
Francesco Leonetti, Cosenza, 27 gennaio 1924 – Milano, 17 dicembre 2017
Francesco Leonetti vive la sua esperienza fra la generazione postresistenziale, che trova nell’impegno politico uno stimolo alla creazione “realista”, e quella sessantottesca per cui la politica diventa un fantasma creativo in se stesso. Leonetti, che si trova, prima, a far parte con Roversi e Pasolini del gruppo della rivista bolognese “Officina” alla fine degli anni ’50, e che quindi lavora con Vittorini al “Menabò”, scopre alla fine, al di là della letteratura e dell’ideologia stessa, il lavoro politico diretto. E’ la partecipazione alle lotte reali della “classe” (il proletariato) che conta, e lo scrittore ne sviluppa la dura poesia attraverso la sua poesia. Così Leonetti filtra la situazione del nostro tempo nei suoi periodi cruciali, dalla fase del capitalismo in ascesa, anni ’50-’60, alla contestazione: dalla letteratura portandosi verso il “reale”, ossia da un’attenzione iniziale allo specifico poetico visto attraverso l’ideologia passando alla totale disaffezione verso la letteratura, all’inclusione dell’individuo nel collettivo, alla didattica marxista. Sul piano delle strutture poetiche, Leonetti da un tardo naturalismo ancora eloquente e personale (La cantica, 1959) procede verso un monologo “sublime” fra sé e sé che, coltissimo e specialistico, diventa addirittura astratto nei versi sparsi in rivista, poi riscritti e raccolti in Percorso logico del 1960-75 (1976). Nel suo verso breve scatta la filosofia della contestazione, e tutto serve alla logica assolutizzante e alla densa pedagogizzazione.
Gilberto Finzi
Il piede
Questo il mio
bellissimo potente piede;
rotto piagato appoggiato esposto.
Oh che puzzo!
Sono un perdente,
un ribelle infame al dio del denaro.
Amen.
Vengo dal campo dei villani fottuti,
degli insolenti operai, degli intellettuali di merda.
lo con questo,
con questo calciavo all’inferno
i signori e i padroni e i ministri del dio.
E ora, dove è andato il mio piede invitto? Oh meschino!
Non è più grande, non ha un fine,
non ha neppure un seggio.
C’erano una volta i Saraceni, Attila, i Gialli;
ci risaremo noi, ritornati un dì
nel millennio terziario di bancate globali.
La vecchiezza
Un nome in mente non torna più bene … È scarsa la
compattezza del pene.
Di rado l’escremento mostra valore. Il cuore palpita come
in amore …
Più volte l’udito non sente … Eppure il tutto è ancora
di adolescente.
Come di chi non ha vissuto quasi niente. Anche se insorge il
disincanto:
non si scorge più nulla di grande … Né ci conviene affaticarci
avanti.
Si sa che la vita è un composto di spinte e di parole che sono dita
e un dì si torna alla resa, molecole nel vento, materia estesa.
Oggi il sussulto di male che induce il pensiero mortale
presenta il poi come un umus, con l’antica saggezza: il fiume
oscuro (nulla è detto), il sogno di un fiore, lo smarrimento puro …
Ma non si tocca la rinuncia che è radicale: l’illusione dura.
lo non sono, non c’è il mondo, tutto è un’onda …
Ma mi piace quest’ ombra.
Non si alzerà più il sole, se così succede un giorno, se si vuole …
Ma mi piace ancora una donna. Mi curo. E corro;
poi mi appoggio al muro.
E resta che il padrone, che il potere, che l’irragione, vincendo,
mostra che il fme non è affatto il nostro … Noi peschiamo dentro
il tutto errante, in un insieme – e è questo il solo senso.
Marcia di festa
Miserie non portiamo, ma ragioni
e in mezzo a voi
in marcia vi avvertiamo … E’ nel salario
una vita migliore
ché dove quello basti
ha questa il suo valore. E della classe
ecco le mire:
essere uguale
e più in alto soffrire, non da vile.
Se ora il turno è più corto
se la giornata non è tutto il giorno;
e se chi sangue trova nel suo sputo,
e chi si strazia, stanco a un ingranaggio,
non deve più offrirsi
al mondo con i cenci per convincere
pietà negli insolenti… non fu grazia
e ricordiamo quanto
occorse affanno, già non si dimentichi!
E si festeggia questo bene scarso,
non un parto regale, od un macello;
e si ricordano
i morti sul selciato
e lentamente
andiamo, uniti, con bandiere aperte.
Noi vi avvisiamo
col nostro passo
che se cercate chi mutando i tempi
il lavoro riunisse all’ubbidienza,
non c’è forca che giova.
E’ il giorno pieno della nostra festa;
né ci saranno fiumi, né fortezze,
noi v’avvisiamo,
in altra guerra di nazioni; più
a separarci
non ci saranno fossi;
e moriranno i capi, e i loro servi,
che mandano le genti
per un giuoco di terre a fare morte.
Noi diamo alla fatica ogni giornata
dove si batte, lima, sforza, incastra:
ed escono di qui
le sfere, i mozzi, i cavi,
gli spilli con la punta e la capocchia.
E lavoro la vita;
ma chi vanta in un marchio il suo cognome
felicemente iscritto,
accresce con le vendite i suoi zeri;
e quanto gli assicuri
avremo forze
utili il giorno poi, dà tanto a noi …
Francesco Leonetti
Francesco Leonetti è stato un narratore e poeta. Con Pasolini e Roversi ha fondato nel 1955 la rivista “Officina”, che ha avuto una funzione decisiva nel rinnovamento culturale e letterario degli anni ’50. Leonetti raggiunge i risultati più sicuri nei versi di La cantica (1959) e nei romanzi Conoscenza per errore (1961), rievocazione di una educazione morale, sentimentale e ideologica, L’incompleto (1964), ritratto dell’uomo contemporaneo diviso fra capacità critica e abbandono onirico. Segnate da un diretto impegno politico sono il romanzo Irati e sereni (1974), ambientato nella Milano della contestazione, e le poesie di Percorso logico del 1960-75 (1976) e In uno scacco (1979). In collaborazione con Paolo Volponi ha pubblicato Il leone e la volpe (1995), dialogo tra i due scrittori, cui sono seguiti il romanzo I piccolissimi e la circe (1998) e l’autobiografico La voce del corvo (2002).