A Milano. Tre poesie di Roberto Taioli, nota di Maria Grazia Ferraris

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Metà degli anni Sessanta del secolo appena passato: una canzone di Memo Remigi, cantata da Ornella Vanoni diceva:
Sapessi com’è strano/ sentirsi innamorati a Milano
a Milano./Senza fiori senza verde/ senza cielo senza niente.
Fra la gente/tanta gente.
Sapessi com’è strano…..

Che cosa c’è di meno romantico di Milano, col suo traffico, la folla, i rumori, la nebbia, gli odori, i sapori? Di meno poetico? di più caotico e solitario? La precisione topografica e meteorologica poi sembrava un difetto, uno squilibrio sentimentale, un elemento realistico descrittivo che invadeva la vita interiore impedendole di esternare ciò che in noi è più intimo. Ma quale poesia? Eppure… la poesia ha vita e risorse infinite. Mi riporta a quelle lontane e vissute atmosfere giovanili la poesia di Roberto Taioli. Tre poesie che ci immergono nel clima milanese. Per lui sono i mezzi di trasporto che catturano: i vecchi tram sferraglianti della Milano invernale. Sono carichi di ricordi- ma non reliquario- misti al formulario psicanalitico che nella quotidianità si dipana nel tragitto tranviario. Da consapevole non turista della vita. Poi la Milano invernale, fiorita di gelo: freddo, buio, sera, oscurità…., via solitaria: un tram appena illuminato si perde in lontananza lasciandoti solo, ritardatario, vuoto, alla fermata. Una metafora della vita e dei suoi cascami, un pensiero fortemente analogico che diventa poeticamente immagine pregnante, un binario morto. Metafora della vita il tram, specchio metropolitano, milanese: binari tremolanti, tram lenti , sferraglianti, androni vuoti, illuminati spettralmente, metafisici… “l’anima cammina su tutti i sentieri”: quelli del quotidiano, dell’ieri e dell’oggi, della memoria e del presente, dell’attesa senza fine.… Tardivo il giro del tram;/ la vuota vita scivolava quieta sul tremolio dei binari e strane/luci fissavano ombre di ombre/ agli androni vuoti.” Sentimenti velati, «fuori significato» e quindi irriducibili a ogni significato esplicito con cui possiamo tentare di esprimerli; per sempre perduti: nella perdita la cancellazione dell’origine

Sapessi com’è strano/ sentirsi innamorati a Milano…
A Milano. La vita, comunque. Sempre. Un buco.

Maria Grazia Ferraris

 

Punctum dolens

Quella notte che nell’ultimo tram
mi rannicchiai
in fondo non c’eravamo che parlati
senza scoperte illuminanti per le nostre vite
(la mia, la tua, cosa le unisce ora
se non splendide sere al freddo).
Non si era che toccato quasi sfiorato
un qualche puntum dolens
un intreccio di cose poco illuminato.
A piene mani nel passato? Resta un discorso
di psicanalisi col suo formulario: es ego super-ego
(che giusto si rifugge).
Per noi per me mai reliquario.
Si potrebbe penso per un discorso a misura
partire dall’oggi così carico, stentatamente
ricostruito nel tragitto tranviario

 

Absconditus

Così perso naturalmente mai
la sera fioriva di gelo
e quelle luci di tram in lontananza
bucare a sera il buio della via.
L’umanità non serve
per raccogliere i cascami della vita.
Il tram rigira nel binario morto
vuoto alla fermata.
Quante volte salisti
o discendesti in fretta per tornare
a casa a notte fonda
ove nascondere il domani
che verrà o non verrà
nascosto tra le foglie del viale.

 

Primo giro dell’anima

Tardivo il giro del tram;
la vuota vita scivolava quieta
sul tremolio dei binari e strane
luci fissavano ombre di ombre
agli androni vuoti.
Un po’ più avanti ancora
in quale casa sedesti e perdesti
gli ultimi anni di te e di noi.
Dove eri noi siamo
dove non ci sei più, siamo ancora
fuori dalle mura assiderati
e come in dolente attesa.
Venivi tornavi entravi uscivi
dal buco della vita.
Sia l’eterno di noi.

Roberto Taioli

2 commenti
  1. Sommuovono, commuovono le corde di radici e trascorsi milanesi miei, le poesie di Taioli e la prefazione della Ferraris. Conosco e riconosco tutto, e tanto basta a che il rispecchiamento – solo una delle fatali e necessarie conseguenze della poesia – si trasformi in compassione (letteralmente intesa) accesa dalla memoria.
    Mentre scrivo questo, un buon odore di pagine fresche di stampa di un manuale, forse di filosofia, si leva dal posto della collega dirimpetto al mio tavolo (le sfoglia).
    Trovo nei versi di Taioli atmosfere hopperiane divenute parole. Stilisticamente sono forti i rimandi alla ineludibile lezione di Luzi, a sua volta contenente rimandi iconici e lessicali a Montale. Ed è questo filo rosso che riconduce a un Novecento finalmente essenziale e non necessariamente scabro, secolo vissuto e non capito del tutto da chi, come noi, troppo intensamente lo visse, a rendere sensato scrivere. Dentro ogni forma fattasi classica perché interfaccia suprema, faticosamente escogitata e definitivamente non superabile, resta compito di chi scrive trovare la materia che le appartenga. Taioli lo fa, magistralmente.

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