Non mi bolle in vena sapere se Giuseppe Tornatore abbia mai apprezzato Il colombre di Dino Buzzati e se il film Nuovo cinema Paradiso calchi le orme di un personaggio diverso da Stefano Roi dell’omonimo racconto dell’autore bellunese. Totò è stregato dal movies fin dalla tenera età ma ciò lo costringe a sfidare le ire materne per annegarsi nelle pellicole, ammaliato in un’assenza che lo estranea dagli eventi circostanti. Salvatore adulto, divenuto un regista famoso risiede a Roma dove riceve dalla madre la notizia della morte di Alfredo e qui un lungo flash-back cavalca il trentennio di storia che occupa per intero gran parte dello svolgimento. Si riscopre Totò bambino in un paese siciliano durante gli Anni Quaranta quando trascorreva intere giornate nella cabina di proiezione del Cinema Paradiso con l’operatore Alfredo che gli è legato da un affetto immenso e gli dà lezioni di tecnica e saggezza in pillole, apprese dai film. Nell’immediato dopoguerra, dal pulpito privilegiato, Totò assiste ai grandi successi dell’epoca e vede il mondo sotto la gonna del cinema. A seguito di un incendio salva Alfredo dalle fiamme che però perde la vista e sarà lui a prendere le redini del Nuovo cinema Paradiso, ragazzino e poi adolescente finché abbandonerà l’isola a causa di un amore contrastato mentre la scena della partenza si sovrappone al ritorno di Salvatore per il funerale del vecchio amico. Da qui muove la parte finale dove i nodi irrisolti della sua vicenda sentimentale mai vissuta si sciolgono nell’amplesso con Elena, nome che gli aveva acceso in cuore una guerra romanticamente omerica, e tutti i compagni si ritrovano ad assistere insieme alla demolizione del fabbricato che ospitava il cinema per cedere il posto a un parcheggio. Tornato nella capitale, Salvatore assapora il testamento lasciatogli da Alfredo, vale a dire gli spezzoni amorosi dei film che la censura del parroco locale aveva soppresso, riavvolti molto dopo attraverso la ritrovata fragranza carnale di Elena, una netta cesura rispetto al periodo della caserma e ai rapporti mercenari.
Anche Stefano Roi intrapreso a dodici anni il primo viaggio in mare incontra il colombre, uno squalo mostruoso e viene riportato a riva dal padre pescatore. Durante l’adolescenza e la prima giovinezza va a studiare in una città dell’entroterra, tuttavia assillato dal pensiero, raggiunge comunque il molo dove quel pesce carnivoro pare boccheggi ad attenderlo. A ventidue anni si licenzia dall’emporio per intraprendere il mestiere del genitore, nel frattempo deceduto, perché lo squalo è la sua condanna e non trova ragione per staccarsene. Raggiunta la maturità Stefano compra un mercantile; è il ricco sconfitto ma continua, scapolo mediocre, a solcare le acque, la mente ognora braccata dal selace famelico. Anzianissimo, invece di ritirarsi, segue la calamita dell’abisso (occasione per rinsaldare un vincolo rimosso, come la notizia della morte di Alfredo, tutte due sussurro dell’inconscio che parla nel petto per mezzo di traumi non rimarginati o per voce di Pupella Maggio, mamma Maria) e s’imbarca sulla scialuppa munito di arpione per affrontare il mostro marino. Trovatisi l’uno dirimpetto all’altro il pescecane giustifica i suoi morbosi inseguimenti con il pretesto della consegna di una “Perla del Mare” apportatrice di fortuna, pace, potenza, amore e riconquistata la via degli oceani, sparisce per sempre. In un secondo tempo il cadavere di Roi verrà rinvenuto al largo stecchito e con un sasso tondo, stretto tra gli arti scheletriti. Vorace e più astuto dei marinai, il suo passaggio riduce a una fuga continua. Stefano scappa dal pesce che ritiene un nemico ma allo stesso tempo ne è misteriosamente attratto, situazione paradossale che si risolve nella normalità dell’esercizio della pesca. Si è sempre vittime del destino sia quando è ostile, sia quando potrebbe rivelarsi favorevole, attori infelici tracciati in un disegno che mescola le tinte. Dentro scatole di mattoni o siluri di pinne a seconda dei vari contesti visivi o letterari dove è difficile fare centro pieno, un’odissea furiosa e nostalgica pone la strategia connettiva di moire incrociate sempre sottoposte alle verifiche di imprevisti a sfracellare inesorabili le vite. Desideri, mappe, distanze spalancano vani di incertezza sull’autoflagellazione quotidiana più vicina alla cronaca, a prescindere da una mera descrizione fantastica e visionaria. La regia narrativa sintetizza il canto di battaglia al titano poiché il diritto marittimo e della cinepresa è più rigido e severo di quello instaurato nel regime dell’ieri oggi domani. Affermazione decisiva che condiziona e suggerisce agli stadi belligeranti delle età di Stefano e Totò un balzo drammatico nelle viscere di un’Atlantide colata a picco per ripristinare l’illesa frontiera privata.
Nell’obiettivo cinematografico e in quello della penna di Buzzati la realizzazione definitiva di un progetto prevede la costruzione di un intreccio emblematico delle parabole vissute, sceneggiate sui ciak ambigui dell’aspettativa alimentata da chimere altrettanto vane, forziere a cui il salso ha eroso la combinazione. La sala del Cinema Paradiso è un’arena del fato, il condensato metaforico della gladiatoria condizione umana a partire dalla prima infanzia fino al suo estinguersi con il diventare maturi o senescenti, quanto il colombre riassume in sé la sfera pregiata. E’ tensione di attese a volte angosciose, a sprazzi accompagnate da speranze e slanci da annullare in azioni di cui non si può fare a meno, divorate dai rituali iniziatici delle stagioni in un pasto eucaristico. Buzzati e Tornatore intendono gettare ai propri protagonisti anche un’ombra rimasta indecifrata, li trasformano in presenze che ossessionano la sovrapposizione tra passato e presente nella dinamicità delle storie. Entrambi, Salvatore e Stefano, inastano le baionette a difesa di una trincea antropologica, poi ribadita dall’essere diventati adulti. Nel tentativo di raggiungere uno scopo e concludere la missione a cui consapevolmente ma con una dose di irrazionalità agnostica sono chiamati, ricevono ciascuno il plauso soggettivo della platea legati a momenti da un patto di sfida. I tagli della censura operati nelle pellicole riaffiorano nel ricordo di Salvatore al medesimo modo che porta Stefano a riprendere la bussola. Analogia a Il deserto dei Tartari e al sottotenente Drogo che assieme ai commilitoni stabilisce un legame di dipendenza dall’orizzonte brullo dove scaturirà l’orda nomade, momento di gloria e riscatto per una carriera umana prima che militare. Durante i suoi turni di guardia, l’infanzia protratta negli occhi dei protagonisti mette in luce l’instabilità del panorama circostante e abilita eccezionalmente Totò e Stefano nelle funzioni di sentinelle. Alimentano di continuo sogni ai quali associano emanazioni provate nel vedere o solo credere qualcosa che si agita nella celluloide come nei fondali, assecondandoli alla reazione che il caso in cui si trovano giustifica. L’ambiente esterno perde le sue dimensioni effettive per assumere connotati indefiniti nella stanza o nell’isolamento del mare per cui i passi misteriosi che si muovono all’interno di sottobanco e che rivelano scene epurate o mostri a galla, non cancellano l’inarcamento di un possibile scontro impari al di fuori di muri e scafi. Con uguale stratagemma l’identikit del pesce naviga su un registro alto che esalta l’alone meraviglioso, la versione fantastica e onirica non si sdoppia mai dalle vicende, non sviluppa un sentiero indipendente ma propone l’ambigua stortura del reale. “Ormai il cinematografo è solo un sogno” dirà il vecchio proprietario per l’avvento della televisione, “incredibile” per Alfredo perché si proietta senza pellicola e finirà per asserragliare la gente in casa. E’ un passaggio inaccessibile se da ciò derivano, assieme alla fragilità della persona, la sua impossibilità di aderire all’universo circostante per realizzarsi in una dimensione autentica, il senso dell’assurdo, il disagio di vivere in un’ansiosa precarietà.
Addirittura Buzzati lo rende con moduli stilistici che insistono sulla precisione del dettaglio, nel contempo carica la tensione di implicazioni simboliche e allusioni polisense. Nel momento in cui ci immerge ne Il colombre, con minuziosa insistenza esaspera il particolare e fa apparire l’allucinazione in un raggio ghiaccio che gli aggiunge credibilità, lo arresta in una scorciatoia asciutta dell’assurdo esilio cosmico e le idee rincorrono certi esiti raggiunti dallo scrittore nella pittura. Qual è allora l’ultima lezione di Buzzati? Sarà un’ottica rassegnata sulla deiezione heideggeriana dell’individuo lanciato come quella perla presto reperto fossile in un circuito ostile, oppure con la mediazione e rarefazione del simbolo l’invito a diffidare della vita e a negare l’esistenza? Una mole agonistica permea il racconto, la descrizione disadattata della tragica condizione intima, un dire no ai motivi che discriminano sulla terra, uno scuotere il capo più risoluto nei confronti della contemporaneità, steppa di miraggi mai lasciata orfana da una coscienza prematura. Resistono interrogativi irrisolti di una ideologia che certo non annuisce alle motivazioni della biblica caduta e alla sua connaturata colpa, piuttosto ammicca a fragilità ontologiche e storiche. Non sussiste alcun sentore di hybris, il delitto manca e non deve costituire reato al cospetto di nessun Dio, si lotta soli. Rimane però trasferita nei paragrafi la progressiva e schiacciante legione dell’arcano, l’elefantiasi della società che flagella negli speroni le vocazioni singole, il margine troppo labile affidato all’uomo da scelte imperscrutabili, “l’estinzione di una cineteca comunitaria” che, avvertita dall’adorabile Totò e proiettata in una parete del profondo Sud, è il rudere maciullato di una civiltà nostalgica in bianco e nero, in balìa fra radio e documentari della “Settimana Incom”.
Michele Rossitti