Cinque poesie di Giovanni Testori, nota di Giancarlo Vigorelli

Giovanni-Testori

Giovanni Testori, Novate, Milano, 1923 – Milano, 1993

L’opera di Giovanni Testori sopporta i campi espressivi della narrativa, del teatro, della critica letteraria e della critica d’arte antica e moderna, della stessa pittura, ed anche della saggistica e tematica religiosa e civile, ma di fatto comporta globalmente il campo unico della poesia: sia perché tutto quanto Testori manifesta sembra provenire da un unico roveto ardente, e sia perché in quel che vive, scrive, fa il suo vero (o l’errore) è sempre di natura e di condotta poetica. Una poesia, se si eccettua in parte Pasolini, insolita per i nostri tempi, al punto da parere fuori tempo sino a qualche anno fa, mentre oggi può risultare anzi anticipatrice di quel “titorno al sacro”, che Testori non è il solo a rivendicare. Conversazione con la morte, ad ogni modo, non è, come parecchi lo ritengono, il testo di una sua “conversione” religiosa: Testori, anche nel rifiuto di Dio, rimaneva cristiano; e forse, come di Baudelaire, di lui va detto che è trop chrétien. Tra tanti indifferenti, è salutare che nella nostra poesia irrompa un eccedente, un travolgente, visto oltretutto che è lui il primo a pagare di persona ogni alluvione e ogni peste. La poesia di Testori, mentre troppi giocano all’avanguardia e qualcuno vi si massacra, viene da altri secoli; perciò ha addosso il rischio ma anche il coraggio di forti concordanze ed emulazioni, Jacopone e Michelangelo, Calderòn e Milton, Grunewald e Caravaggio. Quel gonfiore, anche bubbonico, che soprattutto ne I trionfi insidiava la sua poesia, nello stesso tempo la riscatta e la qualifica perché dichiara la fine di una poesia di inopia e di aridità: nella poesia di Testori l’uomo, pur nella sua miseria, ritrova e rinnova la sua grandezza.

Giancarlo Vigorelli

 

Sì,
tu sei;
esisti nella vita,
risorgi nella morte
per ciò che ti brucia dentro gli occhi a mandorla,
azzurri,
per ciò che sai di te donare nel lamento
e più,
più ancora,
nel silenzio.
Non piangere;
tanta vita è già qui, tra noi,
e tanta ancora sarà,
tutta che resti a noi da vivere,
angelo e cane,
purché qualunque sia la redenzione
che tu farai di me in me,
sempre sarò legato
all’ombra oscura di tuguri e tane,
all’idiote speranze
gettate nella fragile allegria
d’incontri provvisori,
mai compromessi e spinti fino al limite
del sangue,
salvati sempre
o forse più dannati
da un lieve crepuscolo di gioco.

Alza anche tu
sulla città della vittoria tua,
ben oltre alza,
sulla mia
che si stende nell’infida pianura;
la mano alza,
sventola anche tu lo straccio,
il bianco brandello d’ogni rivolta necessaria,
la bianca bandiera della vita
e lìbrati
sull’ombra dei fucili
puntati contro Cristo!
Lìbrati
ancora te lo grido,
invincibile,
anche se vinto già
dal verme
che rode già e consuma
i ciechi vinti
e sui legni le bare di bellezze
del naufragio di rovina e strage!
Canta
Nell’orrore degli spasimi,
quando ogni evento
sembra farsi negazione e ombra.
Il graffito è qui,
di sangue e pietra;
il testamento brucia nella carne;
Chiavenna geme nell’incendio
delle vigne…
Rovina,
vittoria sulla morte,
lìbrati!
Angelo,
mia croce
lìbrati,
ricorda!

(da I trionfi, 1965)

 

QUESTA PASSIONE

Non maledire
tu
la macchia,
l’unto mantello
che mi batte e fora
la lastra della fronte.
La mano passa e il labbro;
raffredda il segno del battesimo tradito;
fa’ che l’inseguitore non voluto
abbia pietà di me,
di te rispetto;
che sia questa passione
ombra,
se non luce.

(da L’amore, 1968)

 

ERI BIANCO

Eri bianco,
la vita sembrava
in te finire,
io mi dicevo:
anch’io…

(… e il verbo che seguiva
era uccidersi,
morire.)

(da Per sempre, 1970)

 

IL GIGLIO INVENTATO

Il giglio inventato
è quello che hai scelto,
amato, lasciato.

È quello che per un’uguale rivolta
da Te adolescente, fedelissima scolta
S’è fatto profeta nel tempo
che era ancora prima di Te,
il tempo senza luce e ardore,
il tempo che attende
il messia traditore.

(da Nel tuo sangue, 1973)

 

ANIMA

[…]
Negli anni dellaa mia gloria,
dissipavo il mio corpo,
la mia mente
e la mia stessa anima…
Sorridete?
In ogni caso avreste ragione di sorridere;
m’è uscita di bocca un’altra parola:
anima,
anima mia…
E’ così?
Oppure: anima, perduta anima,
scura anima d’affanno e di morte…
Una parola che, lungo il giro dei tempi,
abbiamo lasciata cadere:
anima;
una parola che abbiam resa vuota e inerte
come la spoglia d’una cicala…

(da Conversazione con la morte, 1978)

Giovanni Testori

testori-217x300Giovanni Testori è stato uno scrittore, giornalista e critico d’arte (Novate, Milano, 1923 – Milano, 1993). Fra le sue raccolte di poesia ricordiamo I trionfi (1965), L’amore (1968), Nel tuo sangue (1973), Diademata (1986); fra i suoi drammi in versi Conversazione con la morte (1978), Interrogatorio a Maria (1979). Per il teatro La Maria Brasca (1960), La monaca di Monza (1967), l’Amleto (1972). Tra le ultime opere ricordiamo il romanzo Gli angeli dello sterminio ((1992) e le opere teatrali Verbò (1989), in cui si ipotizza un incontro a Milano tra i poeti Verlaine e Rimbaud, e Sfaust (1990), versione grottesca della leggenda di Faust. Postumo è uscito il dramma Tre lai (1994).

4 commenti
  1. Cattedrale delle ombre

    (…)
    Perché non è la notte
    Che ti nasconde Dio. Sei tu che lo nascondi
    temendo l’ombra.
    Tremando di paura di fronte all’infinito.

    Se non pianti le parole come chiodi
    Non sei poeta
    Perché quelle parole se le prende il vento.

    Se dici «morte» la falce si scatena.
    Muore la Parola. Non soltanto il fiore.
    Senza Parola in fiore tutto il mondo muore.
    Ma se non sei poeta e nomini la morte
    Muori solo tu.
    Non varchi la soglia della cattedrale.

    Gino Rago

  2. Questa poesia di Gino Rago vale più di un commento alle sempre destabilizzanti, urticanti poesie di Testori, che spesso gioca a produrre con i suoi versi effetti antifrastici, muovendosi sulla soglia sdrucciola di una poesia teologica non confessionale, mistica, apofatica, idoloclastica, in quanto rifiuto del razionale che possa produrre il sovrarazionale. Agisce, Testori – da par suo, da poeta – nel suo disgusto, la crisi nihilista della metafisica occidentale. Gino Rago entra a sua volta in dialogo con Testori, con l’anima, con Dio, mettendo in rapporto il Linguaggio con la sua radice. L’Altro irrompe come Logos, come un Soggetto di cui non si conosce l’essenza, nascosto tuttavia ancor più, nell’ombra dell’io, dal timore e dal terrore: “Se dici ‘morte’ la falce si scatena./ Muore la Parola”. Bellissimi versi, dotati di straordinaria potenza evocativa. Per non nascondere Dio occorre essere poeti, varcare con ciò la soglia oscura del Sacro?

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