru t’annachi.
Pòvaru cunnu! Sini alla ciotia
si cridi ca a Grmonda hfa piacire
quandu si sente, d’accussì, hfuttire!
9. Tu, invece, veloce veloce, ti svuoti
e buchi e penetri con la fantasia.
Mi lasci fredda e poi, per giunta, te ne vanti pure.
Povero scemo! Sei solo uno stupido
se credi che a Germonda fa piacere
quando si sente fottere in questo modo!
Giuseppe Gallo
Giuseppe Gallo, è nato a San Pietro a Maida (CZ) il 28 luglio 1950, diploma di Liceo classico, laurea in Lettere Moderne, è stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Nel 1983 la sua prima raccolta di poesia, Di fossato in fossato, Lo Faro editore. L’impegno civile sul territorio lo spinge a un rapporto sempre più stretto con la poesia dialettale. Negli anni ‘80, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, a Roma. Delle varie “Egofonie”, “Metropolis”, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, è rappresentata al Teatro “L’orologio”. Avvicinatosi alla pittura, l’artista si concentra sui volti e gli sguardi, mettendo in luce le piaghe della modernità: consumismo e perdita dello spirito. Negli ultimi lavori ha abolito la rappresentazione naturalistica degli oggetti per approfondire i rapporti tra colore, forma e materiali pittorici. Nel 2016, con la fotografa Marinaro Manduca Giuseppina, pubblica, Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, storia e antropologia del Paese d’origine. Nel 2017 è risultato tra i sei finalisti del “IV Premio Mangiaparole”, sezione poesia, Haiku. Dal 2006 ha esposto a Roma, Mentana, Monterotondo, Brindisi, Lecce. Collabora con la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com
Interessante il dialogato tra moglie e marito, ma la crudezza del primo e l’insoddisfazione di lei mi pare siano rese in modi troppo convenzionali.
Quanto all’introduzione di Gino Rago mi pare che si adagi troppo in una sorta di “patriottismo” letterario regionalistico.
Ho dovuto farlo, gentile Ennio Abate, per quasi disperatamente richiamare l’ attenzione su quella che ancora cade sotto il nome di “La lunga marcia degli scrittori calabresi” per poi soffermarmi sul caso di Virginia Tursi e del suo capolavoro “Io Virginia” (ancora non conosciuto per quel che merita) anche per la qualità della scrittura adatta alla crudezza della autobiografia da donna-emigrante a Torino nella alienazione della catena di montaggio… Ho avvertito la necessità di redigere la nota cui Lei si riferisce
stigmatizzandone la valenza patriottico-regionalistica anche perché Arringheide è stato da me presentato, con altri/e, allo Spazio5 di Roma, alla fine di settembre 2018, con una marea di ‘calabresi’-romani che non conoscono, purtroppo, la Letteratura italiana fatta dai calabresi, non già la ‘letteratura calabrese’ come spesso, limitandone la vastità del respiro, comunemente si dice. E’ dunque la mia nota, calata in quella serata e con quel pubblico (numeroso e anche attento), di lettura del Poema di Peppino Gallo un rimprovero-invito verso i calabresi della diaspora, che poi sono un esercito, a rivolgersi anche agli autori e alle autrici ‘calabresi’. Grazie anche a nome mio della Sua Lettura, gentile Ennio Abate.
gino rago
Ringraziando La Presenza di Èrato e Luciano Nota per l’ospitalità non posso far altro che postare le motivazioni essenziali che hanno costretto me a comporre Arringheide. Però poi spetta a voi lettori lettori l’ultima parola. Grazie!
Eravamo nel primo quinquennio degli anni ’60 e Pasolini aveva profetizzato: questa parte meridionale dell’Occidente non sarà più come prima! Africani e calabresi, da vecchi fratelli, condividendo lo stesso pane e lo stesso formaggio, andranno come zingari, verso l’Ovest e il Nord, a sventolare le bandiere rosse della nuova storia…
Era il 1964 avevo 14 anni, e i miei paesani, i miei fratelli, mio padre erano già sulle strade del mondo e, come loro, altre migliaia di calabresi. Nel Meridione non si respirava. Alle diaspore dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento ne seguivano altre. E se prima il mondo meridionale riusciva a ricomporsi e a ritrovare un equilibrio fra partenze e ritorni, dopo gli anni ’50 quell’instabilità si è frantumata; quella civiltà si è disintegrata, quel territorio geografico, spirituale e linguistico non ha retto più! Afferma ancora Pasolini:
Tre millenni svanirono
non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria malarica
l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto ancora, operaio di Milano,
lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti venerano.
Quasi come un padrone (cit. pag. 95)
L’ipotesi gramsciana della pari dignità tra la classe operaia del Nord e ceti contadini del Sud smottava, cominciava a evidenziarsi e a solidificarsi quel bisogno di salario e di consumo in cui il Meridione si schiavizzava già dai primi anni del ’50. Ecco la nuova inclinazione, il nuovo pendio del franamento: all’originale sole del Sud si sovrapponeva e si sostituiva il “meraviglioso sole del Nord”. Ed io che seppellivo quotidianamente la dolorosa acredine delle separazioni e dei distacchi, la solitudine della coscienza nella precarietà dell’esistenza, la selvaggia fraternità del sangue e dei legami familiari, cominciai a sbirciare nei “porcili senza porci”, sulle “radure color delle feci”, sulle case dirupate dai terremoti e svuotate dall’indigenza, “tra frigorifero e televisione”, nei miei stessi occhi e negli sguardi di chi mi guardava e vi trovai la presenza della morte e della dissoluzione, la ferocia e l’indelebile dolcezza degli uomini e delle donne, lo slancio vitale e l’esaltazione vigorosa o mortifera della natura. In una poesia giovanile urlavo al mondo e a me stesso:
Dimenticare ogni albero
di questa foresta
per liberarci dalla condanna degli avi!
Dimenticarci di tutto e di tutti… e seppellire il passato. Ma non poteva accadere e infatti non è accaduto. Non si possono “tranciare di netto le proprie radici solo perché si vuole inseguire il fantasma di una utopia rivoluzionaria, senza radici siamo foglie inaridite, rami secchi” su cui vagano soltanto le formiche e su cui si riversano le ombre dei morti. Degli uccisi e degli uccisori. Lo ricordava bene Carlo Levi attraverso “lu campusantaru”, il custode del cimitero di Gagliano: “Il paese è fatto delle ossa dei morti!” È realtà o metafora? I nostri paesi sono fondati, costruiti, impastati e mantenuti ancora in piedi dalle ossa dei nostri morti. E, ancora, in un vaneggiamento giovanile, questa volta in dialetto, mi ponevo il problema: che farne delle parole antiche in cui sentivo l’amaro del chinino, di quel chinino che i governi Giolitti avevano fatto ingoiare ai miei genitori per sconfiggere l’endemica malaria? Perché quelle parole gravavano sulle mie e sulle altrui spalle come un peso, come una macina di mulino che mi affondava, come un richiamo fatale che mi risucchiava negli echi dei secoli trascorsi. La mia risposta? Distruggere tutto! Anche il gergo dialettale che mi turbava perché simbolo di sottomissione. E poi? Qualcosa sarebbe sorto e rinato! Bastava solo attendere… e attendere…
“Bubbole!” avrebbe risposto l’Ungaretti interventista dopo gli anni di trincea.
“… pareva che la guerra s’imponesse per eliminare finalmente la guerra. Erano bubbole, ma a volte gli uomini si illudono e si mettono in fila dietro alle bubbole.” (G. Ungaretti, Poesie, Ed. Corriere della Sera,, pag. 273)
Anch’io, come tanti altri giovani, mi ero messo in fila dietro alle “novissime” bubbole provocando un corto circuito fra la contemporaneità e il passato, fra i giovani e i vecchi. D’altronde tutti noi, chi più chi meno, abbiamo tentato di “uccidere” i nostri padri per sottrarci al loro controllo, per prendere il loro posto e per individuare noi stessi come soggetti su cui costruire un mondo nuovo…
purtroppo abbiamo fallito. Non ci siamo riusciti e in questa “vacatio” di salvezza ci siamo ridotti a vivere come esiliati, senza suolo e senz’anima, senza lingua e senza parole… non dovevamo uccidere i nostri padri, ma andare alla loro ricerca, non dovevamo cancellarli e annullarli perché antiquati e reazionari, ma collegarci alle loro speranze, alle loro fatiche, alle loro radici. Ricordate il giovane Telemaco? Dovevamo cercarli questi padri: assalire il mondo, ma ancorati alle loro braccia. Invece abbiamo ttentato l’impossibile: essere figli senza progenitori ed oggi ne paghiamo le conseguenze. Corrado Alvaro, nel 1930, in relazione al romanzo “Gente d’Aspromonte” affermava che la “nostra civiltà contadina era destinata a frantumarsi sotto la spinta del progresso nazionale… ma di questo mondo in disfacimento era necessario conservarne la memoria…”. Conservarne la memoria! Certo! Ma non basta. La memoria non è una foto ingrigita dal tempo da riguardare ogni qualvolta si voglia evocare il passato… che valore ha la rimembranza se questa non entra a far parte della nostra esistenza e della nostra storia individuale e collettiva? Storia! Ecco la chiave. La Storia come “Memoria collettiva della quotidianità” e, quindi, come coscienza critica del presente e del passato e “come premessa operativa per il futuro”. “…storia, affermava il filosofo siciliano Bufalino, non è solo quella degli annali del sangue e della forza: bensì quella legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato. Storia è il gesto con cui s’intride il pane nella madia o si falcia il grano; storia è un nomignolo fulmineo, (Totu Lu Rizzu, tanto per citare un attore di Arringheide, un proverbio accattivante : Pàrica nci tagghjaru la vigna,) la sagoma di una tegola…” (G. Bufalino, Museo d’ombre, Bompiani, Ed. 2000, pp. 21, 22). Allora, questo è stato il mio intento: ricostruire la storia del paese e della comunità, del territorio d’origine e delle sue vicende esistenziali sottolineando la loro ambigua e tragica “melodia quotidiana” elevandola, se possibile, ad un valore di carattere generale. Così, in modo spontaneo e senza forzature, tutti i miei momenti vissuti e tutti i momenti vissuti degli antenati “sono stati”, direbbe Calo Levi, “luoghi di vita” ed hanno contribuito a intessere una “foresta primitiva di ombre e di belve”, attraverso i frammenti della loro quotidianità, sempre in bilico, tra spaesamento e disordine, sotto l’imperversare delle lotte contro la fame, contro gli uomini e i santi, contro la natura e il destino, contro se stessi e gli altri. Ricordavo prima Corrado Alvaro. Ebbene, il suo paese natale, San Luca, è assimilabile al mio: San Pietro a Maida! I nostri luoghi sono e consistono perché qui tutti hanno un nome, un segno, un simbolo e solo qui sembra che sia possibile l’esistenza… l’altro mondo, quello esterno, lontano mille o cinque chilometri, è, invece, senza nome… è ostile, ha regole diverse; di quell’altro mondo non si sa niente… si preferisce ignorarlo… ha usi e costumi differenti e un linguaggio incomprensibile… si conferma, in ogni momento, l’assunto di Rohlfs: “La Calabria non costituisce né un’unità etnografica né un’unità linguistica” (G. Rohlfs, Nuovo dizionario dialettale…, Longo Editore, Ravenna 2010, pag. 10). In Calabria ciò che ci caratterizza non è la somiglianza, ma l’opposto. “In realtà mondi differenziati e comunicanti, complementari e opposti, coesistono… spesso all’interno di uno stesso spazio paesano. L’identità, nella società tradizionale, si è definita attorno a un luogo antropologico, non di rado in contrapposizione a un altro luogo, distante a volte soltanto centinaia di metri! I contrasti e le ostilità presenti in passato tra paesi limitrofi e all’interno di una stessa comunità… segnalavano l’esperienza e il vissuto degli individui, dalla nascita alla morte” (V. Teti, Quel che resta, Donzelli Ed.,2017, pp, 124-25).
Ecco l’altro tema del “poema”. La guerra che costituisce lo sfondo delle varie vicende si svolge all’interno di un territorio fisicamente ristretto, un angolo di Calabria, a ridosso delle colline, prospicienti il golfo di Lamezia. Tre paesi, tre comunità, tre appartenenze che, spesso e volentieri, si individuano in quanto differenti e contrapposti. Oggi quei confini geografici e spirituali non esistono più. “Si sono sfrangiati, dissolti, dilatati, dispersi” direbbe ancora Teti. Quegli spazi antropologici che evocavano ciò che è stato, quello che era un mondo, oggi si presentano sotto la forma dei frammenti e degli stracci. Per cui memoria e linguaggio, tradizioni e usanze, luoghi e panorami sono solo e soltanto reliquie. Ed io, come tutti gli altri calabresi “pellegrini permanenti, erranti, sradicati”, mi porto sulle spalle, ‘na vièrtula, una bisaccia traboccante di reliquie e dentro ciò che rumoreggia di più è proprio la lingua. “Quello che resta” del dialetto. Ricordate le feroci polemiche, ancora di Pasolini, contro quella stessa televisione che, unificando il Paese, da Nord a Sud, azzerava le differenze dei patrimoni linguistici regionali? Io mi sono trovato sul crinale della scelta tra italiano e dialetto perché sempre più percepivo che il mio linguaggio nativo era destinato al macero. Di fronte alla plateale anonimia “dell’unificazione idiomatica” portata avanti dalla lingua italiana io ho avvertito un tremore nelle carni. Così mi sono rattrappito in me stesso e ho guardato la realtà linguistica di quegli anni con occhi nuovi. Mentre prima avevo nutrito un atteggiamento di sudditanza e di sottile ostilità nei confronti del dialetto perché lo ritenevo inadeguato incapace di introdurci al progresso civile e sociale, ora mi convincevo che non ci sarebbe stata né crescita, né affermazione dei diritti, né autonomia delle comunità locali se non riappropriandoci “del patrimonio storico locale” riutilizzando il dialetto. (Tullio De Mauro, Linguaggio e società nell’Italia di oggi, Ed. ERI, 1978, pag.150). Ormai mi era chiaro. Solo “salvando le parlate dialettali, riusciamo tutti a parlare italiano” (T. De Mauro, ivi, pag. 151).
Arringheide è una metafora dell’esilio, dalla vita reale e dal linguaggio materno, come suggerisce, acutamente Gino Rago.
E dice bene Linguaglossa quando afferma che <> (L’Ombra delle Parole, rivista on line) “Zattere” di Parole, sia italiane che gergali, assimilabili a reliquie, alle reliquie delle nostre radici, come orme di sopravvivenza, nonostante la distruzione. La lacerazione ci ha contagiato tutti, direttamente e indirettamente; il soggetto è frantumato e non può far altro che fluttuare come un’alga. “Stamani mi sono disteso/ in un’urna d’acqua/ e come una reliquia/ ho riposato” affermava l’Ungaretti dell’Isonzo, da allora la nostra condizione è quella della reliquia: senza sangue, senza vita e senza riposo: e, tuttavia, continuiamo a erodere del tempo, ad impossessarcene, a imporci come assenza e come presenza, come memoria del tutto e delle parti. Tutto si consuma, nulla resta,. Allora?
“Elevare l’oggetto corroso dal tempo a un’icona che resiste al tempo, o meglio, rendere la sua stessa caducità la forma del suo essere per sempre” (M. Recalcati, Il mistero delle cose, Feltrinelli, 2016, pag. 38).
Questo è stato il mio tentativo! Riportare sulla scena della storia gli “scarti umani”, quelli che sono ammutoliti, gli scilinguati, e con essi i loro lacerti e i mugolii di una lingua esiliata nell’anonimia territoriale e spirituale di una cultura totalmente disfatta. I miei versi? Sepolcri! Nullità! Ed intorno ad essi… “una danza di conigli” direbbe Montale! Forse sono stato anacronistico… ovvero “inattuale” e va bene! Lo ammetto! Mi conforta, però, quanto affermava il solito Nietzsche: “Ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo, di una civiltà.” (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia, Adelphi, Mi,1974, pag. 95
Unisco pubblicamente a quelli di Peppino Gallo i miei ringraziamenti a Luciano Nota e a Erato per l’ospitalità delle meditazioni-nota critica su Arringheide e approfitto della opportunità par dire ‘grazie’ anche a Giorgio Linguaglossa per l’ottimo confezionamento e per il supporto significativo di questo lavoro.
Propongo una breve nota su Io Virginia da
http://www.poliscritture.it/2018/11/27/a-matine-prieste/#comment-87433
Breve nota su Virginia Tursi, donna- emigrante-comunista-sindacalista-alla-Fiat.
Nata nel 1944 in un paesino alle porte di Cosenza, autodidatta,ragazza povera, orfana di padre, madre cronicamente malata, patrigno violento, Virginia vive randagia.
Virginia Tursi, ragazza bellissima, la cercano, la desiderano, la insidiano.
Giovanni la prende con la forza, brutalmente, a 16 anni. Virginia rimane incinta… Scappano a Torino. Ma la città è nemica dei meridionali, nemica anche dei calabresi:
“Non si affittano case né ai meridionali né ai cani”, erano i cartelli che tappezzavano i quartieri torinesi. Prima Giovanni, poi Virginia, entrano tutt’e due in FIAT….
Nella Letteratura della emigrazione la donna non è mai una energia autonoma.
In Io Virginia di Virginia Tursi lo è.
E’ un peccato che, come succede all’agave, Virginia Tursi in Letteratura sia fiorita una sola volta.
gino rago