Un libro composto interamente da quartine, con qualche pagina in cui troviamo delle ottave che sono comunque la conferma di una misura che il poeta ha adottato caparbiamente, come a volere farci riflettere sulla esigenza di seguire delle regole precise, delle cadenze organizzate per evitare dispersioni di senso e di forma. E tutta questa impostazione quasi rigida per poi però esprimersi molto spesso con immagini e parole desuete, a volte prive di musica, di ritmo o con un ritmo che sembra arrivare dalle pale eoliche, dai virgulti della scienza che deborda verso un filosofare irrequieto che mette a disagio il lettore. Un disagio voluto e cercato per disorientare, ma anche per trovare nuovi assetti semantici, nuovo pullulare di immagini e di suoni che possano ridare corpo alla poesia che sta vivendo una stasi priva di qualsiasi necessità. Un poeta che abbia avuto conoscenze semplicemente nazionali, chiuso nel cerchio di esperienze innestate a senso unico nella tradizione italiana, non avrebbe potuto avere una “condotta poetica” così irriverente, fuori dagli schemi usuali, non avrebbe evitato la liricità e neppure la tentazione di avvalersi dei residui delle avanguardie storiche. Gabriele Natali Confortini invece è stato in giro per il mondo, si è confrontato con la poesia anglosassone, ne ha succhiato i dati meno appariscenti e più consoni al suo carattere e al suo gusto e ha messo mano a queste Albe ignare con un linguaggio che scorrazza per le vie impervie del postmoderno ribaltando a volte la radice degli stilemi, scompigliando i canoni, cercando affannosamente di instaurarne di nuovi. E’ come se egli fosse stanco e nauseato dalla tradizione che ha fatto incetta di lirismo e di eccessi retorici e volesse scardinare il vocabolario per trarne nessi e connubi inediti attraverso cui veicolare il suo dettato.
Vediamo più da vicino come il poeta si muove.
“Frase che scuoia pelle quotidiana / e pare che l’aria ferita intorno / non possa più riaversi del tutto e laggiù / in fondo al corridoio una testa piegata // forse da un dolore che ormai non fa notizia”: E’ l’incipit del libro e subito entriamo nel senso recondito del poeta che vuole, a un tempo, sviarci e comunque portarci all’interno di un recinto di nessi che catapultano in altri nessi fino a scomporre la realtà in una visione del particolare. Dopo di che si domanda: “E’ un gioco perverso l’Arte che i nostri / sensi schiude e prigionieri soggioga / felici in prodigiose catene?”.
Libro difficile, che si muove costantemente in luoghi non luoghi in cui le certezze svaporano o si ancorano a processi di impossibile immediato discernimento; libro ricco di quella saggezza che viene da lontano, probabilmente da Epicuro, da Epitteto, da Seneca, ma che non pesa nei versi, perché sfarinata in dosi omeopatiche e risolta in canto strozzato e variato, tanto che “… chi ti ascolta si sorprende / a ridisegnare i libri letti e / risfogliare le vicende a ritroso / a bere un romanzo dalle parole // che tu esitante generoso versi”. Gabriele Natali Confortini entra ed esce dai massimi sistemi del pensiero con grande disinvoltura, come un prestigiatore di biliardo che conosce i ghirigori della palla, il percorso che farà. Infatti non sarebbe giusto leggere Albe ignare come un poema che tende a scarnificare le incrostazioni dai luoghi comuni della cultura accumulatisi come riferimenti da cui non si dovrebbe prescindere. Il poeta non accetta le prassi, non accetta che ci si fermi alle apparenze e allora “Basterà che il tuo sguardo riapra / inquieta l’aria in attesa intorno: / rinata ogni parola grata al suono / si darà come per la prima volta”.
Nel quarto di copertina è scritto che “Quella di Gabriele Natali Confortini è una poesia che si può definire ‘ragionativa’ o ‘speculativa’, frutto quindi di lunghe riflessioni”. Giudizio perfetto, che sintetizza un lavoro nato da una serie di dubbi che s’incrociano e si dipanano in altri dubbi in una rincorsa esilarante che apre squarci desueti su molte argomentazioni, ma soprattutto sul fare poesia. Perché a tratti c’è la tentazione di fare metapoesia, di ricorrere alla teoria per specificare la turbolenza dell’anima che non è solo spirituale ed emotiva, ma anche filosofica. E a questo punto è il caso almeno di accennare all’annosa questione della poesia nemica della filosofia e viceversa. Un problema falso e inutile, che gli esempi di Tommaso Campanella e di Giacomo Leopardi, in particolare il Leopardi delle Operette Morali, dovrebbero da tempo avere fugato e che invece ciclicamente (si legga il Discorso sulla poesia di Salvatore Quasimodo) ritorna a infiammare gli animi, a condire le diatribe. Io dico che senza pensiero, senza la sostanza di un’idea portante non esistono che acquerelli delicati e abbozzi; la poesia ha bisogno di racchiudere la densità del clima culturale di un determinato momento che sa farsi momento universale e senza ragionamento e speculazione non è possibile ottenere se non vaghezze. Certo, dipende dalla bravura del poeta saper fermentare cultura e pensiero e renderli voli, immagini, stilettate che fiondano il senso e lo trasformano in senso nuovo. Come fa Gabriele Natali Confortini che in Assedio si apre a ventaglio per spiegarci il suo modo di essere e di fare, il suo essere poeta fuori dal coro, poeta che sa occhieggiare al futuro.
Dante Maffia