Un poema sul silenzio di Abele che Lucianna Argentino indaga affrontando problematiche teologiche antiche e attuali. Nella Bibbia Abele compare muto ed è nominato poche volte, a differenza di Caino e la poetessa incentra il suo interesse su questo aspetto inventando un dialogo di Abele con la madre, in modo da restituire al personaggio la sua dimensione, tanto è vero che Alessandro Zaccuri, nell’introduzione, lo sottolinea: scommettendo con forza sulla necessità di rendere ad Abele e ad ogni vittima il ruolo centrale che da sempre hanno conquistato con il sangue. Lucianna si identifica con la figura di Abele, la sua anima ne viene invasa e cerca quindi di capire e farci capire se veramente si tratta di un personaggio marginale o se invece è posto in quei termini, nella Bibbia, proprio per suscitare dubbi. Non è solo frutto del verseggiare, quello della Argentino, e nemmeno una trovata, è un totale coinvolgimento, un sentire davvero l’aleggiare di qualcuno, altro da noi, che nonostante l’impresenza è accanto come un’eco rinnovata e persistente. Lucianna non teme d’inoltrarsi in un cammino sconosciuto che le si attorciglia al fianco come un
“fosso scavato dalla separazione
– vuoto dell’incompletezza eppure campo
dove arare la riconciliazione”
e sarà un battito continuo che dalle viscere le inonderà il cervello in una costante dinamica di intersezioni tra la parola del figlio e quella della madre come un’etopea mirante all’assoluzione del conflitto tra generazioni diverse che si estrinseca nel ri-percorso di una transizione dalla polvere all’umano in una coscienzialità che ormai ne contempla solo il ricordo:
“…e in lei si rinnova il travaglio
della generazione del tempo in grembo all’eterno,
l’entrata della storia nel suo corpo
attraverso la sua bocca – cisterna per la semina
e la raccolta di ogni parola e nome nuovo
fatti racconto e dunque cosa che s’avvera”
La stesura del poema è impregnata di intima religiosità, infatti diventa quasi una preghiera mediante volteggi dell’anima in corrispondenza col divino. L’ispirazione è forte e avvinghia alla sublimazione delle parole come accade nei canti d’amore:
“Tutto era evidenza, perfetta aderenza
di essere e apparire,
tutto era dialogo, era fede
in noi terra e soffio di Dio
era l’amen perpetuo.”
Appare evidente l’identificazione tra Eva e l’autrice che distilla col cuore le parole poste sulla bocca di Abele, specchio di una esperienza travagliata e partorita con aggettante nudità in una diffrazione subliminale di pulsioni e sentimenti autentici mai contrastanti:
“Sfilati ad uno ad uno i fili del divino
inciampaste in una sapienza cieca
senza pudore vi scopriste inospitali;
perdeste la pratica semplice
che delle carezze hanno le mani.
Vi perdeste.
Fu disobbedienza, infedeltà, impazienza,
fu la naturale necessità di dubitare e una curiosità inetta
a sorprendervi nudi, a rapire il vostro sguardo.”
Mi soffermo su alcune immagini che sintetizzano i passaggi di un possibile eloquente fratello che non ha avuto il tempo di elaborare la fratellanza e forse neanche la figliolanza in una disamina dei versi che gli rassomigliano e lo rappresentano al meglio della sua estemporaneità:
“Nel giardino tutto si dispiegava limpido
davanti ai vostri occhi che videro il mondo
prima e dopo il tradimento, quando non ci fu più somiglianza
fra voi né intimità, quando il Dio si ritirò.”
Come è facile constatare come i versi hanno tutti una loro intrinseca valenza e raggiungono spesso momenti alti. Ecco un esempio:
“Da bambini io e Caino
cercammo il giardino, Caino voleva vedere
la fiamma della spada sfolgorante
e combattere con i cherubini per riconquistarlo…
non aveva capito.”
Abbiamo così l’opportunità di conoscere non solo la voce di Abele ma anche il suo pensiero che è profondo e completo di esperienza ed elaborazione. Abele perciò potrà dire: non aveva capito! Apprendiamo anche dell’intimità dei sentimenti di una vittima che non ha risentimenti di alcun genere nei confronti di un fratello suo carnefice e per rendere credibile tutto questo la Argentino fa rivolgere Abele alla madre con parole cariche di pathos:
“Tu, madre, raccontavi mentre Caino intagliava animali nel legno,
li faceva per me, il fratello minore che gli era stato affidato,
cui badava quando andavamo a fare il bagno nel fiume,
per cui inventava giochi ma il capo era sempre Caino,
Caino l’eroe, il condottiero, forte e abile.
Io amavo le creature del quinto giorno
anime senza la parola, pure come è puro
non ciò che si sporca ma ciò che sporcandosi
mostra la propria originaria innocenza.”
Una pagina importante è sicuramente quella riguardante la relazione col fratello, con la madre e la morte:
“Cosa era accaduto dentro di lui e tra lui e il Dio?
Come mai era sempre scuro il suo volto?”
[…]
“Per questo mi tremò l’intera vita quando mi chiamò,
la sua voce nel pronunciare il mio nome
risuonò come una supplica,
fu un falò che mi incendiò tutte le notti,
poi tacque.”
[…]
“La sua mano, quella stessa mano
che aiutava la terra a generare si alzò contro di me,
mi colpì e caddi…”
.”
La poetessa va avanti con un crescendo di immagini privo di incrinature e la melodia scorre senza interruzioni o dissonanze, senza fenditure, con un movimento ascensionale che cattura e Abele/Lucianna può scrivere ancora:
“Sarò l’accucciato. Sarò lo straniero.
Sarò nei fiori di campo recisi
stretti nel pugno di un bambino;
nel tremore delle mani di un vecchio
e nelle mani di chi quelle mani stringe.
Sarò il custode e il segno sulla fronte di Caino
-così tu mi torni fratello, nella mia ferita ti battezzi,
nella mia morte ti reincarni a nuova vita.”
Sicuramente questa lettura risente della mia formazione teologica ed è probabile che vi abbia travasato anche un po’ di me stesso, ma in fondo è quel che dovrebbe sempre accadere quando un libro ci coinvolge. Questo di Lucianna Argentino lo ha fatto e gliene sono grato. Anche per questo finale vibrante:
“Non l’ha creata il Dio la morte.
Arrivò all’ora sesta,
la ingoiammo e quella ci vomitò nel mondo
per un’altra vita nel primogenito
di quelli che risorgono dai morti.”
Francesco M. T. Tarantino