
Tzvetan Todorov, Sofia, 1 marzo 1939 – Parigi, 7 febbraio 2017
Un saggio interessante, l’ultimo da lui scritto, di Tzvetan Todorov, è stato pubblicato da Garzanti, dopo l’uscita in Francia nel mese della scomparsa dell’Autore: ripropone una lettura colta e documentata della cultura russa tra le due rivoluzioni, il personaggio esemplare e complesso di K. Malevic, il pittore suprematista, nonché in controluce la sua vicenda personale di intellettuale rifugiato in Francia nel 1963. A Parigi infatti, nel 2017 moriva a 77 anni Tzvetan Todorov, studioso di letteratura e filosofo, di origini bulgare, giunto nella capitale francese nel 1969. Aveva studiato con Roland Barthes, il grande semiologo, e i suoi saggi sono stati decisivi per diffondere la conoscenza del formalismo russo nell’Occidente europeo e in Francia, proponendo e studiando i maggiori teorici formalisti russi, da Vladimir Propp a Michail Bachtine. Fu quello il periodo di grande lavoro dello studioso e delle grandi letture, cercò di definire le categorie del genere prendendo in esame testi e autori diversissimi, da Le mille e una notte a Nerval, a Poe, a Hoffmann, dal poliziesco al feuilleton, nella convinzione, cresciuta con gli anni, che la letteratura «partecipa al processo di chiarificazione del mondo ma vi aggiunge bellezza e, attraverso questa, lo rende migliore». Nel 1970, pubblicò quello che, forse, è il suo libro più famoso: Letteratura fantastica. Nel libro il genere fantastico è definito a partire dall’esitazione del lettore di fronte a un evento insolito e alla conseguente decisione di spiegarlo attraverso le leggi naturali oppure ricorrendo al sovrannaturale. Prendendo in esame i testi esemplari del fantastico Todorov proponeva una serie di sottoclassificazioni del genere e al loro interno distingueva i “temi dell’io” dai “temi del tu”, il mondo del doppio, della metamorfosi, della follia, (che un secolo positivista come l’Ottocento ha rimosso) e si sono tradotti per noi nell’inquietante scoperta freudiana della sessualità, della nevrosi, della psicosi e della morte. Per Todorov nel Novecento la funzione sociale del «fantastico meraviglioso» – la sospensione e trasgressione della legge attraverso il ricorso al sovrannaturale – viene assorbita ed esaurita dalla psicanalisi, che rende il fantastico la regola del reale. L’autobiografia intellettuale di Todorov, intitolata L’uomo spaesato (Donzelli, 1997) è emblematica. Immagina un brusco risveglio dovuto a un incubo: Todorov si trovava non più a Parigi, ma nella sua città natale, Sofia, dove è tornato in sogno; da lì, per ragioni sempre diverse, non riusciva più a ripartire. Quel sogno ricorrente finì nel 1981, quando tornò davvero per la prima volta nel suo Paese. (Il ritorno dell’esiliato), ma il ritorno in patria fu come possiamo immaginare, tutta un’altra cosa: vertigine, disorientamento… Negli ultimi anni Todorov aveva lavorato soprattutto a saggi di argomento storico e politico, nel tentativo di definire e in qualche misura confutare il concetto di «scontro di civiltà» formulato dallo storico americano Samuel Huntington nel suo libro del 1996. In particolare nel 2008 pubblicò il saggio La paura dei barbari, sulla crisi della democrazia europea: per Todorov al posto delle divisioni del Novecento tra Est/Ovest e Nord/Sud si profilava quello tra aree del mondo dominate dalla Paura e altre governate dal Risentimento, con il rischio di riconoscere nell’altro soltanto un barbaro da cui difendersi. Postumo è uscito (2017, Garzanti) ) L’arte nella tempesta, un’opera di sintesi potente in cui ci descrive l’avventura di poeti, scrittori e pittori nella rivoluzione russa. È un’opera che fa il punto sulla vita,la cultura, la storia e la società russa nei primi anni del Novecento, in cui apparvero tutti insieme in modo stupefacente un numero incredibile di geni artistici che in modi diversi reagirono e pagarono la situazione storica, chi subendo lo shock rivoluzionario ( Blok, Bulgacov, Majakovskij, Chodasevic, Cvetaeva…), chi scegliendo pericolosamente la direzione della propria vita ( Babel’, Mandel’stam, Bulgakov, Pasternak..), chi vivendo la controrivoluzione culturale. L’autore rievoca l’avventura di questa generazione che passa dai primi entusiasmi antizaristi, libertari e rivoluzionari alla sofferenza di vivere il progressivo opprimente peso del potere staliniano, elaborando nuove strategie di opposizione, compromesso o resa. La seconda parte del saggio è completamente dedicata al pittore Kazimir Malevic, alla sua vita e alla sua arte che percorre e si intreccia con le altre manifestazioni artistiche di quel periodo storico drammatico. Ricordo, a render conto della complessità dell’argomento, alcune poesia dei grandi protagonisti citati che sanno rendere conto della vivacità e complessità della situazione studiata e descritta nel loro evolversi storico. Nel 1913 e 1914 la voce di Blok e Majakovskji; nel 1920 e 1922 la prima poesia di Marina Cvetaeva che commenta la divisione tra Bianchi e rivoluzionari Rossi, e di V. Clebnikov , isolato e incompreso,sulla impotenza della poesia; di O. Mandel’stam, che nel 1930 paga la sua indipendenza morale e concettuale sotto la repressione staliniana, e di A. Akmatova, che è vissuta in Russia dove ha sofferto l’uccisione del marito Gumeliev, la prigionia del figlio,l’ostracismo letterario a S. Pietroburgo e infine B. Pasternak, che alla fine di quegli anni bui, fa nell’Autobiografia il suo doloroso bilancio.
Maria Grazia Ferraris
Aleksandr Blok a Zinaida Gippius, che con Dimitrij Merezkovskij parte per l’Europa, per Parigi, scrive:
I nati in anni solitari e remoti
Non ricordano il loro cammino.
Noi, figli degli anni spaventosi della Russia,
Non riusciamo a dimenticare nulla.
Anni che inceneriscono!
C’è in voi la notizia di una follia o di speranza?
Dai giorni della guerra, dai giorni della libertà,
C’è sui volti un riflesso di sangue.
C’è un silenzio, oppure il rintocco di una campana,
Che ci ha costretti a sbarrare le labbra.
Nei cuori, un tempo entusiasti,
C’è un vuoto fatale.
E che sul nostro letto di morte
Volteggino i corvi gridando.
Coloro che saranno più degni, o Dio, Dio,
Che vedano il Tuo Regno! (8 settembre 1914)
Vladimir Majakovskji
L’infernaccio della città
Le finestre frantumarono l’infernaccio della città
In minuscoli infernucci succhianti con le luci,
rossicci diavoli, si impennavano le automobili,
facendo esplodere le trombe proprio sull’orecchio.
E là, sotto l’insegna con le aringhe Kerč,
un vecchietto stravolto cercava tastoni i suoi occhiali
e ruppe in lacrime quando, nel tifone del vespro,
un tram di rincorsa sbattè le pupille.
Nei buchi dei grattacieli, ove ardeva il minerale
E il ferro dei treni ingombrava il passaggio,
un aeroplano lanciò un grido e cadde
là dove il sole ferito colava l’occhio.
E allora ormai- sgualcite le coltri dei lampioni-
La notte si diede al piacere, oscena e ubriaca,
mentre dietro i soli delle vie in qualche luogo zoppicava,
non necessaria a nessuno, la flaccida luna. ( Mosca- 1913)
Velimir Chlebnikov
A tutti
Ci sono scritture-vendetta.
E’ pronto il mio pianto,
la tormenta turbina a fiocchi,
e corrono silenziosi gli spiriti.
Sono crivellato dalle lance
di una voracità spirituale,
forato da lance di bocche fameliche.
La vostra fame chiede di mangiare
e nel paiuolo di pesti squisite
la vostra fame chiede cibo:
ecco il petto di uno scroccone!
E crollo come il chan Kucùm
sotto le lance di Ermàk.
La fame delle lance arriva
a infilzare, sarchiare il manoscritto.
Ah, riconoscere nel carretto ambulante
le perle di persone da me amate!
Perché ho fatto cascare questo fascio di pagine?
Perché sono bislacco e maldestro?
Non è una burla di mandriani infreddoliti
l’incendio – boia dei manoscritti:
ovunque la scure intaccata
e faccine di versi sgozzati.
Tutto ciò che un triennio ci ha offerto,
fascio di canti da arrotondare di cento,
e un cerchio di persone a tutti note,
ovunque, ovunque corpi di zarèvici sgozzati,
ovunque, ovunque la maledetta Úglic! (Maggio-giugno 1922)
Marina Ivanovna Cvetaeva
1920
Da sinistra come da destra
Solchi insanguinati
E ogni ferita:
Mamma!
E io, snervata,
non sento altro,
dalle viscere-alle viscere
Mamma!
Tutti distesi fianco a fianco-
Non è possibile separarli.
Guardate un soldato
Dove il nostro, dove il loro’
Era bianco- e rosso:
il sangue l’ha imporporato.
Era rosso- e bianco.
La morte l’ha imbiancato.
Osip Mandel’štam
“ Sulla vergatina della polizia
la notte si è ingozzata di pesci spinosi
le stelle cantano: i burocratici uccellini
scrivono e scrivono i loro rapportini.
Se desiderate tremolare,
possono inoltrare domanda,
e per tremolare, scribacchiare e putrefarsi,
sempre si rinnova l’autorizzazione. (ottobre 1930)
Anna Andreevna Ackmatova
Questa città a me cara dall’infanzia
Questa città a me cara dall’infanzia,
nel suo silenzio di dicembre
oggi mi è parsa simile
alla mia eredità sperperata.
Tutto ciò che veniva spontaneo,
che era così facile ridare:
l’ardore dell’anima, i suoni delle preghiere
e la grazia della prima canone,
tutto è fuggito come fumo diafano,
è imputridito nel fondo di specchi…
ed ecco ormai su ciò che è irrevocabile
il violinista senza naso ha incominciato a sonare.
Ma con curiosità di forestiera,
affascinata da ogni novità,
io guardavo le slitte veloci
e ascoltavo la lingua materna.
E con selvaggia freschezza, con vigore
Mi soffiava in viso la felicità,
quasi l’amico diletto da secoli
salisse con me sul terrazzino d’ingresso.(1940)
Boris Pasternak
Cambiamento
Io avevo un debole una volta per i poveri,
non da un punto di vista superiore,
ma perché solamente in mezzo a loro
la vita andava senza pompa né parata.
Benché conoscessi la casta dei nobili
e il pubblico più delicato,
ero avversario del parassitismo
ed amico degli infimi straccioni.
E cercavo di stringere amicizia
con persone dedite al lavoro,
che in cambio mi facevano l’onore
di riputare pure me un rifiuto.
Senza vuote frasi era tangibile,
sostanziale, solido, corposo
l’ambiente degli spogli sotterranei,
delle soffitte prive di tendine.
Ma io mi sono guastato da quando
mi sfiorò la corruzione dell’epoca
e il dolore fu preso a vergogna
da schiere di ottimisti e filistei.
A tutti coloro in cui avevo fiducia
da lungo tempo ormai sono infedele.
Io ho perduto l’uomo dal momento
in cui l’uomo da tutti fu perduto.
(Quando il tempo si rasserena).
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