“La ferita del possibile” di Sabino Caronia, letto da Marco Onofrio

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Come la critica letteraria autentica non è citazionismo ma dialogo profondo con i testi, così, allo stesso modo, la poesia non può risolversi nella dimensione intertestuale dei calchi, degli echi, delle riscritture, perché altrimenti sarebbe soltanto “letteratura”. Perciò qui, parlando del suo nuovo libro di poesia (La ferita del possibile, Soveria Mannelli, Iride Rubettino, 2016, pp. 96, Euro 10), non mi interessa tanto percepire il polso degli autori assimilati da Sabino Caronia sulla scorta delle sue smisurate letture, per cui – leggendo in filigrana – è piuttosto facile intravedere la citazione vibratile (quasi per luminescenza ectoplasmatica) dei poeti latini, dei provenzali, degli stilnovisti, di Petrarca, Tasso, Leopardi, D’Annunzio, Campana, Cardarelli, Caproni, Montale, etc.; quanto soprattutto sviscerare la poesia autentica che nutre di contenuti umani quelle forme, quegli stilemi riconoscibili.

È una poesia rammemorante, che nasce da uno stato di disillusione, come «delusa memoria» delle speranze tramontate dentro l’oceano buio della realtà. È la poesia di un uomo ormai maturo che può permettersi di dire: «tutto già visto, tutto già accaduto». La sua parola nasce dalle piaghe sanguinanti delle vicissitudini e dai conseguenti processi di macerazione esistenziale, sedimentando attraverso gli «acquitrini del tempo». L’angoscia di esistere porta spesso alla disperazione, o alla sensazione crepuscolare di sentirsi tristi come la «pioggia lentissima d’autunno», senza avere conforti duraturi: neppure la fede, poiché il silenzio immenso del cosmo ci parla di assenza: «Dio non c’è» – scrive Caronia – «me lo dice il suo silenzio». C’è dunque un confronto preliminare con il buio infinito del mondo, cioè del mistero su cui affaccia la nostra esistenza (l’ignoto della morte), e con l’entropia della rerum natura per cui «il buio cresce e l’anima dispera» Da cui la rarità preziosa della luce, dei fuochi, delle sparute scintille. Ma anche nella «fredda luce assassina» dell’alba (che già a Caproni metteva angoscia) il poeta sa leggere la sua «rovina». E infatti i semi e i segni che presiedono – come i tarocchi di un cartomante – alla lettura semantica-predittiva delle esperienze, sono passibili di viraggi simbolici e trasformazioni bipolari (il laboratorio alchemico del poeta è un motore di ambivalenze e di metamorfosi creative). La notte infinita alla quale siamo tutti diretti si scontra con la nostra capacità di resilienza, cioè di «rinascere al giorno» e «fiorire / a nuova luce», e ancora «rinascere in un’ansia di mattina». Attenzione: ansia, non speranza. Eppure Caronia può scrivere: «A dispetto di tutto / voglio credere ancora». A un certo punto egli evoca la tenebra più profonda della storia: il male assoluto manifestatosi nelle tragedie del ‘900 ha reso barbarie «pure la poesia», come già disse Adorno. Però il poeta, se è fedele al proprio mandato costitutivo, non è «cantore occasionale» che fa «scudo / alla pietà» col suo «vano parlare» (come il chiacchiericcio di tanti pseudo-poeti contemporanei), ma uno che celebra ciò che canta – fin dalla sua origine: uno che se canta sé stesso canta il mondo, e viceversa.

Ci sono, in realtà, tante cose dolci da opporre al vuoto del mondo, e alla nebbia tenebrosa dell’esistenza. La donna, ad esempio, meravigliosa creatura che riempie di anima i luoghi dove arriva e abita, ed è capace di guarire il male con la sua sola presenza. Caronia inscena le diverse, antichissime modulazioni della donna idealizzata, la donna-angelo dalla grazia incarnata, per cui a un certo punto può addirittura scrivere – ricalcando la preghiera mariana – «tu sei la benedetta tra le donne». Se manca la donna «tutto mi manca», il sole tramonta all’alba, fa notte a mezzogiorno, e insomma il mondo intero si svuota di significato. Se sparisce il dono luminoso del suo cuore, «non c’è più nulla». Eppure, a ben vedere, la donna cantata da Caronia è perfetta e inattingibile solo nella distanza del sogno e del desiderio; quando il contatto etereo si materializza in rapporto terreno, l’angelo diventa demone, la donna idealizzata diventa fatale e crudele: leggiamo di «forbici alle mani», «parole di gelo», «freddo sorriso», «sguardo cattivo». Questo perché la distanza – come insegna il mito di Orfeo – è indispensabile al canto d’amore: solo così può liberarsi l’incanto per cui i pensieri si fanno «chiari e perpetui», cioè il potere orfico di apportare la luce, sciogliere l’orrore ancestrale, cambiare di segno la negatività. Accanto al bene amato «non si fa mai notte» solo quando si prescinde dall’implicazione reale e carnale di un rapporto, cioè si resta sul piano iperuranico del pensiero, laddove le idee perfette non decadono in realtà imperfette e problematiche. Solo su questo piano, e anzi grazie ad esso, «il buio mi farebbe compagnia»: così grande è la consolazione interiore di quel pensiero, che il male stesso diverrebbe terapeutico e «svanirebbe ogni mia paura antica». Proprio per questo le mancate promesse e le freddezze crudeli della donna-demone ravvivano il fuoco dell’amore, rendendolo «infaticabile» e «ostinato» nella misura in cui viene respinto. Caronia mette in opera e in scena una evidente pulsione “masochistica”. Scrive infatti: «amo l’odio che mi porta ed amo / pure, con esso, il male che mi fa». Si affeziona dunque al dolore («io non voglio guarire» dichiara in un altro passo) e di conseguenza al carnefice che glielo infligge. Ha bisogno del “no” della donna per cantarne l’assenza da lontano: «per me l’amore è assenza», scrive senza mezzi termini. Se la donna dicesse di sì, perderebbe con ciò stesso la sua attrattiva: l’incanto verrebbe rotto in un istante. Deve esorcizzare un possesso che non è in animo (e forse non è in grado) di realizzare: cerca «le rose di maggio in dicembre», cioè il dono fuori tempo, l’impossibile. Ama più l’amore che la donna amata. Preferisce mille volte il sogno alla realtà, perché il sogno è perfetto ed eterno, e la distanza è «azzurra». Si legga in proposito la poesia intitolata “L’azzurro”, che a mio giudizio costituisce una eccezionale riproposizione (aggiornata) del pensiero poetante di Leopardi, risolto in chiara e schiarente armonia:

Chiedi perché la bella età si celi
o nei tempi futuri o nei passati,
chiedi qual cara illusione ornati
l’abbia coi suoi cristallini veli,

per qual virtù sian di zaffiro i cieli
e in dolci lapislazzuli stemprati
i monti e, in pura calma addormentati,
sian mari e laghi a quel color fedeli.

Così chiedi e una voce in te sussurra:
“Non l’orizzonte è azzurro ed i profili
familiari dei monti e non è azzurra

la gioventù, l’amore o la speranza,
la pargoletta gioia o i puerili
sogni del cuore: azzurra è la distanza”.

La distanza necessaria al canto d’amore prelude e conduce a uno dei cardini del libro, ovvero il tema dell’assenza, l’assenza di cui tutto si fa “diario”, attraverso la parola che articola il colloquio del pensiero e della voce con il vuoto, la mancanza incolmabile del segno vitale (presenza, corpo, calore, voce, sguardo) di cui le cose restano sole, anzi «solitarie». L’assenza somiglia al «gelo della morte», ed è un veleno che impedisce ogni altro godimento: «Se tu manchi, sai, tutto mi manca, / ogni umana, celeste compagnia, / e in ogni voce invano la tua voce / cerco, perduta, come stella in cielo». Ecco il silenzio che raccoglie il vibrare delle voci se ne fa cimitero, firmamento sterminato dell’assenza… Il vuoto, in realtà, è eterna presenza di ciò che non è più. Caronia colloquia a tal punto con l’assenza da farne una presenza: «Passeggio per la strada / con la tua assenza a fianco». Cerca la forma perduta nel vuoto, lo modella in essa, ne afferra l’impossibile occasione. Il visibile, in queste poesie, è molto a contatto con l’invisibile: il poeta capta con strumenti sensibilissimi la smaterializzazione prismatica degli oggetti, il ricordo in agguato, l’iridescenza della sfumatura, l’angelo segreto, la visita impercettibile, il “passaggio in ombra”. È nei dettagli che si celano i messaggi più importanti.

Un altro classico pilastro è tema della caducità, dell’impermanenza universale. Tutto passa e declina e dilegua e vola via: «muore anche il mare». «Tra due notti è racchiuso ogni giorno» ragiona il poeta «e mai niente di umano eterno dura». La legge delle cose eternamente conferma che, se «è stato, non sarà mai più». Qui il piano individuale si riconnette a quello collettivo, per cui la stessa «storia umana è l’attimo che fugge» perché di esso – della sua unità elementare – è costituita. Per questo siamo viandanti che prendono commiato: istante dopo istante è una continua morte alla nuova vita che si apre. E proprio per questo «irripetibile è la nostra storia», madornale devastazione di cose cancellate, concluse, non più nostre. Ogni attimo è unico e irreversibile, e neanche Dio potrebbe far sì che non sia accaduto quel che è accaduto, o richiamare indietro la pallottola sparata. Nessuno può restituirci cose e persone morte: non ci appartengono più «anche se a noi / galassie di giardini / offrissero pietosi gli universi». Ci sono i ricordi, certo: gli ultimi baluardi, prima dell’oblio. I ricordi fermano l’essenza delle cose in una specie di paradiso eterno. Ma neppure i ricordi bastano e salvano: «a che serve un ricordo, a cosa giova / la lontana memoria di un sorriso?» si chiede Caronia. Per poi amaramente ammettere che «anche i ricordi non sono che mani / che non si toccano e ogni cosa muore». Per cui tutta la vita «in fondo è cosa persa, / l’inganno di un inutile richiamo», e allora forse – per soffrire di meno – sarebbe meglio «cancellare le tracce» di ciò che tanto, ormai, non torna più.

L’universo poetico di questo libro è inquieto, risentito, traumatizzato: nulla è sicuro e vero, tranne il dolore e la frattura interminabile dell’armonia. Per questo forse Caronia cerca la salvezza nello stile, dalle cui sicure forme classiche non vuol derogare. La morte in costante agguato circonda il letto (cioè il giaciglio, l’angolo riparato, il ristoro dolce del tepore) dove l’amore, come un bambino malato (eco di Corazzini?) vaneggia tutta la notte «tra le mani della sorte». Creare appunto uno spazio abitabile dove non sentire il richiamo e l’orrore della morte, ripararsi in un cantuccio, come bestie ferite: il poeta chiude porte e finestre, se ne sta a letto tutto il giorno «con le coperte su fino alla testa» per non vedere la tragica assurdità dell’esistenza. E ancora: «tengo chiusa la porta di casa / di fronte all’invadenza delle stelle». Quasi per paura di cadere in cielo (come ne “La vertigine” di Pascoli), o di ascoltare il lugubre richiamo delle sue abnormi profondità. La ferita dell’inesistente si articola non soltanto attraverso ciò che non è più, ma anche attraverso ciò che ancora deve essere, o potrebbe essere. Ecco la “ferita del possibile” che dà il titolo al libro, conferendogli un tono di angoscia kierkegaardiana: ed è una ferita che «sanguina ancora» (e mi sovviene la piaga rossa languente di Campana) poiché in essa suppura la nostalgia impossibile del futuro (tutte le possibilità che perdiamo, ad ogni istante, come strazianti schianti nel cuore) o di ciò che poteva essere e non è stato, e mai sarà. Ogni cosa dunque sembra immersa in questa corrente cosmica di trasformazione, che ci consuma lentamente e inesorabilmente: «tutto corre veloce / dalla vita alla morte / come fiume alla foce», scrive Caronia con accenti di poeta metafisico. E aggiunge gravemente: «da questo fiume non si fa ritorno».

Eppure c’è l’amore, con la sua forza eversiva e le sue dirompenti rivoluzioni. L’amore, soltanto lui, «nuota controcorrente» opponendosi al fiume della morte universale, quindi andando a ritroso, verso l’origine, la sorgente del tempo e della vita. Ecco perché, scrive Caronia, «non siamo niente / se ci manca l’amore»: perché l’amore è un formidabile strumento di destorificazione, per uscire dal tempo ed evadere dal brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera (come scriveva Leopardi) e raggiungere, invece, isole di eternità «dove il tempo è fermo» e dove «non s’invecchia e non si muore». Una costante della scrittura caroniana è la tentazione regressiva – da lui peraltro analizzata, in D’Annunzio, attraverso le splendide pagine iniziali del suo volume di saggi critici “L’usignolo di Orfeo” (1990) – cioè il ritorno al “paradiso perduto” del soggiorno intrauterino, con le sue liquide e soffuse beatitudini: si legga in proposito anche “L’ultima estate di Moro”, sempre di Caronia, e la tentazione mitica di certe pagine, immerse nella luce sfolgorante dei “giorni della sirena”, di lampedusiana memoria. Così, pure in questo libro scrive di «acqua materna ove vorrei annegare / cancellare il molteplice nell’uno». Anche la poesia tende, nella sua pulsione orfica, alla regressione. La poesia, come la magia, permette di risolvere la “crisi della presenza” di cui parla Ernesto De Martino, cioè di trascendere le situazioni nel “valore” – attraverso il velo protettivo dei simboli. È su questo traliccio metafisico che Caronia appoggia la sua nostalgia delle origini (la madre, la terra natia, i luoghi felici dell’infanzia, «paradiso perduto per sempre»), che a sua volta si articola in nostalgia del mitico, dell’epico, del sacro.

Questi sono gli approdi ideali cui tende la «nave di cristallo» della sua insistente meditazione intorno alle cose alte e supreme, da cui procede la misurazione del contingente sub specie aeternitatis, cioè il riconoscere «l’eternità nel tempo». «Cos’è, rispetto all’eterno», si chiede «codesta / nostra età che richiede oscura prosa»? E infatti l’esistenza è breve e invariabilmente destinata alla tragedia, perché edificata – con mura fragili – intorno al mistero insondabile della morte, che tuttavia determina il valore stesso della vita. Caronia è punto in cuore da una tentazione ascensionale («scalare / le montagne di luce», «salire nel sole / e arrivare alle stelle» dove «perdersi e trovarsi / e poi perdersi ancora») che si risolve, in extremis, nell’oltranza di spingersi fino al limite ultimo che è concesso alla nostra mente e alla nostra conoscenza, dopo il quale non si torna indietro. C’è una sorta di superuomo, in lui, che lo attrae nella volontà di coincidere con le figure del cavaliere antico, o del santo. «Il vero amore è sete di assoluto»: questo suo verso potrebbe essere uno dei detti-guida della religione delle lettere alla quale ha dedicato la sua vita; pur nella consapevolezza che le parole restano sempre imperfette e relative, tanto che in fondo sono «ahimè, tempo perduto».

Caronia oltrepassa in volo le secche del post-modernismo e, pur attraversando le suture nevralgiche della grande frattura moderna, assimila le sue direttrici poetiche a un’opzione durevole di “canto”, di lirica eterna dell’uomo. Egli ha gli strumenti retorici per resistere alle sirene modaiole e “minimal chic” dello scetticismo, della dismissione, del “pensiero debole” a tutti costi. In altre parole, l’apertura della dicibilità del mondo e l’ideale di una sua olistica, sopravvivente globalità, non sono mai venuti meno alla sua penna. Per questo, in un momento di perdita dei confini e di indebolimento dello specifico letterario, la funzione di questa poesia può essere, se non di rivitalizzazione, di “riaccordatura” del canone, cioè di “valorizzazione dei valori” dimenticati. E per saggiare lo straordinario valore umanistico di questo libro, basterà leggere la nobilissima restituzione del dono che anima di “sublime” la stupenda lirica “A Luca Canali”:

E se pure di noi resta qualcosa
oltre un nome ed un’ombra senza peso
tu, Catullo, dottissimo poeta,
d’edera cinto il giovinetto crine,
nella valle d’Eliso, sorridente
vienigli incontro e tendigli la mano.

Marco Onofrio

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