Mario Ramous (1924-1999) è stato uno dei poeti più fecondi e consapevoli della sua generazione, degli ultimi decenni del ‘900, che annovera tra gli altri Giudici, Zanzotto, Pasolini, Testori. Scomparso dopo una lunga e crudele malattia, non ha accettato l’inedia della morte annunciata, ingaggiando con essa fino all’ultimo un sfida. Nella sua morte c’è qualcosa di agonico, perché il poeta l’ha affrontata a testa alta, sorvegliandone e scrutandone il lento avvio, dall’insorgere del male, fino all’esito finale. La sua ultima fase poetica porta i segni di questa sfida, dove il soccombente non cede neanche un attimo di fronte all’opportunità che la natura gli ha offerto: un dialogo serrato con la propria spietata avversaria, fino a metterla nell’angolo, crudele e vincitrice si, ma spoglia e denudata. Tutta l’opera poetica di Ramous fin dagli esordi, pare configurarsi come una continua demolizione degli orpelli, degli artifici e dei giochi del linguaggio, entro i quali nascondere le cose, prima di tutto a se stessi. Da questa operazione mimetica Ramous è lontano, accettando semmai il linguaggio wittgenstianamente come forma e modalità di chiarificazione della ragione, depurato da ogni pretesa assoluta. Non si tratta tuttavia di restaurare alcuna forma di eroismo di fronte all’irrazionalità del male. Ramous non l’avrebbe accettato per la decenza del suo tono di uomo e di intellettuale, teso semmai a ridurre a ragione, a circoscrivere e ad addomesticare anche la stessa prepotenza del male. A darne notizia e cercarne la causa, con il rigore di chi si è fatto le ossa alla scuola dei classici antichi, nella palestra della filologia, in un cimento ravvicinato con la parola. Forse qui sta il razionalismo di Ramous, nel suo impiegare la lingua per dire della lingua la sua possibile patologia, i contorni ipertrofici che reca con sé, come un germe pronto a distendersi e ad invadere ogni tessuto; un uso kantianamente quasi regolativo, volto a far sì che la lingua non sconfini dagli argini in cui è incardinata.
Tra l’ultimo verso di Per via di sguardo (Marsilio, 1996) e il primo di Il gran parlare (1998), non v’è cesura alcuna né segno di punteggiatura. Solo un numero progressivo diverso, secondo la numerazione che Mario Ramous adottava per identificare in qualche modo il magma impetuoso della sua poesia, apparentemente sospesa nel transito da un libro all’altro. Dall’uno all’altro si respira la stessa atmosfera, come se il poeta avesse solo variato i tempi della conversazione con se stesso, ma non il tono profondo del suo dire. Questa unità nel mutamento, fu l’impressione netta che provai quando Ramous per amicizia mi fece leggere in anteprima, ancora inedito, il manoscritto de Il gran parlare. Un fluire che si dirigeva verso la sua radicalizzazione e conclusione, secondo una partitura poematica che Ramous aveva sempre accuratamente salvaguardato nel dispiegarsi della sua poesia. Da studioso dei classici antichi l’ultgima sua impresa in tal senso fu la bellissima traduzione dell’Eneide), si era incuneato nel loro alveo ereditandone la forma e il genere, richiamandone sovente la terminologia mitologica, ma riversando in quel canale altra acqua. Ora che il poema ci appare compiuto nel suo insieme e orchestrato nelle sue parti e nei suoi libri, meglio comprendiamo anche l’ultimo tassello di questo mosaico, dove il disincanto rivela la sua cifra estrema. Generatosi come poesia intellectualis, il logos di Ramous non nasconde l’intento di spingersi con le armi della ragione fin dove sia possibile, alludendo ad una soglia del nulla (“scava scava non troverai che sabbia”) e mettendo in discussione lo stesso potere della parola, luogo di significazione, ma anche di estraneazione. Il logos denuda questa ambivalenza, marcandone quest’ultima destinazione: “Il gran parlare incipit di morte / là sul ponte che brulica di gente / dove epilogo non prevede inizio/ che mai in vita si sia esistiti / e altrove medesimo è nelle rampe / medesimo l’orrore delle ceneri / gesto non v’è che al presente appartenga”.
Troviamo così fin dai primi versi dell’ultimo capitolo del poema, l’affiorare di quel lessico funerario che ne contraddistingue il tono e ne esalta la lucida e tesa drammaticità. Il repertorio lessicale registra in tal senso gradatamente nuove accentuazioni (loculi, necropoli, ceneri, metastasi, necrotizzare, gorgo nero, orrida pena, Ade, lapide, agonia, falce e altro). La lingua, per un processo di riduzione, diventa specchio di una desertificazione generale dei significati, condotta ad un dire radicale, sottile pellicola translucida. La forbice della ragione taglia con freddezza quanto appare inessenziale. Saltata la cortina della parola, messi fuori gioco i suoi poteri di velamento e di artificio, non resta che l’incontro frontale con la morte, l’ultimo estremo colloquio che non può essere eluso: (“brano a brano il nemico mi divora / nel suo ventre non vive che sciagura “). Ma prima Ramous dissipa ogni forma di illusione a partire dalla stessa forma della parola confinandola al segno della convenzione: “ma non t’avvedi che le parole che cerchi / non sono più di convenzioni? / anche se senza non esisterebbe il mondo / ma solo pastura per sopravvivere / cosa dunque pensi in questa babele / di fermare per definirti / se le stesse parole mutano nel tempo / il senso che avevano quando nacquero?”.

Mario Ramous, 18 maggio 1924 – Bologna, 8 luglio 1999
In più luoghi del libro Ramous ritorna su questo terreno con un procedimento stringente di messa fuori gioco e spiazzamento, riguardo ad un uso perverso e distruttivo della parola, Idra onnivora, centro babelico di non-senso: “troppo dentro di noi è la parola / sen’altro scopo se non di sfuggire al tempo / come bisturi che t’inchioda / a un senso privo di sospetti /niente è più remoto del nostro nome / chiama chiama sarà come per il ciclope / impossibile riconoscerti”. Degenerata e degradata a luogo della confusione e dell’inganno, dell’artificio e della mistificazione, la parola assomma in sé i caratteri costitutivi della morte e del nulla. il silenzio estremo, pur nella giostra frastornante dei linguaggi, il deserto, l’orrido gorgo. Questo accostamento non è nuovo in Ramous, anche se ne Il gran parlare diventa centrale. Tracce significative di questo cammino lungo l’ardua burella che conduce alla ragione, si ravvisano peraltro anche nel libro precedente Per via di sguardo, laddove il poeta, attraverso un processo di decomposizione e dissezione del reale, incontrava “un baratro, un buco nero / che se lo varchi t’inghiotte annullando / qualsiasi vestigia del tuo passaggio / del tuo ricordo annulla la memoria”. Il logos nell’itinerario verso la cruda evidenza, escludendo ogni permanere di opacità, di blandizia e fraintendimento, richiama ad una dura, ma necessaria constatazione. Crolla il gran fastigio del linguaggio e il suo potere di dissimulare, si spegne l’anonimo e informe vocio: “no non troverai altro luogo / tutto ti seguirà il tuo mondo /se la grotta è scavata in te ogni gesto è presago d’agonia / e ti porti dentro i mostri / nel disordine di queste rovine” . Davanti a questa solenne accettazione si conclude, ma non con una resa, lo stesso lavorio della ragione: “di fronte allo specchio che ti rivela / non esiste lama che non si spunti”, senza consegnarsi ad un esito salvifico. Tutto scandito nel solco dell’immanenza, il poema di Ramous pare formulare, dopo tanto scavo, paradossalmente un monito: se neghiamo l’interlocutore, avremo alla fine negato noi stessi. In questa figura dell’interlocutore riaffiora così l’enigma del linguaggio, del suo duplice carico di morte e di vita. Ma il faro di Alessandria con i suoi papiri di biblioteca, ancora permetterà “voci diverse / non dogmi a cui uniformarsi”. Anche altrove, in altri campo del poema, Ramous sembra invitare queste voci ad un’estrema adunanza, all’ascolto, alla umile ma preziosa raccolta e protezione dei lacerti della parola : “e se nelle folate / qualche seme trovate / non tutto allora è perso”. Questa alta lezione che unisce critica corrosiva e al contempo custodia e tutela del linguaggio, andrebbe riconsiderata e rimeditata, anche per l’impronta fortemente etica che ad essa Ramous imprime, al di là degli esiti estetici ed espressivi notevoli, cui la sua ricerca perviene.
Addentriamoci quindi in qualche sentiero del suo cammino simile ad una ingens sylva:
Roberto Taioli
il gran parlare incipit di morte
là sul ponte che brulica di gente
dove epilogo non prevede inizio
che mai in vita si sia esistiti
sulle travi si porta il cadavere spoglio
dei discorsi distrutti dall’ansia di dire
come fuoco che troppo di fiamma s’innalza
esaurendo la forza nascosta nel ceppo
collocate sono le voci in muti loculi
per questa maledetta foia occidentale
di assegnare una schedatura ad ogni cosa
che ne definisce un significato solo
tamburo di un esilio che desta frontiere
come ciminiere di civiltà estinte
ma tra le macerie la lingua è sconosciuta
nei figli si destano destini di morte
e le parole perdono mummificate
l’imprevedibilità dei dirottamenti
che ne assicurano qualche sopravvivenza
in unità diverse ma riconoscibili
così che inoltrandoci fra loro ogni lume
si omologa con altri a formare necropoli
e nel labirinto delle ceneri impervio
tra lapide e lapide è ritrovare un’erma
che segnali l’acuto di un nome esemplare
e indichi senza filo d’Arianna la via
ah se potessimo distinguere una voce
tra la sordità di questo rumore bianco
gettare un ponte ma dove possa condurre
è avvolto dal baluginare della nebbia
potrebbe forse servire a rendere ciechi
orrore angoscia e sbigottimento degli occhi
ma dubito che questo inutile congegno
incastrato nel cuore della nostra mente
anche ammutolito ridotto a fatui sterpi
si lascerebbe estirpare con resezione
radicale ne resterebbe quanto basta
per proliferare in aggressive metastasi
batti batti ‘la vita ha una pelle di morte
che ne tiene il gusto” nulla vi può sfuggire
ciò che credi d’altri t’impregna è chiuso in te
batti batti bel Masetto in catene stretto
come un’endovena l’urlo avvelena il sangue
e non esiste farmaco che lo depuri
dalle sanie della palude come vomito
osceno che inatteso d’un tratto dirupa
senza che si ergano argini a trattenerlo
tracima il rombo sordo della controversia
così oltre il limite della comprensione
ci raggiunge il persistere della bufera
in un luogo ignoto ma che sappiamo esistere
e ci si chiede se abbia quell’unico senso
o se per errore si sia preso un abbaglio
ma per questo pullulare di larve si abbarbica
come un polipo straziante alle nostre gambe
e più acido non s’attiva per scacciarle
seguono le vie linfatiche sino al capo
e tutto occupano ciò che non distruggono
un tempo si cantava come metamorfosi
il processo con l’illusione di rivivere
stesso cuore stessa mente in forme diverse
ma l’inganno è che muta il sangue nella pelle
allora l’urlo indistinto non è più d’altri
si identifica è nostro acquista voce propria
una maledizione l’ira della vita
sono uguali a serpenti uno due infiniti
vengono da Tènedo per voce d’aedi
ma credimi ce li siamo cresciuti in seno
non rappresentano vendetta di un’offesa
recata a chi ci sta di fronte anche se è vero
per offesa a chi indifesi siamo è vendetta
con occhi ardenti iniettati di sangue e fuoco
strisciando s’inerpicano in lente volute
con spire immense s’attorcono con le squame
del dorso avvincono il collo e il capo sovrastano
morso più morso straziano le nostre carni
e non v’è scudo ove possano nascondersi
presone possesso il forte sfoggia torrioni
garitte mura come di nostra memoria
se scorrere non si avvertisse nuovo inferno
di voci ridotte a sinistra diafonia
che ne percorrono indistintamente il cuore
bisogna chiedersi dove quest’avventura
tragga origine e in quale luogo occulto porti
o non si tratti di un nubifragio di azzardi
che non accentui la tortura di tormenti ingeniti
forse che si fondi sul deflagare anomalo
di geni ritenuti a norma non è dubbio
ma è la causa del processo che appare oscura
che sia frutto del caso o di necessità
rimarrà per noi inesplicabile sempre
con passo malfermo si calcano macerie
come ciechi che a tasto esplorano la strada
e ciò che s’incontra se non l’orrore cupo
del contatto non fornisce chiave d’accesso
perché si debba subire come dovuta
l’arroganza che ci impedisce di ribattere
e dall’antidoto dell’amore ci esclude
non differisce dagli enigmi di una Pizia
ma nel soffocamento di tante parole
inavvertitamente se ne perde il senso
e altri pensieri si sovrappongono a quelle
confondendosi in un intrico indecifrabile
senza che più l’uno distinguere si possa
dall’altro dissolto in un magma indefinito
e impossibile sia ritrovarne coscienza
più aurora non si leva o tramonto precipita
e in una caligine cieca si vien meno
come violentati da strazio di narcosi
Mario Ramous
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.