Ewa Lipska poesie da “Il lettore di impronte digitali” Donzelli, 2017, a cura di Marina Ciccarini, commento di Giorgio Linguaglossa

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L’estraneazione è la categoria base attorno alla quale Ewa Lipska costruisce la sua poesia. Il verso spezzato e interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo è nelle mani abilissime della poetessa polacca uno strumento chirurgico atto ad introdurre nei testi le domande a cui non seguono mai delle risposte esaustive o che magari sono seguite da altre domande o risposte dal senso traslato che non rispondono affatto alle domande poste ma ad un pensiero sconnesso o interconnesso o a un retro pensiero. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali: «Non so nemmeno/ se è la storia che ha creato noi/ o se noi abbiamo creato la storia./ Se siamo solo l’eco/ di un cuore altrui» (Il mondo); «Siamo solo diversi in maniera tanto simile». Lo stile è quello della didascalia fredda e falsamente comunicativa che accompagnano i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche; la poetessa scrive alla stregua di una Agenzia dell’Erario, con vocaboli freddi e distaccati, dal senso chiaro e distinto. Eppure, è proprio in virtù di questa severa concisione che è possibile rinvenire nei testi, di soppiatto e appena visibili, delle fraseologie spaesanti e stranianti. Lo stesso titolo: «Il lettore di impronte digitali» è un classico esempio di didascalia chiara e distinta che, paradossalmente, produce un senso distorto e spaesato, dove la massima esattezza denotativa produce la massima dissipazione e ambiguità semantica. È questo il «metodo» impiegato dalla poesia europea più evoluta, il metodo proprio di una nuova ontologia estetica.

Giorgio Linguaglossa

 

Un verso randagio

Un verso randagio vagabonda
nella materia oscura della carta.
Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato
in balìa del destino. Orfano di parole.

A volte
i versi sono come cani abbandonati
che abbaiano alla poesia.

*

La vita
una pesante misura preventiva
contro la morte.

*

Sono usciti. Non sono tornati

Sono usciti. Non sono tornati.
Sul tavolo mandarini.
È finita la stagione della vita.

Sul muro
affiorano le loro immagini.

 

Testimoni

Sempre meno testimoni
potrebbero confermare
che questa era una vita
con una fabbrica d’amore.

Che questo era un paese.
Una strada. Un numero.
Un vento che spargeva schiuma di latte.

Che erano ragazzi
di un’altra dimensione.
Ragazze a sirene spiegate.

La storia rendeva
false testimonianze.
Il tempo si scostava dalla verità.

I morti si sono avvalsi
della facoltà di non rispondere.

Gli eredi
non hanno chance.

 

Il coraggio

Il coraggio vive di momenti pericolosi.
È sempre stato audace e intransigente.
La tata ne ammirava la sicurezza di sé
quando infilavamo le dita
nelle prese elettriche
e ci trafiggeva una lucertola nera.

Veniva con noi in vacanza.
Teneva sempre d’occhio
contusioni lesioni ferite.
Poi saltavamo dalle rocce dritti in cielo.
Ormai a nostre spese. Il rischio si fregava le mani.

Quando provavamo a resuscitare i morti
a sangue freddo ci riempiva di proiettili mortali.
Quando stavamo al davanzale della finestra
diceva: vedo
come un vecchio giocatore di poker.

In certi incidenti guerre catastrofi
ci servivamo senza scrupoli di controfigure.

Oggi è sempre più spesso vittima dello stress.
Di notte ci copre con una gragnola di domande.
Rantola come un motore rabbioso e ha paura dell’altezza.

 

Il Big Bang

Forse è ancora vivo qualcuno
che è stato complice
della creazione di questo mondo?

Un artigiano. Un orafo.
Un meticoloso orologiaio.
(Lascio da parte
divinità taumaturghi bari).

Forse è ancora vivo il cameriere
che lo ha servito su un vassoio
simile alla pinna
di un disco volante?

O forse è ancora viva la miccia
che ci ha spostati verso il rosso?
(Secondo Edwin Hubble).

Una vecchia fune di canapa.
Uno sbeffeggiatore di fuochi d’artificio
e di girandole.

È sempre nei paraggi
dei nostri
incontri pirotecnici.

Ewa Lipska

 

ewa-lipskaEwa Lipska, poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia il 10 ottobre 1945. Nella stessa città si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti. Dal 1970 al 1980 responsabile del settore poesia della casa editrice Wydawnictwo Literackie. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto diversi importanti premi per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte in molte lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: Ja (Io, 2004), Pogłos (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e Droga pani Schubert… (Cara signora Schubert…, 2012); Il lettore di impronte digitali Donzelli, 2017. Per il suo anno di nascita e per quello del debutto, avvenuto nel 1967 con il volume Wiersze (Poesie), Ewa Lipska appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione del ‘68”, vale a dire quegli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937).

1 commento
  1. una scrittura coinvolgente, ed una presentazione di Linguaglossa che ( per la prima volta da quando lo leggo ) mi ha stimolato a comprare il libro. cosa che farò

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