Montale l’ha detto “alessandrino” ma la parentela di Kavafis con l’uso del greco nel suo presunto anacronismo tematico eccede. Vacanza regalata a Callimaco e Meleagro avvantaggia la poesia preferita della “cosa” nei confronti della predilezione per la “parola”. La tecnica di sforbiciare l’armamentario sfarzoso di rime e similitudini, perpetrato dal poeta durante la prima decade novecentesca, guadagna nelle traduzioni l’infusione pentecostale del medesimo soffio in ogni faglia che pulsa il vacuo e il caduco. La perfezione del tradimento egregio regolarizza e omologa testi per sottrarli alla caotica biblioteca linguistica di un neo greco puristico mal compiuto. La situazione schiaccia la pagina anche per quei Nobel che scrivono male e l’assurdità di un greco letterario tuttora paradosso per un autore d’inizio Novecento è rompicapo insolubile.
Per Kavafis il linguaggio non è mezzo conoscitivo ma assimila. L’umanità è ontologicamente borghese e lo sfrutta con le medesime finalità indistinte nell’utilizzo dell’auto o del telefono. Così la poesia è ago che vaccina la propria babele oggettiva con il suo codice semantico. La corrispondenza tra realtà occasionale e scritturale dei lutti sulle tombe di ragazzi ormai millenari non è anticamente alessandrino. Era della poesia e età del poeta si confermano divario definitivo nella lacuna di panorami locali, costante di Kavafis da natura fa storia: Anni di giovinezza, vita di voluttà…/Come ne scorgo chiaramente il senso. /Quanti rimorsi inutili, superflui…/Ma il senso mi sfuggiva, allora. / Nella mia giovinezza scioperata/ si formavano intenti di poesia, /si profilava l’àmbito dell’arte. / Perciò così precari i miei rimorsi! / E gl’impegni di vincermi e mutare, /che duravano, al più, due settimane. L’attualità di sé nella durata e nell’instare dei containers perituri è, in quanto esiste, nel tessuto dei fatti. Il personale in Kavafis contenuto emana dalla vocazione dei sensi, voglia e istinto del corpo sfuggono a quella trama lungi dal patteggiamento tra l’io e il non-io e in distacchi equidistanti l’approdo è scalo d’imbarco. Nel momento stesso che la lingua madre rivela Kavafis forestiero lo riporta al registro europeo che non rivive neoclassico ma ripara nel fantasma ellenico e di Bisanzio, fantascienza al contrario di uno ius soli rasserenante e cardiaco della posterità. Séguito e discendenza filiale sono doppia candela di un’origine e fine, sovrapponibili alla cultura distrutta ma moderna del dopoguerra.
La casa pericolante, eretta sull’Ultima Thule si ricompone perché il greco diventa nelle sillogi adunanza delle totalità disperse e policentriche, di diaspore moribonde qua e là allegre poco prima che la forma si sgusci per allettarsi salma. Quando la lirica alessandrina fiorisce testi moderni, Kavafis realizza l’opposto sul piano retorico e sopprime l’idea apocrifa dello scrivere in lingua morta o il sogno sieroso e amniotico di Pascoli conviviale. Riformula una ventriloquia organica nella sua attualizzazione epica e neppure spontanea: serve uno sforzo di simbolizzazione aprioristica per isolare il diaframma che divide la città attuale dalla polis di età ellenistica e romana cantata dal poeta. Alessandria non è la Parigi di Baudelaire ma più ricalcabile alla Londra eliotiana, guai viceversa.
Nei primi componimenti cavafiani che omaggiano lo Spleen, si rivelano le voglie di una città ideale, trovata infine nelle contrade dov’è nato e cresciuto oramai a lampioni spenti e per esserci gli è necessario indietreggiare nei secoli. L’archeologia di Kavafis si pone presente retrodatato, “perfetto” nella coniugazione della grammatica e la sua tratta sentimentale evolve il parere di Isherwood su Berlino annessa a Weimar. Alessandria d’Egitto nell’influenza bizantina è adolescenza del mondo, versione su scala ecumenica di gioventù personale espressa nella lode dei bei fascini giovanili. Non differiscono la città, efebia demografica, e il ragazzo, ambedue incarnanti un sovrappeso biologico.
Oltre pienezza interviene solo il decesso, obesità irripetibile, legata a ictus accidentali o decisi e le date anagrafiche che insistente il poeta riporta sono campanello d’allarme per riviverle nel ricordo, semmai resti, come in Satura la poesia di Montale sul cognato. Folti epigrammi mortuari, prossimi ai frammenti ellenistici, delimitano biografie esemplari recintate dai loro stessi spuntoni, le palizzate dei sensi. A caso “Oroferne” recita: In qualche posto, forse, fu scritta la sua fine/ e s’è persa. O la storia l’ha taciuta, /e a buon diritto non ha perso tempo/con un evento di sì scarso peso.
Eros e annali si nebulizzano nell’ultima esperienza del corso personale e d’epoca. Per Kavafis il soggetto rimane moderno mentre l’antico diventa oggi e si fa gambero lirico: muta il tempo del presente e non l’io tramite sospensione di sogno o ricordanza. Il ricordo, quando esiste, riconsegna qualcuno o qualcosa dal passato e non reca pronome “tu” in filo già trascorso, nonostante a lettura disattenta si rischino fraintendimenti ungarettiani: “Si saranno guastati gli occhi grigi/-se vive- e il suo bel viso. // Serbali tu com’erano, memoria. / E più che puoi, memoria, di quell’amore mio / recami ancora, più che puoi, stasera. Adriano di Yourcenar la spenderebbe concezione eleatica del tempo perché in effetti Kavafis non compie peregrinazioni a ritroso ma regala al suo edificio interiore la koinè di un’Itaca conclusa nella condivisione, dove l’eccezionalità dei sentimenti si universalizza carattere pubblico nell’istante in cui si privatizza al massimo. Kavafis si scopre nel suo ellenismo “corinzio” che apprende le condizioni umane con paura e pietà sempre relazionate a mappa e almanacco precisi, mai in regioni o province astratte. Se nel suo polo scettico combatte colposo un fievole rimorso, l’ormone greco previa evangelizzazione rattrista nei bottoni censori dell’intimità. Calunniato dall’omofobia dell’epistolario paolino, il sesso si sterilizza libido bastevole che nello sfogo di incontinenze obbliga il piacere a contesti e archi cronologici circoscritti. La vetrina del tabaccaio documenta: Accanto alla vetrina tutta luce/ del tabaccaio, stavano, tra molti. / Gli sguardi s’incontrarono, per sorte:/ dissero la vietata bramosia della carne, /timidamente, dubitosamente. / Sul marciapiede, pochi passi d’ansia –/ Sin che sorrisero, lieve accennarono…/ Ed ecco, ormai, nella carrozza chiusa, / il sensuoso tatto delle membra, congiunte/ mani, congiunte labbra.
I rullini negativi del millennio trascorso, sazio dei retaggi precedenti e annegato nel disorientamento, si sviluppano limpidi e striscianti narcisi dall’autobiografia e dall’invenzione di Kavafis.
La proiezione del proprio destino nella storia più il riserbo che gli ermetici italiani, sebbene agli antipodi d’intenti sotto aquile e scuri littorie, recuperano nel silenzio, nella cifra e nell’Antologia palatina, rimpatria al molo sommerso della soggettività di coscienza. L’eros classico, non tradizionale in virtù dell’omosessualità che infrange i canoni petrarcheschi sovviene preambolo alla preghiera di Sylvia Plath, cioè sostituire nelle liriche amore con desiderio per rendere più condivisibili gli affetti moderni. La sistole immediatamente indifesa di quel battito caro a Penna e la sua indole tutta trasgressiva postulano il linguaggio di ritegno, eufemismo che maschera e nobilita l’inguine. Per autenticarlo sponda ante capitalistica e decotto di paganità primitiva, Pasolini omologa notti alla contemplazione narcissica della gioventù, ruspa adescante d’immobilità funerea, funeraria per delitto. Le bozze postume decise a dialettizzare l’ieri con l’oggi ne dichiarano la superbia da rive di nera dopo-storia. Il mito dell’inestinguibilità, nei rifacimenti del cassetto, si riesuma sofferta pulsione masochista per ledere il familiare ritratto giovanile mentre s’atteggia sfregio dei suoi scorci vecchi. Le idee ecumeniche d’un passatista del domani sordo a ingerenze tranciano cavi ai romanticismi e oneste scelgono riflessioni in stanze prive d’elettricità, apprezzano le berline a benzina tuttavia riciclano verbi e punteggiatura rigettati dai futuristi. Un fiore per Kavafis di Alfonso Gatto siede lì, desinenza testimonial sull’epigrafe premiata dal tardo rintocco d’un pendolo allo scoccare di mezzanotte… : Un uomo come lui che gli somigli, /stanco e voglioso d’esser più solo/di quel che fu con i pensieri suoi, /con le sue mani attente a trovar posto/alla tazza al bicchiere al quadernetto/di versi, luccicante per gli occhiali/l’intensa tenerezza di cui visse:/questo, nel freddo dell’ottobre schivo,/il fiore che ti porto./È nell’emporio dolce della noia/il confetto pensoso che rimugini/con l’amara lentezza dello sguardo,/il notare il notare e mai concludere,/come dicevi,/e la saggezza pigra dell’amore.
Michele Rossitti
L’ha ribloggato su "RAPSODIA" di Giorgina Busca Gernetti.
Poesia è linguaggio, sembra dire Michele Rossitti. E’ poeta non solo chi scrive ma anche chi parla, pensa o sogna. Se così l’intendiamo non vien difficile riconoscere chi è miglior poeta: come Rossitti con e per Kavafis.